Queste mobilitazioni nascono dopo anni di lavoro da parte delle femministe nelle istituzioni educative, impegnate nella creazione di reti di appoggio per le vittime della violenza machista, assieme ai protocolli contro l’abuso e le molestie sessuali.
Già nelle mobilitazioni dell’anno 2011 (le più grandi dal ritorno della democrazia), le studentesse avevano sollevato l’importanza di avere una educazione femminista e non sessista.
A questa lenta e progressiva organizzazione si sono sommati due fattori scatenanti. Il primo caso è stato quello della Univesidad Austral, nella quale il rettore ha deciso di cambiare di funzione un accademico della Facoltà di Scienze come risposta a una accusa di molestie da parte di una funzionaria dell’istituzione. Precedentemente, l’indagine interna dell’Ispezione del Lavoro aveva classificato i fatti come “molestia sessuale grave” e “molestia ambientale”, raccomandandone l’allontanamento. Di fronte a questo scenario, la comunità educativa si è organizzata per fare pressione sul rettore, che ha dovuto fare marcia indietro e destituire l’accademico.
Il secondo caso è stato quello di una studentessa della Facoltà di Diritto della Università di Cile che ha denunciato il prestigioso professore Carlos Carmona, ex presidente del Tribunale Costituzionale del Paese, per abuso sessuale. Il ritardo nell’indagine e l’assenza di misure volte alla protezione della studentessa, hanno provocato la mobilitazione delle sue compagne che hanno denunciato come il professore abbia continuato a esercitare le sue funzioni di docenza proprio mentre si stavano portando avanti le indagini.
Poco a poco, le denunce delle studentesse rivolte ai colleghi e agli accademici hanno fatto uscire allo scoperto altri casi di molestie e abusi.
È tristemente celebre una raccolta di storie nella Facoltá di Diritto della Pontificia Universitá Cattolica del Cile, i cui professori hanno detto dalle cattedre in diverse occasioni che le donne non vanno a studiare le leggi ma a trovare marito, o che si sentono liberi di commentare lo scollo delle studentesse (“lei è venuta qui per la prova orale o affinché la mungano?”).
Come reazione, il blocco delle attività e le occupazioni degli edifici si sono allargate a tutto il Paese, imponendo il tema nell’agenda pubblica.
Tutto questo si è riflesso nel corteo di massa contro l’educazione sessista di mercoledì 16 maggio e nella discussione del femminismo in molti spazi che di consueto sono poco aperti al tema, come ad esempio le trasmissioni della mattina nei canali della televisione cilena.
Ciò detto, tra le rivendicazioni delle studentesse possiamo risaltare: la rapida risoluzione dei casi di molestia e abuso sessuale; l’elaborazione di un protocollo unico per le denunce in ambito educativo; la conversione dei licei pubblici emblematici in scuole miste (oggi sono divise in base al sesso); l’educazione sessuale non sessista; la formazione specifica in sessimo e identitá di genere che abbia carattere triplice (per studenti, docenti e funzionari).
In sintesi, le studentesse considerano che l’elaborazione e la risoluzione dei protocolli sono la punta di un iceberg di un paradigma che è necessario cambiare, poiché non si tratta solo dei molestatori, ma di tutta la comunità. Si rivendica, pertanto, il passaggio a una educazione pubblica, femminista e non sessista.
Le sfide della mobilitazione femminista
I primi risultati della mobilitazione femminista si iniziano già a vedere e anche per questo stanno sorgendo delle importanti sfide. Una di queste è conferire contenuto a ciò che si intende per “femminismo”, nella forma più chiara possibile.
Per chi scrive, che si ritrova ad affrontare il partiarcato a partire da un movimento politico misto, che ha la pretesa di offrire una alternativa di conduzione politica al Paese, la sfida è straordinariamente ambiziosa, perché secondo la nostra analisi non è il patriarcato l’unico oppressore.
Partendo da queste premesse e perché le strutture e i fini della nostra organizzazione ci impongono di ripensare tutto, noi rispondiamo: il femminismo è la resistenza a tutte le forme di oppressione e per questo deve necessariamente essere intersezionale.
