Un po’ per convinzione, molto per necessità. Perché di fronte al caotico vento della rivolta che spira in Medio Oriente, dall’Egitto allo Yemen, dalla Siria al Bahrein, Hamas e Fatah non potevano rappresentare l’elemento di stagnazione, fossilizzati in un sempre più asfissiante status quo.
Quella necessità insopprimibile di smuovere le acque stagnanti - a Gaza come a Ramallah - viaggiava ormai da mesi sul web, su Facebook e su Twitter, determinando una rete sempre più fitta e consapevole di giovani esasperati da una nomenclatura inamovibile al potere, sia nella sua versione islamista radicale sia in quella moderata; giovani che vogliono il rinnovamento, pronti come in Egitto a chiedere conto dei continui fallimenti di una classe poco dirigente. Una “rete” che invocava, rivendicava, esigeva un atto di unità.
L’intesa era diventata ormai obbligata anche a fronte dell'acclarata volontà del governo di destra-destra israeliano di “perpetuare il presente” parlando di negoziato ma, in realtà, continuando nella politica dei fatti compiuti: la ripresa della costruzione di case nelle colonie in Cisgiordania e i nuovi piani di edificazione di agglomerati ebraici a Gerusalemme Est ne sono una tangibile conferma.