Se serviva qualche atto concreto a descrivere il livello di subordinazione che gli USA di Obama hanno verso la Cina, ci ha pensato la fallimentare conferenza Onu sul clima di Copenhagen a fornirlo. Wen Jabao, presidente del paese/continente che annovera al suo attivo il più alto tasso di crescita capitalistica mai registrato al mondo, insieme alla percentuale più alta di emissioni di CO2/anno, ha voluto dare un segnale globale, alla maniera dei cinesi, inviando in segno di sfregio, il suo responsabile ai negoziati climatici Yu Qingtai, praticamente un impiegato statale seguendo l’organigramma del partito, a parlare con Obama appena sbarcato dall’Air Force One.
I cinesi, ma dovremmo abituarci, seguono altri parametri anche rispetto alla comunicazione e alla produzione di opinione: siamo cresciuti con presidenti degli Stati Uniti che rivolgevano la loro capacità retorica o il loro decisionismo securitario, sostanzialmente verso due continenti: le Americhe e l’Europa. Naturalmente il flusso comunicativo, e i rapporti commerciali, spalmavano l’influenza e la persuasione in giro per il mondo, ma il rapporto tra descrizione della decisione e opinione pubblica, aveva il suo baricentro preciso.
L’elezione di Obama, ora lo si può capire meglio, è stata un investimento politico complessivo del sistema, ancorato tra Wall Street e le industrie, in particolare quelle dell’information society a scapito delle più tradizionali produttrici di armi, giocato proprio sulla sua capacità di parlare, di comunicare. Di entrare dunque, all’interno di aree di costruzione dell’opinione, del consenso, completamente sganciate dal tradizionale flusso che parte dalla casa bianca.
I cinesi hanno un loro popolo globale a cui parlare, o a cui ordinare se si preferisce. Un miliardo e mezzo di sudditi, sono un mondo. Decine di lingue, centinaia di etnie, variazioni di latitudine e longitudine, di fusi orari come da un continente all’altro: tutto dice ai cinesi, o meglio alla ristretta (si fa per dire) cerchia di “alti funzionari del partito”, intellettuali, nuovi miliardari, che il mondo è quello, il resto sono slums, periferie, dove fallimentari e corrotti (in senso spirituale, corrotti perché lavorano poco) uomini di potere, annaspano e si agitano come accade prima di annegare. Wen Jabao, trattando Obama come uno dei tanti del G17, che è il gruppo dei più industrializzati, o per dirla con la conferenza Onu, dei paesi con la più alta “footprint”, impronta ecologica, parlava innanzitutto ai cinesi. Nell’ordine, prima al Congresso (del Partito Comunista Cinese), poi ai top manager multimiliardari e, via via, fino al Popolo, per ultimo. Wen, inoltre, per tutta la settimana e sempre tramite Yu Qingtai e altre decine di suoi cloni, aveva lavorato di “lobbing”: fino a venerdì 18 dicembre il ruolo della Cina era stato quello di portavoce del G77, i paesi poveri e in via di sviluppo, dove ovviamente esercita il ruolo di potenza coloniale attraverso la forte immissione di denaro con cui ha acquistato debiti, in cambio del controllo geopolitico del mercato interno e quindi della stessa sovranità nazionale. La Cina, ai paesi poveri, ha tirato le redini a Copenhagen.
Intuendo ciò che voleva fare Obama, e in seconda battuta l’Europa e il Giappone, cioè utilizzare la Conferenza Onu sul Clima per determinare un riequilibrio di ciò che la crisi globale ha provocato: la supremazia del capitalismo senza alcuna libertà. Tutto ciò è precipitato sulla scena di Cop15, provocando uno dei più grandi fallimenti che la storia di sapienti trame diplomatiche dell’azione politica globale statunitense ricordi.
