mercoledì 30 maggio 2018

Cile - La mobilitazione femminista in Cile e le sfide del femminismo intersezionale

di Alexia Vásquez e Paulette Jara

Da settimane il Cile è scosso da quello che molti hanno chiamato la mobilitazione femminista più importante dagli anni Settanta. In risposta alle numerose denunce di molestia sessuale nelle prestigiose università del Paese, le studentesse hanno deciso di bloccare le attività accademiche e occuparne le istituzioni per rivendicare un cambiamento nel campo dell’educazione. Più di una decina di università e licei sono in mobilitazione.

Queste mobilitazioni nascono dopo anni di lavoro da parte delle femministe nelle istituzioni educative, impegnate nella creazione di reti di appoggio per le vittime della violenza machista, assieme ai protocolli contro l’abuso e le molestie sessuali.

Già nelle mobilitazioni dell’anno 2011 (le più grandi dal ritorno della democrazia), le studentesse avevano sollevato l’importanza di avere una educazione femminista e non sessista.

A questa lenta e progressiva organizzazione si sono sommati due fattori scatenanti. Il primo caso è stato quello della Univesidad Austral, nella quale il rettore ha deciso di cambiare di funzione un accademico della Facoltà di Scienze come risposta a una accusa di molestie da parte di una funzionaria dell’istituzione. Precedentemente, l’indagine interna dell’Ispezione del Lavoro aveva classificato i fatti come “molestia sessuale grave” e “molestia ambientale”, raccomandandone l’allontanamento. Di fronte a questo scenario, la comunità educativa si è organizzata per fare pressione sul rettore, che ha dovuto fare marcia indietro e destituire l’accademico.

Il secondo caso è stato quello di una studentessa della Facoltà di Diritto della Università di Cile che ha denunciato il prestigioso professore Carlos Carmona, ex presidente del Tribunale Costituzionale del Paese, per abuso sessuale. Il ritardo nell’indagine e l’assenza di misure volte alla protezione della studentessa, hanno provocato la mobilitazione delle sue compagne che hanno denunciato come il professore abbia continuato a esercitare le sue funzioni di docenza proprio mentre si stavano portando avanti le indagini.

Poco a poco, le denunce delle studentesse rivolte ai colleghi e agli accademici hanno fatto uscire allo scoperto altri casi di molestie e abusi.
È tristemente celebre una raccolta di storie nella Facoltá di Diritto della Pontificia Universitá Cattolica del Cile, i cui professori hanno detto dalle cattedre in diverse occasioni che le donne non vanno a studiare le leggi ma a trovare marito, o che si sentono liberi di commentare lo scollo delle studentesse (“lei è venuta qui per la prova orale o affinché la mungano?”).

Come reazione, il blocco delle attività e le occupazioni degli edifici si sono allargate a tutto il Paese, imponendo il tema nell’agenda pubblica.

Tutto questo si è riflesso nel corteo di massa contro l’educazione sessista di mercoledì 16 maggio e nella discussione del femminismo in molti spazi che di consueto sono poco aperti al tema, come ad esempio le trasmissioni della mattina nei canali della televisione cilena.

Ciò detto, tra le rivendicazioni delle studentesse possiamo risaltare: la rapida risoluzione dei casi di molestia e abuso sessuale; l’elaborazione di un protocollo unico per le denunce in ambito educativo; la conversione dei licei pubblici emblematici in scuole miste (oggi sono divise in base al sesso); l’educazione sessuale non sessista; la formazione specifica in sessimo e identitá di genere che abbia carattere triplice (per studenti, docenti e funzionari).

In sintesi, le studentesse considerano che l’elaborazione e la risoluzione dei protocolli sono la punta di un iceberg di un paradigma che è necessario cambiare, poiché non si tratta solo dei molestatori, ma di tutta la comunità. Si rivendica, pertanto, il passaggio a una educazione pubblica, femminista e non sessista.



Le sfide della mobilitazione femminista

I primi risultati della mobilitazione femminista si iniziano già a vedere e anche per questo stanno sorgendo delle importanti sfide. Una di queste è conferire contenuto a ciò che si intende per “femminismo”, nella forma più chiara possibile.

Per chi scrive, che si ritrova ad affrontare il partiarcato a partire da un movimento politico misto, che ha la pretesa di offrire una alternativa di conduzione politica al Paese, la sfida è straordinariamente ambiziosa, perché secondo la nostra analisi non è il patriarcato l’unico oppressore.

