mercoledì 18 febbraio 2009

In attesa tra le macerie

Mentre la tregua sembra concretizzarsi, la Striscia di Gaza rivela tutto l’orrore della distruzione subita

Di fronte all’ospedale Shifa di Gaza, uno dei tre principali nosocomi della Striscia, il muezzìn chiama alla preghiera di mezzogiorno del venerdì, tradizionalmente la più partecipata. Il traffico si interrompe quasi totalmente e il caos del mercato cittadino si tacita. La gente della zona e i dipendenti dell’ospedale affluiscono ordinatamente verso la moschea di Shifa. Solo che la moschea non c’è più.
E’ stata rasa al suolo, come molte altre, dall’offensiva israeliana di gennaio. La moschea di Shifa sorgeva a pochi metri dall’omonimo ospedale sotto cui, secondo i servizi di intelligence israeliani, si nasconde la leadership di Hamas. Le macerie sono state in gran parte rimosse e al posto del santuario c’è una spianata, sopra la quale sono stati disposti teli e tappeti per la preghiera. Il sermone tra le macerie è un’immagine che ben rappresenta la situazione della Striscia di Gaza dopo l’operazione Piombo Fuso. Più di metà delle strutture del territorio, in gran parte civili, sono state almeno danneggiate. Secondo le ultime stime, ricavate dalle missioni di valutazione umanitaria giunte dopo l’offensiva, gli edifici completamente distrutti sono almeno 14mila. Circa 90mila le persone non hanno più una casa. Qua e là, gruppi di operai lavorano alla rimozione delle macerie, molti di loro indossano i berretti verdi distribuiti da Hamas per proteggerli da sole, ma soprattutto per segnalare la presenza del governo sul territorio. Ma i lavori di ricostruzione non sono nemmeno iniziati. Il governo in verde della Striscia ha iniziato a pagare le compensazioni per quanti hanno avuto le case distrutte da Israele, 3 o 4mila dollari ciascuna. Ancora nulla per le abitazioni danneggiate. Decine di migliaia di persone continuano a vivere in ruderi diroccati, tra calcinacci, schegge di bombe, proiettili e tracce di sangue sui muri. Una rassegnazione motivata dalle gravissime difficoltà economiche di buona parte delle famiglie di Gaza e dalla ben più grave mancanza di materiali edilizi nella Striscia. Cemento e ferro sono nella lista nera dei materiali sotto embargo, il loro prezzo è salito di oltre dieci volte dal quando i valichi sono chiusi. La gente attende la riapertura delle frontiere e un minimo di normalizzazione prima di ricostruire.
Nessuno sa dire quanto tempo ci vorrà prima che ciò accada, e nel frattempo trascorre l’inverno, fortunatamente mite, tra gli incubi del recente passato e le preoccupazioni per l’indomani. Ferro e cemento non sono le sole cose che mancano nella Striscia: c’è una drammatica carenza anche di sistemi per la depurazione delle acque, di gas e generatori di corrente elettrica. In attesa che i colloqui del Cairo, che dovrebbero portare a una tregua di medio termine delle ostilità tra Hamas e Israele e alla riapertura dei valichi di frontiera, l’embargo continua a strangolare la vita civile della Striscia. Di notte, dai tetti di Beit Lahiya, a nord di Gaza vicino al confine israeliano, si notano in lontananza le mille luci di Ashkelon, la città israeliana sul mare, mentre abbassando lo sguardo si piomba nel buio delle vie di Gaza e delle città del nord della Striscia. Le tregue dichiarate unilateralmente da Israele e Hamas