di Umberto De Giovannangeli
L'accordo di riconciliazione fra le due principali fazioni palestinesi tenta di rispondere alle richieste della popolazione, in un momento in cui tutta la regione è in fermento. Israele non approva. A settembre proclamato lo Stato di Palestina?
Un po’ per convinzione, molto per necessità. Perché di fronte al caotico
vento della rivolta che spira in Medio Oriente, dall’Egitto allo Yemen, dalla Siria al Bahrein, Hamas e Fatah non potevano rappresentare l’elemento di stagnazione, fossilizzati in un sempre più asfissiante status quo.
Quella necessità insopprimibile di smuovere le acque stagnanti - a Gaza come a Ramallah - viaggiava ormai da mesi sul web, su Facebook e su Twitter, determinando una rete sempre più fitta e consapevole di giovani esasperati da una nomenclatura inamovibile al potere, sia nella sua versione islamista radicale sia in quella moderata; giovani che vogliono il rinnovamento, pronti come in Egitto a chiedere conto dei continui fallimenti di una classe poco dirigente. Una “rete” che invocava, rivendicava, esigeva un atto di unità.
L’intesa era diventata ormai obbligata anche a fronte dell'acclarata volontà del governo di destra-destra israeliano di “perpetuare il presente” parlando di negoziato ma, in realtà, continuando nella politica dei fatti compiuti: la ripresa della costruzione di case nelle colonie in Cisgiordania e i nuovi piani di edificazione di agglomerati ebraici a Gerusalemme Est ne sono una tangibile conferma.