mercoledì 30 dicembre 2009

Gaza Freedom March - Notte del 29 dicembre

Si è conclusa un'altra lunga giornata nella capitale egiziana

In mattinata si sono svolte diverse iniziative davanti alle rappresentanze dei paesi di provenienza delle delegazioni.

Davanti l'Ambasciata Italiana è stato fatto un sit-in e poi una delegazione è salita a parlare con i diplomatici per riaffermare la richiesta di raggiungere Gaza.

Come in tutte le iniziative i manifestanti sono stati "transennati" dai poliziotti lungo il marciapiede.

Durante il sit-in con Paolo e Laura di Genova abbiamo provato ad iniziare alcune rilessioni sulle prime giornate egiziane: l'atteggiamento delle autorità, le difficoltà incontrate nel agire in forma comune tra tutti i partecipanti, l'impressioni raccolte in questa enorme metropoli.

Ascolta la discussione:

All'Ambasciata americana una delegazione è stata immediatamente circondata da poliziotti in assetto antisommossa e mentre una parte saliva ad incontrare i rappresentanti diplomatici, la polizia con fare molto deciso, costringeva gli attivisti a stare "recintati" nelle transenne.

Ascolta il racconto (in inglese)

Intanto davanti all'Ambasciata francese continua ormai da due giorni la presenza ininterrotta di una parte della delegazione francese.

Alle 14.00 l'appuntamento per tutti è alla Sede del Sindacato dei Giornalisti. La scalinata che serve d'ingresso all'edificio, si riempie di attivisti che prontamente vengono "recintati" dai poliziotti in divisa ed in borghese. Se manifesti stai nel "recinto" o se no ti devi allontanare. La "recinzione" sistematica delle iniziative è una costante di queste giornate e con tutte le dovute differenze ricorda l'atteggiamento della polizia danese durante le mobilitazioni di Cop15. Un asfissiante controllo che veramente è una delle forme di "prevenzione di sicurezza" che vanno contrastate a livello globale . Mai farci l'abitudine!

L'iniziativa dura un paio d'ore e poi la stessa scalinata, con una "recinzione" di poliziotti questa volta in assetto antisommossa, diventa lo scenario di un'altra protesta: quella fatta in prevalenza da egiziani e arabi contro la presenza di Nethanyau. Chiediamo chi sono e ci pare di capire che si tratti di gruppi legati ai Fratelli Musulmani e di altri gruppi locali.

I Fratelli Musulmani, formalmente illegali in Egitto, stanno crescendo in peso politico. Nelle scorse elezioni con delle liste ad hoc hanno avuto circa un ottantina di deputati e i tutti i commentatori dicono che aumenteranno nelle prossime elezioni. Oltre ad avere un consenso nelle fascie più diseredate della popolazione egiziana ed ad agitare la propaganda religiosa, chiaramente l'appoggio alla causa palestinese ed in particolare ad Hamas, gli è molto utile nel raccogliere consensi come spesso accade.

La permanenza sulla scalinata si protrae fino a sera a margine del transito di migliaia di automobili i cui occupanti, per la maggior parte, restano intenti alla loro "guida spericolata".

In serata inizia a circolare la voce, poi confermata, che è stata data l'autorizzazione alla partenza per Gaza di una delegazione coordinata dagli organizzatori americani di un centinaio di persone e dei materiali raccolti da consegnare alla popolazione della Striscia. Si tratta formalmente di un convoglio umanitario.

Questa scelta del governo egiziano è dovuta alla pressione esercitata dalle iniziative a Il Cairo e a livello internazionale.

Le due corriere che andranno a Gaza saranno composte da rappresentanti delle varie delegazioni della Marcia.

Intorno a questo nuovo scenario si apre una discussione formale e informale su come valutare la situazione, su come continuare la mobilitazione. Una discussione che sconta, come in parte successo in questi giorni, la mancanza di approfondimento politico e la frammentazione degli attivisti.