lo scorso 28 gennaio hanno consentito l’apertura parziale dei valichi della Striscia, e l’ingresso di diverse missioni internazionali che hanno portato aiuti e effettuato valutazioni sulla situazione umanitaria. In alcuni casi le delegazioni non sono state autorizzate a importare macchinari fondamentali per la ripartenza della vita, come i sistemi di desalinizzazione della protezione civile francese respinti al valico di Rafah a fine gennaio. In altri casi gli aiuti portati non erano quelli necessari.
La missione di medici e giornalisti organizzata dall’ong italiana Crocevia, che ha visitato i principali ospedali della Striscia (Shifa e Al Awda di Gaza, Nasser di Khan Younis e Kamal Adnan di Jabalia) e molte altre strutture sanitarie e socio-sanitarie dei campi profughi della Striscia, ha riscontrato come in diversi casi i tir umanitari internazionali abbiano importato materiale sanitario leggero per il primo soccorso, quando ormai quel tipo di emergenza era superato. All’indomani della tregua i feriti meno gravi sono stati rimandati a casa (anche per la mancanza di posti letto) mentre i casi più difficili sono stati evacuati verso Israele e l’Egitto perché i nosocomi della Striscia non disponevano di strumenti fondamentali come le macchine per la Tac, per la rianimazione e quelle a ultrasuoni come quelle per le ecografie o gli elettrocardiogrammi. In alcuni casi questi macchinari erano presenti ma danneggiati, e sarebbe bastato coordinarsi con le strutture e importare giusto i pezzi di ricambio. Un capitolo a parte é rappresentato dai feriti vittime di armi non convenzionali, come le munizioni al fosforo (illegali se usate in aree densamente abitate) e le cosiddette Dime (Dense Inerte Metal Explosive). La missione di Crocevia ha appurato al di là di ogni dubbio l’impiego delle munizioni al fosforo contro abitazioni civili (valutazione confermata tra gli altri anche da Human Rights Watch, Amnesty International e dal centro palestinese per i diritti umani al-Mezaan), ma durante l’offensiva i medici della Striscia non disponevano delle conoscenze necessarie al trattamento delle ferite provocate da quel tipo di armi. Quanto alle Dime, invece, le numerose testimonianze del loro impiego non sono ancora state confermate da organismi scientifici. Nella Striscia di Gaza non ci sono laboratori in grado di analizzare i campioni di tungsteno (il componente principale delle Dime) ritrovati in diverse abitazioni e all’interno dei corpi delle vittime, e a causa dell’embargo gli stessi campioni non possono essere portati all’estero. Le delegazioni umanitarie giunte a Gaza hanno fatto del loro meglio per gettare un po’ di luce sui crimini contro l’umanità commessi dall’esercito israeliano durante i 22 giorni di offensiva, ma si sono dovute scontrare con due muri di gomma. Da un lato Israele, che ha concesso l’apertura di corridoi umanitari solo per lenire l’emergenza sanitaria, come se sulla Striscia si fosse abbattuta una disgrazia, un terremoto, anziché una sistematica e intenzionale opera di distruzione iper-tecnologica. Dall’altro, gli organismi internazionali, i paesi occidentali e quelli arabi, che hanno accettato la parte dei pietosi soccorritori senza intaccare il sistema di omertà e servilismo politico, che ha provocato, e continuerà a provocare, disperazione, morte e distruzione.
di Naoki Tomasini

