martedì 4 dicembre 2012

Messico - I movimenti sociali contro l'insediamento di Pena Nieto


Il primo dicembre, giornata di insediamento come Presidente di Enrique Pena Nieto a Città del Messico e in altre città del paese si è fatta sentire la protesta contro un presidente che tanti ritengono illegittimo. A Città del Messico le cariche sono state molto dure contro i manifestanti.

di Giovanna Gasaparello dal Messico.


Più di cento arresti e decine di feriti: con questo drammatico bilancio inizia il governo di Enrique Peña Nieto e del Partido Revolucionario Institucional. Le immagini degli scontri di piazza, dove all’ira dei manifestanti l’enorme spiegamento di polizia in assetto antisommossa ha risposto con una violenza estrema (lancio di lacrimogeni al gas CS e pallottole di gomma, uso di idranti, etc), rimanda alle manifestazioni nostrane di Genova 2001, o Roma 2011. D’altro canto, ciò che è successo ieri per le strade del centro di Città del Messico ma anche all’esterno della Fiera Internazionale del Libro di Guadalajara (dove sono stati 20 i feriti tra i manifestanti) era chiaramente prevedibile: da una settimana le vicinanze del Parlamento, dove si è svolta la prima parte della cerimonia ufficiale, erano state blindate e rese inaccessibili anche agli abitanti: altissime transenne metalliche e uno spiegamento permanente di polizia aveva trasformato l’intero quartiere in una vera e propria zona rossa. Nonostante le reiterate proteste dei manifestanti e dei partiti di opposizione, l’assedio è stato mantenuto per tutta la settimana fino al giorno cruciale. La gestione sanguinaria dell’ordine pubblico non rappresenta un cattivo inizio, ma piuttosto una pessima continuazione nell’esercizio del governo da parte di Enrique Peña Nieto: non dimentichiamo che era lui al governo dello Stato del Messico, e dunque l’autorità direttamente responsabile, quando nel 2006 la manifestazione del Frente de Los Pueblos en Defensa de la Tierra e degli abitanti di San Salvador Atenco fu duramente repressa, causando due giorni di scontri nella cittadina, due giovani manifestanti uccisi e decine di arrestati che passarono diversi anni in carcere prima di venire liberati con un verdetto di Cassazione. Dopo l’arresto, decine di donne arrestate furono violentate nei furgoni cellulari e nelle caserme di polizia. Al rispetto, l’allora governatore ed attuale presidente del Messico, non ha mai riconosciuto le efferate violazioni ai diritti umani commesse dalla polizia; e, a testa alta, inizia un nuovo governo che certo non promette proprio niente di buono.
Ricordiamo che le elezioni dello scorso luglio erano state macchiate da evidentissimi brogli: corruzione, voti comperati, etc. Il nuovo presidente ha dunque preso il potere con fortissime accuse di illegittimità e tra lo scontento di grandi fasce della popolazione: la sinistra parlamentare (in particolare quella riunita attorno all’ex-candidato Andrès Manuel Lopez Obrador ed al suo Movimiento de Regeneracion Nacional), i moltissimi sostenitori del Movimento Yo Soy 132 (nato nelle università ma poi ampliatosi a molte altre realtà, prima delle elezioni ha svolto un’importante funzione nel denunciare il ruolo dei mass-media e nella manipolazione politica dell’opinione pubblica e nel rimettere sul piano del dibattito la questione della democrazia), ma anche i sindacati dei maestri, i collettivi studenteschi, e molte altre diverse realtà organizzative che erano per le strade di Città del Messico il 1 dicembre, giunti da diverse parti del paese. Non solo nella capitale, ma in moltissime città del Messico la gente ha risposto all’appello lanciato principalmente da Yo Soy 132 e Morena, scendendo in piazza perlopiù in modo pacifico.