Mentre la discussione continuerà anche nella giornata di domani, adesso si tratta di aspettare ancora poche ore per essere certi che il convoglio parta con destinazione Gaza e per continuare a mobilitarsi.

martedì 29 dicembre 2009

Note da Il Cairo



28 dicembre 2009

La Freedom March è nata da una proposta di attivisti americani, che per la ricorrenza del primo anniversario dell'Operazione Piombo Fuso, hanno lanciato l'idea di entare a Gaza attraverso il valico egiziano di Rafah per portare solidarietà alla popolazione civile della striscia e chiedere la fine dell'assedio.

A questa convocazione hanno aderito gruppi organizzati, comitati e coordinamenti di tutto il mondo, fino a superare i 1300 partecipanti.

Convinti di arrivare al Il Cairo e da qui muoversi immediatamente per Gaza, ogni gruppo ha organizzato la propria logistica in maniera autonoma. Erano previste partenze il 27 dicembre in giornata, la notte, la mattina del 28 per passare tutti per El Arish e arrivare al valico.

Già il 20 dicembre le autorità egiziane avevano iniziato a comunicare ai vari organizzatori l'impossibilità di passare per Rafah. Una decisione confermata anche in alcune dichiarazioni pubbliche delle autorità egiziane.

A questo punto man mano che i vari gruppi arrivavano nella capitale egiziana si è resa palese la volontà da parte del Governo non solo di impedire l'ingresso a Gaza ma anche qualsiasi attività di denuncia di tale situazione. Un'assemblea che era stata programmata per tutti i partecipanti in un centro dei gesuiti veniva annullata d'autorità, nessuna sala pubblica e privata veniva concessa per svolgere iniziative di incontro di tutte le delegazioni. Insomma le autorità egiziane dimostravano nei fatti la loro capacità di controllo pressoche totale. Per quanto riguarda la possibilità di muoversi con i trasporti collettivi poichè “per motivi di sicurezza” ogni comitiva organizzata, che si sposta fuori dal Il Cairo deve essere scortata dalla Polizia, le autorità, non avendo dato l'autorizzazione a muoversi verso Rafah, di fatto hanno bloccato ogni corriera che era stata noleggiata dai vari gruppi.

Si è creata così una situazione paradossale: le varie delegazioni non hanno avuto un posto in cui incontrarsi tutti, ogni attività collettiva è resa difficile dalla frammentazione delle varie delegazioni.

Il tutto in una città di 23 milioni di abitanti, dove si sente molto bene quanto il controllo capillare sia presente e dove qualsiasi forma di opposizione è assolutamente invisibile.

Una città dove il traffico infernale regna sovrano, dove tutto è “decadente” e la presenza di macerie è “...perchè nel 1992 c'è stato il terremoto”, dove l'estrema riccheza di alcuni quartieri confina con l'estrema povertà della maggioranza degli abitanti. Dove si racconta che migliaia di persone vivono nei cimiteri non avendo altro posto dove stare mentre i cartelloni pubblicitari sono uguali a quelli di qualsiasi città europea o del mondo, gli stessi nomi, le stesse corporation, gli stessi prodotti salvo la scritta in arabo.

I contatti tra le varie delegazioni vengono mantenute da alcuni coordinatori ma la frammentazione che le autorità egiziane impongono non aiuta certo a costruire iniziative e discussioni comuni.

Il 27 si riesce a fare due iniziative: una al mattino sul Ponte 6 ottobre e l'altra la sera all'imbarcadero delle feluche.

La sera una parte della delegazione francese aspetta invano le corriere davanti all'Ambasciata.

Il 28 mattina una parte della delegazione italiana coordinata dal Forum Palestina non solo non vedrà arrivare nessuna corriera ma addirittura la polizia cercherà di impedire l'uscita dall'albergo per raggiungere l'ambasciata italiana ..

Mentre scriviamo anche la delegazione americana, insieme ad altre, ha inutilmente aspettato le “sue” corriere e un altra parte degli attivisti sta svolgendo una Conferenza Stampa davanti alla sede dell'Onu.