Gaza, a un mese dal cessate il fuoco gli sfollati sono almeno 100mila


Dati pubblicati in un rapporto di Save the Children, che sottolinea anche la precaria situazione sanitaria degli sfollati

Sono centinaia di migliaia i palestinesi rimasti senza abitazione in seguito all’offensiva militare israeliana effettuata nella Striscia di Gaza, iniziata con i bombardamenti aerei il 27 dicembre 2008 e proseguita poi con l’offensiva di terra a partire dal 3 gennaio 2009.

Stando a un rapporto pubblicato ieri da Save the Children "almeno 100mila persone, inclusi 56mila bambini, si ritrovano a essere sfollati, a vivere nelle tende o in abitazioni sovraffollate, a un mese dalla dichiarazione del cessate il fuoco a Gaza". Stando ai dati diffusi da Save the Children, almeno 500mila persone, tra le quali 280mila bambini, sarebbero stati costretti ad abbandonare le proprie case durante il conflitto. Nelle zone distrutte durante l’offensiva, nel corso della quale sono stati rasi al suolo interi quartieri, si stanno formando dei veri e propri accampamenti. Il capo esecutivo di Save the Children per la Gran Bretagna, Jasmine Whitbread, ha dichiarato che in alcune di quelle tendopoli le persone si trovano a poter utilizzare un unico bagno, rendendo altissimi i rischi sanitari derivanti da una situazione di scarsa igiene. La gente è costretta a vivere in tende nonostante le temperature invernali. La maggior parte delle tende è stata fornita dall’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati, dall’Unicef e altre organizzazioni umanitarie. Secondo le stime dell’Unrwa sarebbero almeno 4mila le case distrutte e 17mila quelle seriamente danneggiate.

Dal sito di PeaceReporter.net

martedì 17 febbraio 2009

Crisi e agitazioni sociali in Russia


di Astrit Dakli

La crisi morde ormai in modo molto serio nell’ex Unione sovietica. Gennaio ha visto manifestazioni antigovernative e scontri di piazza nei paesi baltici; in Ucraina, dove il disastro economico è più grave, si stanno moltiplicando le proteste, indirizzate soprattutto contro il presidente Viktor Yushenko, accusato (non a torto) di aver paralizzato l’azione del governo; in Russia la crisi morde a tutti i livelli e comincia a fare vittime illustri. Ci sono i licenziamenti che cominciano ad essere massicci un po’ in tutti i settori, con i disoccupati che aumentano a un ritmo di centomila a settimana; e c’è la «strage dei miliardari» – 52 grandi magnati che nel 2008 avevano un patrimonio superiore al miliardo di dollari e ora non ce l’hanno più, mentre i 49 rimasti hanno visto ridursi di due terzi le loro ricchezze. Ci sono tensioni crescenti a livello di piazza, con manifestazioni di protesta antigovernativa che ormai si svolgono regolarmente ogni weekend nelle principali città; e ci sono tensioni crescenti nelle alte sfere politiche, mentre le prime teste cominciano a rotolare.Ieri è stata annunciata la prima raffica di epurazioni esplicitamente legate a «cattiva gestione della crisi»: il presidente Dmitrij Medvedev ha rimosso dai loro incarichi quattro governatori regionali, mentre un ministro «storico» ha perso il posto. I dirigenti rimossi sono i governatori delle regioni di Orel, Pskov, Voronezh e quello del distretto autonomo dei Nenets; il ministro è quello dell’agricoltura, Aleksej Gordeev, che teneva l’incarico da dieci anni e che è stato spedito a sostituire uno dei governatori licenziati – quello di Voronezh, cioè di una regione agricola… E’ la prima volta che Medvedev