Partendo da queste premesse e perché le strutture e i fini della nostra organizzazione ci impongono di ripensare tutto, noi rispondiamo: il femminismo è la resistenza a tutte le forme di oppressione e per questo deve necessariamente essere intersezionale.
Il patriarcato opprime perché ci educa sin dall’infanzia attraverso le nostre proprie famiglie, quartieri e scuole, rispetto ai ruoli che ci si aspetta che compiamo come “donne” o come “uomini”, in questo ordine si nascondono le forme di oppressione che più tardi riproduciamo negli spazi in cui viviamo, lavoriamo e ci ricreiamo.

Ma in questo processo il patriarcato non opera da solo e per questo il nostro femminismo ha un cognome: intersezionale. Questo significa che le riflessioni e proposte femministe devono necessariamente ed esplicitamente premettere che non è solo il nostro genere e la nostra orientazione e identitá sessuale a determinare l’oppressione, ma anche la classe sociale. Nessuno può negare che le donne povere si sono storicamente fatte carico della peggior parte e per diagnosticare adeguatamente questa oppressione è indispensabile considerare, inoltre, se sono lesbiche e/o trans o se sono state esposte all’omofobia o alla transfobia.

A questa analisi si somma l’etnia, la razza e la nazionalità che anche determinano a quanta oppressione è esposto un bambino o una bambina e il divenire della sua etnia, razza e nazione lo accompagnerà e lo determinerà per tutta la sua vita. La lista non è corta e il grado d’importanza di questi fattori non si può misurare matematicamente. Anche la presenza di una (dis)capacità e lo stato di salute determinano quanta oppressione sperimentiamo, così come l’età, l’obbligo di seguire (o non seguire) una religione, sono solo alcuni elementi.



Una seconda sfida risponde al necessario apprendimento che dobbiamo fare in quanto parte della mobilitazione stessa, sia nelle istituzioni educative che in ciascuno dei movimenti e partiti che la compongono, per organizzare le nostre vite e militanze in maniera intersezionale.

Se la repressione è sistematica e intersezionale, anche la risposta deve esserlo. In questa costruzione nessuno é di troppo e tutti e tutte siamo chiamate a lavorare, tanto che ci facciamo un favore denunciando l’oppressione e smettendo finalmente di invisibilizzarla, ci facciamo un favore se mentre ci facciamo carico di quanto sia doloroso lavorare, coscienti dell’oppressione, restiamo uniti e cooperiamo insieme. Non saranno mai vani gli sforzi per (ri)costruire la fiducia reciproca, perché l’uscita non è iniziare un’operazione di polizia retroattiva che ci porti a dividere vittime da una parte e carnefici dall’altra, ma quella di unirci in uno stesso percorso femminista e trasformatore.

Come organizzazione femminista affrontiamo la sfida di doverci organizzare in un contesto definito da regole culturali del patriarcato.

È quindi imprescindibile essere espliciti nel segnalare che abbiamo molto da migliorare nell’implementazione dei protocolli che si adottano per i casi di molestia, nelle forme in cui mettiamo a valore il lavoro che svolgiamo nell’organizzazione, nell’ appoggio alla conduzione femminile e femminista, nella revisione delle forme con cui valutiamo il leaderismo maschile e nelle forme con le quali stiamo creando le condizioni per chi abbia un lavoro domestico di partecipare nel lavoro político. Lo stiamo facendo anche nei percorsi di apprendimento e di vita in comune tra compagni/e e sulla fiducia che ci dobbiamo costruire in maniera permanente tra compagni e compagne.

Per nessuno è di troppo una lezione sull’educazione non sessista e le organizzazioni politiche non fanno eccezione. Se oltre a questo ci siamo date mete ambiziose come quella di costruire una alternativa politica per il Cile che sia femminista e intersezionale, dobbiamo integrarla con i migliori e i più sinceri dei nostri sforzi nell’imparare a lavorare collettivamente.

Le studentesse in Cile ci stanno insegnando quale è il camino, dobbiamo solo percorrerlo.


Pubblicato sul sito indipendente argentino Marcha.org. Traduzione in italiano a cura di DINAMOpress.