Probabilmente nessuna delle varie delegazioni si aspettava una chiusura così netta delle Autorità egiziane. Si pensava che in qualche modo si sarebbe potuto lasciare Il Cairo verso Rafah .. per il momento non è così e nulla lascia presagire un cambio di posizione da parte del governo.

Intanto da quello che si capisce dai giornali locali il Governo egiziano nel ribadire il “suo appoggio illimitato ai palestinesi, nel condannare (!!!) l'assedio alla striscia” conferma l'ampiamente del controllo delle sue frontiere (Rafah compresa) come necessità di sicurezza nazionale.

Formalmente infatti Rafah è un valico solo per i palestinesi (che comunque viene aperto o chiuso in maniera assolutamente discrezionale ..) e ogni altro transito internazionale vi deve passare con l'autorizzazione israeliana oppure transitare dal valico israeliano di Eretz.

Intorno a Rafah l'Egitto sta costruendo un nuovo muro, che dovrebbe svilupparsi anche in profondità che contribuirà all'isolamento ancora più totale della Striscia.

Sempre dai giornali egiziani scopriamo che domani è in arrivo al Il Cairo Netanyahu, il Primo Ministro Israeliano, per riattivare il processo di pace e per discutere la questione dello scambio di prigionieri.

Ancora leggiamo a quattro colonne che oggi Muobarak ha ricevuto con grandi onori il Ministro degli Esteri brasiliano, per la terza volta in quest'anno, per approfondire le relazioni bilaterali, per accrescere gli scambi commerciali tra i due paesi e per discutere di importanti questioni sulla scena regionale ed internazionale d'interesse comune.

Nel contesto globale degli attori continentali ci si incontra e si muovono le proprie pedine mentre la più grande prigione a cielo aperto del mondo, la Striscia di Gaza, continua ad essere chiusa.

A cura di Associazione Ya Basta

Gaza Freedom March: le delegazioni continuano le proteste

Aggiornamento del pomeriggio del 28 Dicembre dal Cairo

Questo pomeriggio per quattro ore gli attivisti della Gaza Freedom March si sono ritrovati sotto la sede centrale dell' ONU chiedendo che ci fosse una chiarificazione sui motivi per i quali la marcia e i delegati che vi partecipano non vengono fatti partire da IlCairo.

Alcuni attivisti sono stati ricevuti dai responsabili delle Nazioni Unite che gli hanno comunicato ufficialmente la decisione del governo egiziano, come ha affermato anche in televisione, di fermare la marcia poiché, a loro parere, non sono state presentate le carte necessarie per ottenere l' autorizzazione.

La cosa risulta essere assolutamente falsa perchè i nomi, i passaporti e tutte le formalità burocratiche erano già state ampiamente adempiute dagli organizzatori della marcia.

La delegazione ha chiesto esplicitamente se sarebbe stata concessa la possibilità ad una delegazione più piccola di entrare a Gaza per portare e consegnare gli aiuti umanitari che i delegati hanno portato da tutto il mondo anche in questo caso la risposta è stata negativa.

In poche parole le Nazioni Unite e i suoi funzionari non hanno fatto altro che ripetere quella che è la versione ufficiale del governo egiziano; una scelta che sembra non smuoversi assolutamente dalla decisione di non far partire la marcia verso la striscia di Gaza, ma anche quella di limitare al massimo l' agibilità degli attivisti all' interno della stessa capitale egiziana.

Dopo quattro ore di sit-in gli attivisti si sono ritrovati con l' idea di lasciare la zona sotto la sede dell' ONU per costruire nella giornata di domani azioni di pressione volte a ribadire il sacrosanto diritto e l' inarrestabile volontà a raggiungere la striscia di Gaza.

Contemporaneamente un'altra parte degli attivisti, circa 300 tra francesi e belgi sono stati fatti montare su dei pullman, ma tutt' ora sono fermi a un'ora e mezza di strada fuori dal Cairo bloccati anche loro dalla polizia. Questo fermo ha portato alla presenza di varie delegazioni, con sit-in e proteste, sotto l ´Ambasciata francese e all'Ambasciata italiana.