prende in mano decisamente la situazione del personale politico: finora il presidente aveva tenuto quasi completamente fermo l’organico (regionale e federale) costruito durante gli otto anni di Vladimir Putin, ora invece - non a caso sulla spinta della crisi economica incalzante - Medvedev mostra di voler dirigere realmente la nave, e soprattutto lo fa indicando delle responsabilità e mostrando simbolicamente che nessuno è al riparo e che gli sbagli si pagano. Un messaggio che potrebbe riguardare lo stesso Putin – anche se il discorso appare molto prematuro: un giornale (Kommersant-Vlast) ieri si chiedeva e chiedeva a una serie di autorevoli politologi se il presidente non stia preparandosi a dare il benservito al potente primo ministro. La risposta generale è naturalmente «no», però intanto si può notare che il nome del premier è quasi scomparso dai titoli dei giornali, che dominava anche a scapito del presidente fino a non molto tempo fa. Ma forse è il capo del governo, come responsabile dell’economia, che preferisce tenere di questi tempi un profilo basso.Ne ha ben motivo, in effetti. Le proteste di piazza si stanno intensificando e prendono sempre più di mira il potere, che in qualche modo deve mostrare una reazione. Sabato a Mosca si sono svolte diverse manifestazioni (tra cui una, autorizzata, in memoria dell’avvocato Stanislav Markelov e della giornalista Anastasia Baburina, uccisi il 19 gennaio) e molte altre hanno occupato le piazze delle città russe, da Khabarovsk (estremo oriente) a San Pietroburgo. Non si tratta certo di manifestazioni oceaniche – qualche migliaio di persone al massimo – ma la loro regolarità e diffusione sono un segno chiaro del [/TXT]cambiamento netto di umori del paese. Il consenso massiccio, plebiscitario di qualche mese fa sembra ormai solo un ricordo.Il tema è sempre il modo in cui il governo sta gestendo la crisi, in particolare nel settore dell’auto, con le nuove tasse sull’import dall’estero (che stanno provocando una vera e propria rivolta nella Siberia orientale) e con le chiusure e i licenziamenti che stanno comunque affliggendo gli impianti nazionali e in particolare AvtoVaz, la maggiore azienda automobilistica russa, che ha di nuovo fermato le linee. A Togliatti, dove Avtovaz ha la sede, i sindacati hanno tenuto un affollato comizio dove, diversamente da quanto avvenuto il mese scorso, non hanno più difeso la tassa sull’import ma hanno invece attaccato il management aziendale e i dirigenti politici locali. Altro tema molto sentito, gli aumenti delle tariffe dei servizi pubblici e in particolare di quelli legati all’abitazione (riscaldamento, elettricità, gas, affitti comunali, ecc.). Proprio su questo si è svolta una delle manifestazioni più grosse di questo weekend: a Voronezh, dove guarda caso proprio l’indomani il governatore ha ricevuto dal Cremlino l’ordine di far le valigie.Se Putin tiene un basso profilo, bersagliato com’è dalle critiche di piazza che accusano lui, non il Cremlino – e anche da alcune frecciate del presidente, che in un paio di occasioni recenti ha parlato di «errori» e di «ritardi» nell’azione del governo – Medvedev invece tiene banco. Ormai sono diventati regolari i suoi incontri con i media e le sue interviste televisive, in cui continua a ribadire che la situazione del paese «è difficile», ma anche ben avviata verso il superamento della crisi. I prossimi mesi diranno se si è sbilanciato troppo o no.
(Pubblicato sul manifesto del 17 febbraio 2009)