Per ulteriori approfondimenti

Quatar - Cop 18 Doha: conferenza mondiale sull'effetto serra e dintorni


2012 è la fine del mondo .... è un business lo sappiamo bene, ancor di più se vogliamo osservare quello che sta succedendo a Doha
Se i luoghi vogliono dire qualcosa sullo stato del dibattito intorno al cambio climatico, siamo messi molto male: siamo passati dalla Cop a Copenhagen con la "speranza della green economy" obamiana, messa in cantina dalla crisi, a Doha in Quatar, uno degli stati petrolieri e quindi maggiormente interessati alle scelte sui combustibili fossili, passando per Cancun, luogo della devastazione turistica di un intero territorio e per Durban, città della crescita senza barriere ambientali dell'ultimo dei Brics, in Sudafrica.
Doha simbolo del sistema che si vuol tenere, anche dopo che la tempesta perfetta Sandy ha devastato la costa nord orientale degli USA, richiamando alla memoria i migliori film catastrofisti e dopo quanto di terribilmente materiale incombe su tutti noi dietro i cambiamenti climatici: in questi giorni lo abbiamo visto da vicino, anche in Italia. La tromba d'aria sull'ILVA a Taranto, la bomba d'acqua sulla Toscana, i nubifragi continui in Liguria, il continuo pericolo esondazione in mezzo Veneto sono continui campanelli d'allarme che questo sistema economico non vuole sentire e che vorrebbe tacitare con tecnicismi quali le emissioni pro capite anzichè per Stato ... ma noi, i cittadini del mondo, non possiamo più accettare passivi il gioco delle tre carte sulla nostra pelle: è ora di porre rimedio al più presto.
Per capire cosa sta succedendo a Doha vi proponiamo un articolo collage tratto da numerosi siti.
I lavori della diciottesima Conferenza delle parti sui mutamenti climatici qui a Doha proseguono e venerdì, giorno previsto per la chiusura, non è molto lontano, ma certo i punti fermi non sono molti. Si è deciso che la Polonia sarà la sede della prossima COP19, nel novembre del 2013, cosa che ha suscitato non poche perplessità visto che parliamo di un Governo, quello di Varsavia che da oltre un anno sta bloccando le negoziazioni fermando sul nascere qualsiasi tentativo di passo avanti da parte dell'Unione Europea.
E se Sua Eccellenza Abdullah bin Hamad Al-Attiyah, Presidente di questa Conferenza, rappresentando il Qatar che è il paese con le più alte emissioni procapite al mondo, continua ad esprimere la propria contrarietà ad un piano di mitigazione delle emissioni basato su un modello procapite, si discute molto sul modello da adottare nel nuovo accordo globale previsto dalla Durban Platform (ADP), quella uscita dalla COP17 dello scorso anno a partire dal 2020. Per il principio delle comuni ma differenziate responsabilità, il sistema procapite garantirebbe maggiore equità tuttavia avvantaggerebbe Paesi come la Cina, oggi con le maggiori emissioni di gas serra al mondo ma, allo stesso tempo, con percentuali di emissioni procapite molto più basse di Stati Uniti o Unione Europea.
La 18ma conferenza mondiale sui cambiamenti climatici che si sta tenendo a Doha, vede svilupparsi il dibattito tra le oltre 190 nazioni coinvolte nei negoziati. Ma cosa si evince dai primi dibattiti?
Anzitutto i paesi del blocco Basic (Brasile e Cina in primis) ribadiscono che la responsabilità del successo o fallimento dei negoziati è in mano ai paesi ricchi, e l'UE, la Svizzera e l'Australia si dichiarano pronte a firmare la seconda parte del protocollo di Kyoto.
La conferenza di Doha prosegue e vede alcune prime prese di posizione: i paesi del blocco Basic (Brasile, Sud Africa, India, Cina), ribadiscono subito che la responsabilità dei negoziati è in mano ai paesi ricchi, come per mettere in chiaro che al riguardo non servono giri di parole. Altro momento di rilievo è stata la comunicazione ufficiale da parte dell'UE, della Svizzera e dell'Australia di voler firmare la seconda fase del protocollo di Kyoto, comunicazione che conferma le volontà già rese note negli scorsi mesi. Per il momento, nessun accodamento di rilievo riguardo a Kyoto 2.