È una situazione nella quale si sta cercando in tutte le maniere di fare pressioni contro un divieto motivato esclusivamente dalla scelta politica delle autorità egiziane di non far lasciare il Cairo e di non far raggiungere i territori palestinesi ai delegati internazionali della Gaza Freedom March.

Varie iniziative sono previste nella giornata di domani proprio per continuare in questa difficoltosa mobilitazione vista anche l' impossibilità di rendersi visibili all' interno di una metropoli mostruosa dove non manca il costante controllo da parte delle forze dell' ordine e della polizia egiziana nei confronti degli attivisti stranieri.


Il Cairo - La polizia blocca le delegazioni della Freedom March


Sequestrati gli autobus

28 / 12 / 2009

Situazione tesa al Cairo per la delegazione della Freedom March.

Nella mattinata la polizia egiziana ha sequestrato i pullman della delegazione francese e italiana e ha impedito loro di prendere i taxi per arrivare all'ambasciata italiana al Cairo.

In questo momento la delegazione francese e italiana della Gaza Freedom March sta facendo un presidio davanti alle rispettive ambasciate mentre davanti alla sede Onu è in atto un presidio permanente

Ieri pomeriggio un gruppo di cittadini americani, britannici, spagnoli, giapponesi e greci sono stati arrestati alla stazione dei bus di Al Arish dalla polizia egiziana.

Nel frattempo un'altra operazione di polizia ha interrotto la commemorazione che stava avvenendo a Al Kasr Nil, principale ponte di collegamento con Zamalek, contro l’invasione israeliana a Gaza. Lo scorso 27 dicembre iniziava a Gaza l’operazione piombo fuso. Con un’ azione simbolica e non violenta la delegazione della Freedom March ha voluto ricordare queste morti legando centinaia di lacci con i nomi delle persone uccise nell’operazione militare dello sorso anno.

Intorno alle 17.00 di ieri diversi attivisti si sono incontrati sul Lungo Nilo. L'idea era quella di noleggiare alcune feluche e andare sul fiume e ricordare gli oltre 1400 morti dell'Operazione Piombo Fuso mettendo delle candele in acqua per ognuna delle vittime. La solerte polizia egiziana era già sul posto. Prima ha proibito l'accesso agli imbarchi e poi ha circondato con numerosi agenti in borghese gli attivisti impedendo loro di muoversi.

Sul marciapiede sono state accese candele e si è iniziato a fare slogan.

La polizia ha chiuso il Presidio con le transenne facendo aumentare intanto il numero dei poliziotti presenti. A chi guardava, fossero giornalisti, fotografi o curiosi, è stato detto di allontanarsi o di stare nello spazio “delimitato”. I manifestanti si ono un poco alla volta allargati sul marciapiede continuamente circondati dalle forze dell'ordine. L'iniziativa è dura un paio d'ore.

Nel fattempo un nutrito gruppo di partecipanti francesi alla Marcia si è dato appuntamento davanti all'Ambasciata francese per aspettare invano le corriere prenotate.

I promotori dell’iniziativa si sono detti rattristati e sconcertati per l’atteggiamento della polizia egiziana e continuano a chiedere che la delegazione possa raggiungere Gaza.


martedì 22 dicembre 2009

Who are YU?


Brevi riflessioni dopo Cop.enaghen

Se serviva qualche atto concreto a descrivere il livello di subordinazione che gli USA di Obama hanno verso la Cina, ci ha pensato la fallimentare conferenza Onu sul clima di Copenhagen a fornirlo. Wen Jabao, presidente del paese/continente che annovera al suo attivo il più alto tasso di crescita capitalistica mai registrato al mondo, insieme alla percentuale più alta di emissioni di CO2/anno, ha voluto dare un segnale globale, alla maniera dei cinesi, inviando in segno di sfregio, il suo responsabile ai negoziati climatici Yu Qingtai, praticamente un impiegato statale seguendo l’organigramma del partito, a parlare con Obama appena sbarcato dall’Air Force One.