*Alexia Vásquez è sociologa e Paulette Jara avvocata, militanti cilene del Movimento Autonomista

martedì 29 maggio 2018

SudAfrica - Costruiamo case, ma non ne abbiamo

Christopher è un muratore, Immanuel fa l’elettricista, Talitha e Johanna sono domestiche: insieme a migliaia di persone vivono nelle baraccopoli del Sud Africa e fanno parte del movimento Abhalali baseMjondolo. Immanuel ha contribuito a costruire il Mall of Africa, il più grande centro commerciale del continente, ma vive in una baracca a Good Hope, appena fuori Johannesburg. “Costruiamo le vostre case, ma non ne abbiamo nessuna”. Ogni giorno quelli di Abahlali lottano per difendere la terra delle proprie baracche, occupano terre abbandonate e cominciano a tirar su gruppi di case, con almeno una scuola e un centro medico, senza aspettare gli interventi dello Stato o delle amministrazioni comunali. Oltre a sperimentare impensabili forme di autogestione e a rifiutare l’uso della violenza nelle loro proteste, il movimento è noto perché a mettere i corpi in gioco nelle occupazioni, oggetto di continue repressioni, sono per lo più donne. Sono le gogos e le mamas, cioè le nonne e le madri, racconta Vijay Prashad  “che stanno costringendo il Sud Africa a essere un società decente...”. Il mondo dei nessuno non smette di creare speranza 

In questa pagina, alcune foto sulla vita del movimento sudafricano Abahlali baseMjondolo tra occupazioni, assemblee, proteste, incontri di formazioni autogestiti

di Vijay Prashad*

Talitha e Johanna sono domestiche. Guadagnano 150 Rand (1 R equivale a 0,0676 euro, Ndt) al giorno che è il prezzo di un gallone (4,5 litri) di latte, di una libbra di formaggio, di una pagnotta di pane, e di quattro arance. Potrebbero mangiare soltanto per un giorno, ma questo è quanto. Mi sorridono quando chiedo loro come riescono a tirare avanti. Johanna dice: “A fatica”.

Vivono nella baraccopoli di Good Hope, un pezzo di terra trafficato, a Germiston, appena fuori Johannesburg (Sud Africa). Le loro case sono provvisorie e si chiamano baracche in questa parte del mondo. Questi “ricoveri” sono a ridosso l’uno dell’altro. Non hanno alcuna protezione dalla pioggia e non offrono alcuna privacy. La mancanza di impianti igienici significa che i liquami scorrono nelle stradine strette. Significa anche che le malattie sono una preoccupazione costante.



Christopher fa funzionare pesanti macchinari per una società di costruzioni. Guadagna 6.000 R al mese che, però, svaniscono prima che il mese è finito. I soldi per l’affitto (1.200 R), e il denaro per portare suo figlio a scuola (1.850 R), gli portano via metà del suo guadagno. Il resto sparisce quando paga l’acqua e il gas, il cibo e i vestiti. “Di solito bevevo – mi dice Christopher – ma ora non i soldi per questo”.

Immanuel fa l’elettricista. Ha contribuito a costruire il Mall of Africa, il più grande centro commerciale che è stato costruito sul continente, ma non ha una casa. Vive in una baracca a Good Hope. “Costruiamo le vostre case, ma non ne abbiamo nessuna”.

Incontro Talita, Johanna, Christopher e Immanuel su un pezzo di terra arido di proprietà della Witwatersrand Gold Mining Trust. Da lungo tempo questa terra non è stata usata per nulla di produttivo. All’orizzonte c’è il vecchio impianto di lavorazione dell’oro. I lavoratori, però, non portano più fuori l’oro da questa terra. L’oro è quello che ha fatto guadagnare soldi a Johannesburg. La terra ora è vuota.

Al di là della strada c’è l’Insediamento di Buona Speranza (Good Hope). Talita, Johanna, Christopher e Immanuel operano con la “succursale” di Good Hope del movimento Abahlali baseMjondolo (un’espressione in lingua zulu che significa abitanti delle baracche). Si sono incontrati nel corso del 2017 per programmare la loro occupazione della terra abbandonata della Mining Trust.  Prevedono, secondo quanto dice la loro leader Nomnikelo Singenu – che saranno in grado di costruire cinquecento case su questo terreno e anche una scuola e un centro medico. C’è uno stato d’animo di entusiasmo e di tensione.



Lo Stato
Non lontano da dove stiamo parlando, si raduna la polizia. C’era stata il giorno precedente e aveva distrutto i picchetti che demarcavano il terreno per le case. La violenza è il modo di esprimersi della polizia. Hanno raccolto i miseri effetti personali degli occupanti delle baracche e li hanno bruciati in una buca. Oggi, secondo giorno dell’occupazione, la polizia sembra meno furiosa.

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!