E mentre l'UNEP [agenzia ONU sul clima ed inquinamento] lancia un nuovo appello alle nazioni affinché prendano decisioni forti e subito, poichéSenza interventi rapidi anti-CO2, gli impegni attuali di riduzione delle emissioni di gas serra dei governi porteranno ad un riscaldamento del Pianeta fra i 3 e i 5 gradi centigradi entro questo secoloil Canada mantiene la sua posizione contraria ai negoziati in palese difesa del proprio interesse nel petrolio. Il ministro dell'ambiente italiano Corrado Clini, dal canto suo, ha commentato come segue l'urgenza di arginare i mutamenti climatici: "È un problema che non riguarda solo i paesi in via di sviluppo. Il fatto è che si avranno crescenti danni ai territori, soprattutto nelle città più ricche e lo dimostrano il caso di New York, ma anche di Genova, della Toscana e di Roma."
Belle parole, che tuttavia non devono restare tali ma diventare fatti, come sottolinea polemicamente (e a ragione) Greenpeace, che ricorda come da questa conferenza devono uscire fatti non parole.
È ora che i governi, compreso quello italiano che promuove il carbone e le trivellazioni in mare, si diano da fare per rappresentare concretamente gli interessi delle popolazioni, sempre più vittime del cambiamento climatico, e non quelli delle imprese fossili, dai petrolieri a chi costruisce centrali a carbone, che di tutto questo sono responsabili.
Come ci ricordava ieri il pezzo di Chiara Zanotelli, una delle ragazze trentine che, nel giugno scorso, avevano partecipato a Rio +20 in Brasile, si è aperta lo scorso lunedì a Doha la 18esima Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici(Cop18) che chiude una fase storica dei negoziati sul clima, quella in cui ci si era illusi che per superare la crisi climatica fosse sufficiente l'impegno legalmente vincolante nella riduzione delle emissioni dei soli paesi industrializzati. Non è stato così. Per risolvere l'innalzamento della temperatura globale, la riduzione delle emissioni di CO2 e il finanziamento di un fondo mondiale per il clima si riparte dal Qatar, un gigante mondiale del petrolio che detiene il record mondiale di emissioni di CO2 pro capite e il record mondiale di consumo di acqua con 1.200 litri per abitante al giorno. Anche per questo la Cop18 di Doha punta anche simbolicamente sul risparmio di energia e di materia, infatti, sarà la prima conferenza dell'Onu dove i partecipanti saranno dotati di copie digitali dei documenti, per ridurre l'inquinamento del traffico i delegati si sposteranno con un centinaio di autobus a gas e gli organizzatori hanno dichiarato che l'intero evento sarà carbon neutral, con le emissioni prodotte che saranno compensate da investimenti in progetti di riduzione o assorbimento della CO2. Un'autentica sfida per il più grande meeting mai ospitato dal Qatar con oltre 17mila persone da 194 Paesi che fino al 7 dicembre tenteranno di mettere in agenda un nuovo accordo globale sul clima vincolante per tutti i Paesi "nel pieno rispetto dell'equità, secondo il principio di responsabilità comuni, ma differenziate tra paesi ricchi e poveri". Queste almeno le premesse già concordate a Durban lo scorso anno, e che dovranno essere sottoscritte entro il 2015 e divenire operative entro il 2020, non oltre.
Ma siamo veramente all'ultima chiamata sul clima?
Se non bastassero i devastanti fenomeni meteorologici come la tempesta Sandy o in questi giorni il ciclone Medusa (nel Belpaese aiutati dal mal governo del territorio) i dubbi sembrano pochi. Secondo l'United Nations environment programme (Unep) che ha presentato alla Cop 18 il rapportoPolicy Implications of Warming Permafrost il permafrost che copre circa un quarto dell'emisfero nord (comprese anche aree delle Alpi), potrebbe contenere fino a 1.700 gigatonnellate di CO2, cioè il doppio della quantità presente attualmente nell'atmosfera e "Se lo scioglimento dei ghiacci prosegue al ritmo previsto dalle modellizzazioni del clima, la liberazione dei gas serra stoccati nei ghiacci del permafrost amplificherà il riscaldamento climatico in maniera significativa". Per l'ultimo rapporto Trends in global CO2 emissions(.pdf) pubblicato a luglio dal Joint Research Centre della Commissione Europea, malgrado gli sforzi di riduzione promessi da molti paesi industrializzati e la fase di bassa crescita frutto della crisi economica, le emissioni di CO2 sono cresciute su scala globale anche nel 2011, facendo segnare un deciso +2,7%.