Il patriarcato opprime perché ci educa sin dall’infanzia attraverso le nostre proprie famiglie, quartieri e scuole, rispetto ai ruoli che ci si aspetta che compiamo come “donne” o come “uomini”, in questo ordine si nascondono le forme di oppressione che più tardi riproduciamo negli spazi in cui viviamo, lavoriamo e ci ricreiamo.
Ma in questo processo il patriarcato non opera da solo e per questo il nostro femminismo ha un cognome: intersezionale. Questo significa che le riflessioni e proposte femministe devono necessariamente ed esplicitamente premettere che non è solo il nostro genere e la nostra orientazione e identitá sessuale a determinare l’oppressione, ma anche la classe sociale. Nessuno può negare che le donne povere si sono storicamente fatte carico della peggior parte e per diagnosticare adeguatamente questa oppressione è indispensabile considerare, inoltre, se sono lesbiche e/o trans o se sono state esposte all’omofobia o alla transfobia.
A questa analisi si somma l’etnia, la razza e la nazionalità che anche determinano a quanta oppressione è esposto un bambino o una bambina e il divenire della sua etnia, razza e nazione lo accompagnerà e lo determinerà per tutta la sua vita. La lista non è corta e il grado d’importanza di questi fattori non si può misurare matematicamente. Anche la presenza di una (dis)capacità e lo stato di salute determinano quanta oppressione sperimentiamo, così come l’età, l’obbligo di seguire (o non seguire) una religione, sono solo alcuni elementi.
Una seconda sfida risponde al necessario apprendimento che dobbiamo fare in quanto parte della mobilitazione stessa, sia nelle istituzioni educative che in ciascuno dei movimenti e partiti che la compongono, per organizzare le nostre vite e militanze in maniera intersezionale.
Se la repressione è sistematica e intersezionale, anche la risposta deve esserlo. In questa costruzione nessuno é di troppo e tutti e tutte siamo chiamate a lavorare, tanto che ci facciamo un favore denunciando l’oppressione e smettendo finalmente di invisibilizzarla, ci facciamo un favore se mentre ci facciamo carico di quanto sia doloroso lavorare, coscienti dell’oppressione, restiamo uniti e cooperiamo insieme. Non saranno mai vani gli sforzi per (ri)costruire la fiducia reciproca, perché l’uscita non è iniziare un’operazione di polizia retroattiva che ci porti a dividere vittime da una parte e carnefici dall’altra, ma quella di unirci in uno stesso percorso femminista e trasformatore.
Come organizzazione femminista affrontiamo la sfida di doverci organizzare in un contesto definito da regole culturali del patriarcato.
È quindi imprescindibile essere espliciti nel segnalare che abbiamo molto da migliorare nell’implementazione dei protocolli che si adottano per i casi di molestia, nelle forme in cui mettiamo a valore il lavoro che svolgiamo nell’organizzazione, nell’ appoggio alla conduzione femminile e femminista, nella revisione delle forme con cui valutiamo il leaderismo maschile e nelle forme con le quali stiamo creando le condizioni per chi abbia un lavoro domestico di partecipare nel lavoro político. Lo stiamo facendo anche nei percorsi di apprendimento e di vita in comune tra compagni/e e sulla fiducia che ci dobbiamo costruire in maniera permanente tra compagni e compagne.
Per nessuno è di troppo una lezione sull’educazione non sessista e le organizzazioni politiche non fanno eccezione. Se oltre a questo ci siamo date mete ambiziose come quella di costruire una alternativa politica per il Cile che sia femminista e intersezionale, dobbiamo integrarla con i migliori e i più sinceri dei nostri sforzi nell’imparare a lavorare collettivamente.
Le studentesse in Cile ci stanno insegnando quale è il camino, dobbiamo solo percorrerlo.
Pubblicato sul sito indipendente argentino Marcha.org. Traduzione in italiano a cura di DINAMOpress.
*Alexia Vásquez è sociologa e Paulette Jara avvocata, militanti cilene del Movimento Autonomista