¡Que se vayan todos! di Naomi Klein


di Naomi Klein

Vedere le folle di islandesi riversarsi con pentole e padelle per strada fino a che il loro governo non è caduto mi ha riportato alla mente lo slogan più diffuso nel 2002 tra i gruppi anticapitalisti, «Voi siete Enron. Noi siamo l’Argentina».
Si trattava allora di un messaggio piuttosto semplice. Voi – politici e amministratori chiusi in qualche summit – siete come i peggiori truffatori della Enron (e all’epoca non sapevamo nemmeno la metà di quello che poi si è rivelato essere lo scandalo Enron). Noi – l’irrefrenabile fuori – siamo come gli argentini, che, nel bel mezzo di una crisi terrificante e simile alla nostra, sono scesi per strada con pentole e padelle in mano. Loro gli argentini gridarono «¡Que se vayan todos!» (Se ne devono andare tutti!) e ottennero che quattro presidenti in meno di tre settimane si dimettessero. Quello che ha reso unica la rivolta argentina del 2001-2 è stato il fatto che non era contro qualche partito politico né contro un concetto astratto di corruzione. L’obiettivo della protesta era il modello economico dominante e l’Argentina è passata per la prima ribellione nazionale contro il capitalismo contemporaneo senza regole.
E’ passato un po’ di tempo, ma dall’Islanda alla Lettonia, al Sud Korea alla Grecia, il resto del mondo alla fine sta vivendo il proprio momento di «¡Que se vayan todos!».
Le stoiche matriarche islandesi che lisciano a suon di colpi le proprie pentole mentre i figli saccheggiano il frigorifero alla cerca di proiettili (uova, di sicuro, e pure yogurt?) riecheggiano le tattiche diventate famose a Buenos Aires. E lo stesso rievoca la rabbia collettiva contro le elite che hanno messo in ginocchio un paese un tempo florido e che pensavano di poterlo fare senza alcuna conseguenza. Come ha raccontato Gudrun Jonsdottir, impiegato trentaseienne islandese: «ne ho abbastanza. Non mi fido del governo, delle banche. Non mi fido dei partiti politici né del Fondo monetario internazionale. Avevamo un paese benestante e l’hanno rovinato».
Un altro eco di Argentina: a Reykjavik le proteste non cesseranno con un semplice cambiamento di faccia al potere (per quanto il nuovo primo ministro sia una lesbica). Le manifestazioni vogliono aiuto per le persone, non solo per le banche, vogliono che si aprano inchieste e che ci sia una riforma elettorale.
Sono le stesse richieste che si sentono in questi giorni in Lettonia, la cui economia sta soffrendo più di qualsiasi altro paese europeo e il cui governo sta traballando come un funambolo. Per settimane la capitale lettone è stata l’epicentro di proteste, che il 13 gennaio sono esplose nella rivolta con lanci di sampietrini per le strade. Come in Islanda, i lettone sono sconvolti dall’assoluto rifiuto dei loro leader a fare qualcosa e a assumersi responsabilità per il caos che hanno creato. In un’intervista al canale televisivo Bloomberg, il ministro all’economia lettone alla domanda, cos’ha provocato la crisi?, ha fatto spallucce e risposto, «niente di particolare».
I problemi della Lettonia sono di sicuro peculiari: le politiche che hanno portato la «Tigre del Baltico» a crescere del 12 per cento nel 2006 sono le stesse – ossia, liquidità, liberalizzazione delle dogane, movimenti finanziari in rapida entrata e uscita, di cui molti finiti nelle tasche dei politici - che stanno provocando una violenta contrattura del 10 per cento previsto per quest’anno. (Non è una coincidenza che oggi molte delle crisi siano scoppiate nei paesi del recente miracolo: Irlanda, Lettonia, Estonia, Islanda).