Valutazioni poco rassicuranti arrivano anche dalla World Meteorological Organization che nell'ultimo bollettino avverte come tra il 1990 e il 2011 si sia verificato un incremento del 30% dell'influenza della CO2 antropica nell'atmosfera. A mettere definitivamente in guardia sugli effetti negativi di un clima fuori controllo è anche il nuovo rapporto Turn Down the Heat commissionato dalla Banca Mondiale al Potsdam Institute for Climate Impact Research. La raccomandazione di questi report è sempre e soltanto una sola:concertare un'azione ambiziosa, repentina e condivisa da tutte le parti in gioco per mantenere la Terra sotto il celebre tipping point dei 2°C di aumento della temperatura mondiale, visto che gli impegni di riduzione attuali ci stanno portando verso una via di non ritorno, con un surriscaldamento stimato tra i 3.5°C e i 6°C. Il Pianeta, insomma, è sulla buona strada per raggiungere un aumento della temperatura di 4° C entro il 2100, condannando le nuove generazioni ad un futuro di tempeste e ondate di calore estreme, scorte alimentari in calo, perdita di ecosistemi e biodiversità, e un aumento del livello del mare incompatibile con la vita.
Insomma per chi non se ne fosse accorto quello che stiamo vivendo "Non è un cambio di stagione" (come ci ricordava Martín Caparrós con una critica costruttiva all'emergenza climatica pubblicata nel 2011) e per questo "È fondamentale approvare già a Doha il rinnovo degli impegni previsti dal Protocollo di Kyoto, in scadenza alla fine di quest'anno"ha dichiarato lunedì scorso Mauro Albrizio, responsabile delle Politiche Europee di Legambiente. Sino ad ora, tra i paesi industrializzati, hanno garantito la sottoscrizione i 27 membri dell'Unione europea, la Svizzera e la Norvegia, più o meno il 15% delle emissioni globali. Mentre Australia e Nuova Zelanda devono ancora assumere una decisione finale, Paesi come USA, Canada, Giappone e Russia si sono già detti contrari. Purtroppo "Nonostante le perpelssità il Kyoto 2 è uno strumento indispensabile a garantire la transizione verso il nuovo accordo globale" ha concluso Albrizio.
Per Legambiente ed altre ong internazionali presenti a Dhoa una soluzione di buon senso esiste: "ma restano ancora da sciogliere alcuni nodi giuridici per risolvere la questione spinosa del surplus di emissioni di CO2 dei Paesi industrializzati - ha spiegato Wael Hmaidan, direttore di Climate action network -. Se si continua a consentire la possibilità di vendere sul mercato delle emissioni di CO2 le quote in eccesso, si rischia di rendere virtuali gli impegni di riduzione dei paesi acquirenti".
Altra decisione fondamentale per il buon esito di Doha riguarda gli aiuti ai Paesi poveri. "Per sostenere i loro impegni di riduzione e di adattamento ai cambiamenti climatici in corso nel periodo di transizione 2013-2015 occorre un sostegno finanziario annuo di almeno 10-15 miliardi di dollari" ha spiegato Samantha Smith, responsabile Global climate and energy work del Wwf. "Serve, infine - ha concluso Albrizio - l'eliminazione entro il 2020 dei sussidi ai combustibili fossili. Si tratta di circa 800 miliardi di dollari l'anno che potrebbero essere invece destinati a sostenere azioni a favore delle energie rinnovabili. Oltre 110 Paesi si sono già espressi a favore di una decisione ormai non più rinviabile".
Staremo a vedere, ma una cosa è certa: Doha in questi ultimi 5 giorni di lavoro deve inviare segnali importanti sul fatto che il mondo possa ancora riuscire a mantenere il riscaldamento entro limiti tollerabili, oppure chiarire se siamo diretti verso un grave caos climatico che relegherà l'ambiente a "far notizia" solo in concomitanza di catastrofi sempre meno naturali e sempre più diverse da un normale cambio di stagione.
Articolo collage tratto da:
www.greenreport.it
www.ecologiae.com
www.unimondo.org

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!