“Ci sono dodici milioni di curdi in Iran che sono
costretti a vivere in condizioni molto difficili, sia per quanto
riguarda l’aspetto economico che quello dei diritti umani. Sono
impegnati solo in mestieri umili, quelli che riescono a trovare un
impiego. Molti lavorano la terra e sono impiegati nelle campagne ma
pensare di fare carriera o occupare posti di rilievo è impensabile.
Il
PJAK (Free Life Party of Kurdistan) è l’unica forza politica che è
impegnata nel difendere i diritti dei curdi, ma naturalmente è un
partito illegale. La Repubblica Islamica giudica tutti coloro che
portano avanti le vertenze dei curdi come dei traditori e questo implica
che molti attivisti politici siano stati rinchiusi nelle carcere e
sottoposti a torture. Chi viene giudicato un traditore viene giustiziato
senza un giusto processo. Ci sono circa 1260 detenuti politici curdi in
Iran.
Lo stesso rischio lo corrono anche tutti coloro che osano parlare
di quest’argomento e mettere in discussione l’autorità. Ci sono anche
molti giornalisti rinchiusi nelle galere iraniane anche solo perché
hanno osato parlare di diritti umani negati. E non sono tutti
necessariamente di origine curda. Chiunque anche solo osi mettere al
centro certe questioni rischia non solo la reclusione ma addirittura la
vita”.
A pronunciare queste parole è Shirzad Kamangar, tra gli uomini di
spicco del partito curdo iraniano. Costretto all’esilio, vive la
maggior parte del suo tempo a Bruxelles dove lo abbiamo incontrato.
Ma com’è la situazione di chi sceglie di lottare per i diritti in Iran?
“Chi ha scelto di fare politica è costretto a uscire dal Paese e questo
implica l’impossibilità di rientrare perché messo piede sul suolo
iraniano la conseguenza immediata sarebbe l’arresto. Il problema poi si
presenta per i familiari che rimangono perché il governo impossibilitato
ad arrestare chi vive all’estero e quindi se la prende con loro. Io
sono stato in prigione diverse volte e dopo l’ultima volta ho scelto di
abbandonare la mia terra e le persone a me care. Non potere rientrare è
ovvio che è un dolore. Ma la cosa più difficile da accettare sono le
ritorsione che subiscono i cari dei fuoriusciti. Mio fratello ad esempio
era un insegnante di scuola elementare ed è stato arrestato e
giustiziato dopo un processo sommario solo perché era mio fratello. Non
era certo un attivista politico, eppure ha pagato con la vita il solo
fatto di essere mio fratello”.
Che ruolo ha a tuo parere l’Iran con Is?
“Il ruolo dell’Iran nella questione Is è quello di supporto al
Califfato. Chiaro che non lo dichiara apertamente ma è un fatto. Un po’
come fa la Turchia. Nessuno lo dice chiaramente ma la questione è per
noi molto chiara. E non si tratta solo di una questione ideologica, ma
anche pratica che però nessuno ha voglia di affrontare. Mi riferisco
alla comunità internazionale. Il problema è anche che è molto complicato
fare uscire notizie dall’Iran, impossibile poi anche solo fare un
lavoro di inchiesta o di denuncia sulla questione. Credete sia possibile
anche per un giornalista straniero, occidentale, entrare in Iran e
raccogliere testimonianze sulla condizione dei curdi o sui rapporti di
questa grande potenza e Daesh?
Chiunque anche solo volesse provarci,
sarebbe immediatamente tacciato di attività spionistica. La conseguenza
immediata sarebbe la carcerazione.”
Che prospettive ci sono secondo te per il futuro?
“Quello che pensiamo come comunità curda intesa nella sua quasi totalità
è che è sui diritti che dobbiamo concentrare la nostra battaglia. Per
questo siamo uniti alla lotta in Rojava ma anche sostegno al partito
turco curdo HDP che è una bella spina nel fianco di Erdogan. Diversa è
la questione nel Kurdistan iracheno ma quelle sono problematiche interne
alla nostra comunità e di più facile soluzione. Oggi dobbiamo essere
tutti compatti per fare si che i curdi sparsi nei vari territori
ottengano finalmente il rispetto non solo dei diritti umani ma anche sul
piano della libertà di espressione. Senza il raggiungimento di questi
elementi, il popolo curdo non sarà mai libero, che si trovi a vivere in
Iran, in Turchia, in quel che rimane della Siria o in Iraq”.
di Ivan Compasso, Articolo21
giovedì 16 luglio 2015
sabato 4 luglio 2015
Kurdistan - Appello per la pace delle donne di Turchia
Le organizzazioni delle donne in Turchia
hanno rilasciato un comunicato congiunto dal titolo ”Noi insistiamo per
la pace” dichiarando che le donne manterranno la loro determinazione nel
lottare per la pace e hanno avvertito i politici e i media di non
presentare la guerra come un’alternativa alla risoluzione pacifica.
Le donne hanno ricordato il selvaggio
attacco a Kobanê del 25 giugno costato la vita a 230 civili, e hanno
affermato che il massacro ha creato un profondo dolore e rabbia; tuttavia
hanno rafforzato la volontà di lottare per la pace invece che
scomporsi.
Il comunicato delle donne ha attirato
l’attenzione sul fatto che l’attacco a Kobanê dimostra la preparazione
di un nuovo periodo di guerra e hanno dichiarato: ”Mentre vi è una guerra
al di fuori dei confini, diventa tutto più difficile sviluppare la pace
all’interno dei confini. Negli ultimi tre mesi il processo di pace è
giunto a una battuta d’arresto. Quando abbiamo pensato che è stato
raggiunto un consenso per la democratizzazione della Turchia e della
pace sociale, l’odio, ostilità e la rabbia sono diventati di nuovo parte
della vita quotidiana “.
Le donne hanno aggiunto che queste
politiche di guerra sono state sviluppate nonostante la maggioranza
della società nelle ultime elezioni politiche aveva chiesto la pace.
Chiamando in causa i politici le donne
hanno detto:”Mentre vi è un nuovo parlamento dove le differenze del
paese sono bene rappresentate,non portate la guerra e i bollettini di
guerra come soluzione di ogni problema” e hanno ricordato che un nuovo
governo non si è ancora costituito e dunque un governo temporaneo non
può assumere la decisione di guerra nel nome di milioni di persone.
Le donne hanno sottolineato che la
maggioranza della società alle elezioni ha votato per la pace,e perciò
il nuovo parlamento deve agire per sostenere la pace e hanno aggiunto
che prima che inizino i lavori ufficiali del nuovo parlamento,un vecchio
disegno di legge non può essere fatto sul terreno della guerra.
Le donne hanno anche chiesto agli organi
dei media di essere la voce della pace e per far prevalere il
giornalismo di pace e il linguaggio della pace.Le donne hanno anche
invitato tutte le donne ad insistere sulla pace e hanno dichiarato:
“Sappiamo tutti molto bene che cosa significa la guerra. Questo è il
motivo per cui dobbiamo insistere sulla pace. Diffondiamo la pace a
tutto il paese e gridiamo tutte ‘Siamo determinate per la pace”.
Il comunicato congiunto è stato
rilasciato su richiesta dell’Iniziativa delle donne per la pace e
sottoscritta dalle organizzazioni femministe, dai comitati delle
organizzazioni sindacali, gruppi di studentesse e altre organizzazioni
indipendenti delle donne.
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Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.
La lucha sigue!