I commentatori internazionali, da Le Monde al Washington Post, dal Tribune alla BBC, su questo concordano: Cop15 non solo si è rivelata un boomerang per l’investimento politico fatto da Obama, ma ha anche probabilmente sancito la fine del modello-conferenza sul clima. Esso si trascinava, con questa formula allargata, dal 1992 quando venne istituito il percorso delle Convenzioni delle Nazioni Unite a Rio de Janeiro sui problemi climatici. Si è passati per Kyoto e ora, a Copenhagen, ovviamente anche per il contesto di crisi sistemica in cui siamo, il vero risultato è l’affermazione di un asse a cinque: Brasile, India, Cina, Sudafrica e Usa. L’idea americana, che porta in dote in questi consessi soprattutto le guerre (pensiamo gli Usa senza guerre quanto meno arriverebbero a contare), era quella di trasformare il livello di emissioni di CO2 in una sorta di volano per la green economy. E il metro di convincimento interno, per il Congresso americano e per i repubblicani in particolare, era proprio la possibilità di aprire nuove esportazioni verso la Cina di Wen che, invece, è impermeabile ed esporta verso terzi a più non posso, “proteggendo” il suo mercato da invasioni esterne.
La Cina ha iniziato da tempo a costituirsi come polo mondiale manifatturiero, e oggi molti analisti registrano il suo dirigersi anche verso il lavoro della conoscenza e della ricerca.
Molte Silicon Valley stanno nascendo a fianco di migliaia di Seveso, di petrolchimici, di Bophal, di centrali nucleari. In Cina ovviamente, è il Partito che decide, non il popolo. Diciamo che lo fa in modi più spicci, e certamente più terribili e tragici, che nel nostro mondo.
Deportazioni di centinaia di migliaia di persone per far posto a nuove aree produttive o ad aeroporti, inquinamento alle stelle (ricordiamo le Olimpiadi di Pechino e i problemi di respirazione degli atleti?), ritmi di lavoro massacranti e senza regole (età, tutele, condizioni generali), rappresentano la sostanza di questo turbocapitalismo maoista. Obama dunque, ha giocato d’azzardo, continuando a far credere al mondo che dire “yes, we can” basti a far cambiare le cose. I cinesi hanno accettato la sfida, dopo aver convocato a Singapore il black president e avergli suggerito che le decisioni sarebbe stato meglio prenderle da soli, e hanno “risposto di prima” al tiro di punizione effettuato dagli americani, per usare metafore calcistiche. Gli è andata bene, e “Yes we can” è diventato solo “yes”.
Ma alla popolazione mondiale, ai movimenti, alle speranze di un mondo diverso, senza rifugiati e olocausto climatico, senza siccità e deforestazione, senza inondazioni e desertificazioni provocati dall’eccesso di gas serra, che cosa rimane da fare?
Probabilmente Cop15 è servita. Essa aggiunge un ulteriore tassello, pur nella complessità dei cambiamenti politici continui che caratterizzano le forme di comando sulla nostra vita, verso l’acquisizione dell’indipendenza come unica strada praticabile. Chi continua a pensare che saranno gli stati o i governi a risolvere il problema, quello più di destra ma liberale, quello più di sinistra ma autoritario, non ne verrà mai fuori. Il senso del conflitto, durante questi vertici, è quello della rivendicazione del proprio diritto ad andare altrove, lontano dal mondo che questi leader, e il loro sistema, non fanno altro che riprodurre, continuamente.
E’ palese che lo scontro tra green economy e coalcapitalism può aprire delle possibilità per l’indipendenza. A patto di non assumere il green capitalism come un qualcosa di buono e giusto, un qualcosa per cui vale la pena combattere. Questo scontro è all’inizio, e la stessa trasformazione della Convenzione Onu sul Clima in una specie di WTO della CO2, la dice lunga sull’impossibilità per ora di immaginare meccanismi di governance nella crisi. Per ora niente molteplice distribuzione del comando, solo accentrazione unipolare e difesa del proprio orticello-nazione in vista di soluzioni che ancora non appaiono. Nel frattempo, però, noi dobbiamo vivere, come anche gli abitanti dello Stato di Tuvalu. La nostra democrazia assoluta intanto, si esprime non ricompononendosi in una proposta, o modello, unico.
Essa è fatta di tanti “comuni”, di una rete infinita di esperienze e risultati, di successi e difficoltà. Si determina come comune molteplice in occasione di eventi come questo, ma l’errore è spesso trasporre questa moltitudine come qualcosa che chiede soluzioni al sovrano: essa esiste e vince, se impone al sovrano, chiunque esso sia, di lasciarla partire senza scatenare le armate contro di essa. E’ un esodo la nuova democrazia dell’indipendenza. Ed è in marcia chi, qui ed ora, vive già come crede sia più giusto per tutti.
Luca Casarini
rete SYInC ( SeeeYouInCopenaghen )