I cinesi, ma dovremmo abituarci, seguono altri parametri anche rispetto alla comunicazione e alla produzione di opinione: siamo cresciuti con presidenti degli Stati Uniti che rivolgevano la loro capacità retorica o il loro decisionismo securitario, sostanzialmente verso due continenti: le Americhe e l’Europa. Naturalmente il flusso comunicativo, e i rapporti commerciali, spalmavano l’influenza e la persuasione in giro per il mondo, ma il rapporto tra descrizione della decisione e opinione pubblica, aveva il suo baricentro preciso.

L’elezione di Obama, ora lo si può capire meglio, è stata un investimento politico complessivo del sistema, ancorato tra Wall Street e le industrie, in particolare quelle dell’information society a scapito delle più tradizionali produttrici di armi, giocato proprio sulla sua capacità di parlare, di comunicare. Di entrare dunque, all’interno di aree di costruzione dell’opinione, del consenso, completamente sganciate dal tradizionale flusso che parte dalla casa bianca.

I cinesi hanno un loro popolo globale a cui parlare, o a cui ordinare se si preferisce. Un miliardo e mezzo di sudditi, sono un mondo. Decine di lingue, centinaia di etnie, variazioni di latitudine e longitudine, di fusi orari come da un continente all’altro: tutto dice ai cinesi, o meglio alla ristretta (si fa per dire) cerchia di “alti funzionari del partito”, intellettuali, nuovi miliardari, che il mondo è quello, il resto sono slums, periferie, dove fallimentari e corrotti (in senso spirituale, corrotti perché lavorano poco) uomini di potere, annaspano e si agitano come accade prima di annegare. Wen Jabao, trattando Obama come uno dei tanti del G17, che è il gruppo dei più industrializzati, o per dirla con la conferenza Onu, dei paesi con la più alta “footprint”, impronta ecologica, parlava innanzitutto ai cinesi. Nell’ordine, prima al Congresso (del Partito Comunista Cinese), poi ai top manager multimiliardari e, via via, fino al Popolo, per ultimo. Wen, inoltre, per tutta la settimana e sempre tramite Yu Qingtai e altre decine di suoi cloni, aveva lavorato di “lobbing”: fino a venerdì 18 dicembre il ruolo della Cina era stato quello di portavoce del G77, i paesi poveri e in via di sviluppo, dove ovviamente esercita il ruolo di potenza coloniale attraverso la forte immissione di denaro con cui ha acquistato debiti, in cambio del controllo geopolitico del mercato interno e quindi della stessa sovranità nazionale. La Cina, ai paesi poveri, ha tirato le redini a Copenhagen.

Intuendo ciò che voleva fare Obama, e in seconda battuta l’Europa e il Giappone, cioè utilizzare la Conferenza Onu sul Clima per determinare un riequilibrio di ciò che la crisi globale ha provocato: la supremazia del capitalismo senza alcuna libertà. Tutto ciò è precipitato sulla scena di Cop15, provocando uno dei più grandi fallimenti che la storia di sapienti trame diplomatiche dell’azione politica globale statunitense ricordi.

I commentatori internazionali, da Le Monde al Washington Post, dal Tribune alla BBC, su questo concordano: Cop15 non solo si è rivelata un boomerang per l’investimento politico fatto da Obama, ma ha anche probabilmente sancito la fine del modello-conferenza sul clima. Esso si trascinava, con questa formula allargata, dal 1992 quando venne istituito il percorso delle Convenzioni delle Nazioni Unite a Rio de Janeiro sui problemi climatici. Si è passati per Kyoto e ora, a Copenhagen, ovviamente anche per il contesto di crisi sistemica in cui siamo, il vero risultato è l’affermazione di un asse a cinque: Brasile, India, Cina, Sudafrica e Usa. L’idea americana, che porta in dote in questi consessi soprattutto le guerre (pensiamo gli Usa senza guerre quanto meno arriverebbero a contare), era quella di trasformare il livello di emissioni di CO2 in una sorta di volano per la green economy. E il metro di convincimento interno, per il Congresso americano e per i repubblicani in particolare, era proprio la possibilità di aprire nuove esportazioni verso la Cina di Wen che, invece, è impermeabile ed esporta verso terzi a più non posso, “proteggendo” il suo mercato da invasioni esterne.