Qualcosa cioè di molto argentino è nell’aria. Nel 2001 i leader argentini hanno risposto alla crisi con un pacchetto brutale d’austerità imposto dal Fondo monetario internazionale: 9 miliardi di dollari in tagli di spesa che hanno colpito soprattutto sanità e educazione. E questo si è rivelato essere un errore fatale. I sindacati organizzarono uno sciopero generale, gli insegnanti scesero in piazza con i propri studenti e le proteste non si sono da qui più fermate in Argentina.
Lo stesso rifiuto di accettare lo scorno della crisi unisce accomuna molte delle proteste odierne. In Lettonia, molta della rabbia popolare si è rivolta contro l’austerità delle misure approntate dal governo – cartolarizzazioni massicce, riduzione dei servizi sociali e taglio degli stipendi degli statali – tutto pensato per qualificarsi per un prestito emergenziale del Fondo monetario (in questo, nulla è cambiato). In Grecia, le proteste sono scoppiate dopo l’assassinio di un quindicenne. Ma ciò che le ha fatte durare nel tempo, con i contadini in piazza subito dopo gli studenti, è la rabbia diffusa contro le risposte del governo alla crisi: le banche hanno ricevuto aiuti per 36 miliardi di dollari mentre i lavoratori hanno visto tagliare le proprie pensioni e i contadini non hanno ottenuto nulla. A parte il disagio dei trattori per strada, il 78 per cento dei greci sostiene che le richieste del contadini sono legittime. Allo stesso modo, in Francia il 70 per cento della popolazione ha condiviso le ragioni del recente sciopero generale – mosso in parte dai progetti di Sarkozy di ridurre drasticamente il numero di insegnanti.
C’è poi un filo conduttore in questa recessione globale e probabilmente è il rifiuto della logica «politiche straordinarie», frase coniata dal politico polacco Laszeck Balcerowicz per definire come in una crisi i politici possono ignorare le leggi e lanciarsi in riforme impopolari. Il trucchetto non sta però più funzionando, come di recente ha scoperto il governo sudcoreano. A dicembre il partito al potere ha provato a usare la crisi per introdurre un accordo, molto controverso, di libero mercato con gli Usa. Per portare le cosiddette politiche a porte chiuse a nuovi estremi, i legislatori si sono chiusi nei propri uffici di palazzo per votare in privato, barricati nelle proprie stanze asserragliandosi dietro a scrivanie, sedie, divani.
I politici di opposizione non ci sono tuttavia stati e con seghe elettriche e martelli pneumatici sono entrati nelle stanze di potere e per 12 giorni non hanno rimosso il sit-in al Parlamento. Il voto è stato posticipato, permettendo dibattito – una vittoria per un nuovo genere di «politiche straordinarie».
Qui in Canada, la politica è meno spettacolare, ma in ogni caso ne sono successe di cose. A ottobre il partito conservatore ha vinto le elezioni nazionale sulla base di un programma per niente ambizioso. Sei settimane più tardi il primo ministro conservatore ha rivelato le proprie intenzioni con una proposta di legge che toglie il diritto di sciopero ai lavoratori del pubblico, cancella i fondi pubblici per i partiti e il tutto senza finanze. L’opposizione ha risposto unendosi in una coalizione a dir poco storica e che non ha preso il potere solo per via di un’immediata sospensione del Parlamento. I conservatori dunque sono tornati con una finanziaria rivisitata: le politiche più di destra sono sparite e sono comparsi finanziamenti. Il mosaico è chiaro: i governi che rispondono alla crisi del libero mercato con un’accelerazione delle stesse politiche neoliberiste non sopravvivranno. E in Italia intanto gli studenti sono scesi in piazza urlando: «Noi la crisi non la paghiamo!».