La Cina ha iniziato da tempo a costituirsi come polo mondiale manifatturiero, e oggi molti analisti registrano il suo dirigersi anche verso il lavoro della conoscenza e della ricerca.
Molte Silicon Valley stanno nascendo a fianco di migliaia di Seveso, di petrolchimici, di Bophal, di centrali nucleari. In Cina ovviamente, è il Partito che decide, non il popolo. Diciamo che lo fa in modi più spicci, e certamente più terribili e tragici, che nel nostro mondo.

Deportazioni di centinaia di migliaia di persone per far posto a nuove aree produttive o ad aeroporti, inquinamento alle stelle (ricordiamo le Olimpiadi di Pechino e i problemi di respirazione degli atleti?), ritmi di lavoro massacranti e senza regole (età, tutele, condizioni generali), rappresentano la sostanza di questo turbocapitalismo maoista. Obama dunque, ha giocato d’azzardo, continuando a far credere al mondo che dire “yes, we can” basti a far cambiare le cose. I cinesi hanno accettato la sfida, dopo aver convocato a Singapore il black president e avergli suggerito che le decisioni sarebbe stato meglio prenderle da soli, e hanno “risposto di prima” al tiro di punizione effettuato dagli americani, per usare metafore calcistiche. Gli è andata bene, e “Yes we can” è diventato solo “yes”.

Ma alla popolazione mondiale, ai movimenti, alle speranze di un mondo diverso, senza rifugiati e olocausto climatico, senza siccità e deforestazione, senza inondazioni e desertificazioni provocati dall’eccesso di gas serra, che cosa rimane da fare?

Probabilmente Cop15 è servita. Essa aggiunge un ulteriore tassello, pur nella complessità dei cambiamenti politici continui che caratterizzano le forme di comando sulla nostra vita, verso l’acquisizione dell’indipendenza come unica strada praticabile. Chi continua a pensare che saranno gli stati o i governi a risolvere il problema, quello più di destra ma liberale, quello più di sinistra ma autoritario, non ne verrà mai fuori. Il senso del conflitto, durante questi vertici, è quello della rivendicazione del proprio diritto ad andare altrove, lontano dal mondo che questi leader, e il loro sistema, non fanno altro che riprodurre, continuamente.

E’ palese che lo scontro tra green economy e coalcapitalism può aprire delle possibilità per l’indipendenza. A patto di non assumere il green capitalism come un qualcosa di buono e giusto, un qualcosa per cui vale la pena combattere. Questo scontro è all’inizio, e la stessa trasformazione della Convenzione Onu sul Clima in una specie di WTO della CO2, la dice lunga sull’impossibilità per ora di immaginare meccanismi di governance nella crisi. Per ora niente molteplice distribuzione del comando, solo accentrazione unipolare e difesa del proprio orticello-nazione in vista di soluzioni che ancora non appaiono. Nel frattempo, però, noi dobbiamo vivere, come anche gli abitanti dello Stato di Tuvalu. La nostra democrazia assoluta intanto, si esprime non ricompononendosi in una proposta, o modello, unico.

Essa è fatta di tanti “comuni”, di una rete infinita di esperienze e risultati, di successi e difficoltà. Si determina come comune molteplice in occasione di eventi come questo, ma l’errore è spesso trasporre questa moltitudine come qualcosa che chiede soluzioni al sovrano: essa esiste e vince, se impone al sovrano, chiunque esso sia, di lasciarla partire senza scatenare le armate contro di essa. E’ un esodo la nuova democrazia dell’indipendenza. Ed è in marcia chi, qui ed ora, vive già come crede sia più giusto per tutti.

Luca Casarini

rete SYInC ( SeeeYouInCopenaghen )

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!