Articolo pubblicato su The Nation
Articolo in inglese sul sito di Naomi Klein
Traduzione a cura di Gloria Bertasi per Global Project
See footage of the global protestGreece Watch footage of the December protests while a student organizer discusses the demonstrators’ demands.

See Greek farmers blockade one of the Greek-Bulgarian border crossings.
South Korea Watch legislators get tear-gassed, view the furniture barricaded against the door in Parliament.
See 200 security guards storm Parliament and brawl with protesters.
Iceland Watch protesters banging on pots, pans, windows, & drums, and see some of the Icelanders’ demands:
See more footage of the "Saucepan Revolution" in this Reuters segment.
Latvia Watch raw footage of the January 13 protests in Riga.
See a grandma hurl a big rock at police in the Latvian capitol.

lunedì 16 febbraio 2009

A proposito della presenza del Presidente Correa al Forum Sociale Mondiale


Lettera aperta della CONAIE

Quito,27 de Enero del 2009
Carta Abierta al Foro Social Mundial
Compañer@s del Foro Social Mundial
La Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador, CONAIE, ante el anuncio de la presencia del Presidente de la República del Ecuador, Rafael Correa, en el Foro Social Mundial a desarrollarse en la ciudad de Belem, manifiesta:
1.- Su OPOSICION y RECHAZO a la presencia del Econ. Rafael Correa, Presidente del Ecuador, en un espacio donde históricamente se construyen alternativas y garantías a los derechos de los Pueblos y por la vida y no puede ser tribuna para un Presidente con posiciones impregnadas de racismo, machismo, paternalismo, discriminatorias, sexistas y violentas. El Presidente de Ecuador viola nuestros derechos fundamentales, atenta gravemente contra nuestras organizaciones e instituciones indígenas. El régimen Correa, promueve la explotación de petróleo en territorios de los Pueblos Indígenas en Aislamiento por su pleno ejercicio del derecho a la libre determinación, configurando con ello una situación de Genocidio. El Presidente Rafael Correa y sus Ministros de Gobierno Fernando Bustamante, de Seguridad Interna y Externa Gustavo Larrea y la Secretaria de Estado Manuela Gallegos, han tenido posiciones racistas, divisionistas y atentatorias contra derechos fundamentales y la dignidad indígena. La larga noche neoliberal está presente en Ecuador.
2.- La CONAIE denuncia enfáticamente la represión de que fuimos víctimas las comunidades indígenas que resistimos a la privatización de nuestros territorios, de la biodiversidad y del agua. Venimos siendo objeto de hechos de persecución y de criminalización de nuestro derecho a la resistencia social. Cuando demandamos respeto y garantías para nuestros derechos, hemos sido acusados desde la Presidencia de la República y sus Ministros de “terroristas” “ignorantes” “delincuentes” “ fundamentalistas” e “infantiles”. La represión ha sido grave en comunidades como Dayuma, Molleturo, Cuyabeno donde las fuerzas armadas usaron, helicópteros, gases lacrimógenos, armas de grueso calibre. Se agredió indiscriminadamente a mujeres y niños. En el gobierno de Rafael Correa se imponen leyes favorables a la minería en territorios indígenas, desconociendo y violando flagrantemente y de forma reiterada el Derecho a la Consulta que lo establece el Convenio 169 de la OIT y la Declaración de la ONU sobre los Derechos Indígenas.
3.- La CONAIE se ha opuesto a las leyes extractivistas del régimen de Rafael Correa, como la Ley de Minería, como el proyecto de Ley para el desarrollo de los biocombustibles y de los transgénicos, a una ley que no da garantías a la soberanía alimentaria. Alertamos al Foro que el discurso y prácticas de la Revolución Ciudadana en Ecuador, es levantado e impuesto desconociendo y violentando derechos fundamentales y colectivos garantizados en instrumentos internacionales de respeto obligatorio. Alertamos al Foro que el discurso del régimen de Ecuador usa el argumento de la revolución ciudadana, el del socialismo del siglo 21, como un argumento ideológico a cuyo nombre se reprime y atenta a la dignidad y derechos de nuestros pueblos.
4.- La CONAIE, en el marco del ejercicio del derecho de los Pueblos a sus derechos fundamentales, exhorta al Movimiento Indígena Mundial que se dirija al Foro Social Mundial, para:
A.- Se declare al Presidente del Ecuador, persona no grata con el espíritu del FSM. El Foro se debe a la legitimidad de nuestras reivindicaciones, de nuestros derechos y la de los Pueblos del Mundo y es en este contexto que no debemos ni podemos arriesgar su legitimidad y su credibilidad.
B.- Se suspendan los eventos del FSM en que esté presente el Presidente Ecuatoriano Rafael Correa Delgado y haga pública su posición de condena a las violaciones de los Derechos de nuestros y de todos los Pueblos que hacemos la sociedad ecuatoriana.
5.- La CONAIE ratifica su espíritu democrático, de paz, de defensa inclaudicable de los derechos de nuestros pueblos, de la Madre Tierra y su compromiso con las causas nobles de construcción de sociedades donde se garanticen derechos de todos los Pueblos del planeta.
“Somos como la paja de los Páramos, que nos arrancan y volvemos a crecer y de paja poblaremos el mundo”.
“Los Pueblos Indígenas no somos parte del problema, nosotros somos parte de las soluciones”
“El racismo en todas sus formas es inmoral, miserable y los que lo practican también”
Consejo de Gobierno de la CONAIE

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!