giovedì 23 aprile 2009

Turchia, due sindaci del Dtp condannati per legami con il Pkk

di Carlo M. Miele
I sindaci di Diyarbakır e Batman, due delle principali città del sudest turco, sono stati condannati a 10 mesi di reclusione per aver fatto propaganda a favore del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). Osman Baydemir, primo cittadino di Diyarbakir, e Nejdet Atalay, capo della municipalità di Batman, erano stati eletti nelle elezioni dello scorso 29 marzo, nelle liste del Partito della società democratica (Dtp). Entrambi sono stati processati per “propaganda a favore del Pkk”, il gruppo combattente kurdo che figura nella lista delle organizzazioni terroristiche di Turchia, Stati Uniti e Unione europea. In particolare, sono finiti nel mirino della magistratura due discorsi, risalenti al febbraio scorso, in cui Baydemir e Atalay si sarebbero riferiti ai militanti del Pkk definendoli “guerriglieri’’. Sempre oggi, e con la stessa accusa, è stato condannato Ali Simsek, presidente della provincia di Diyarbakir e membro del Dtp. Per lui la pena da scontare sarà di un anno. I pronunciamenti di oggi animeranno il dibattito sulla richiesta di messa al bando del Dtp, avanzata da tempo dalla magistratura turca e in attesa davanti alla Corte costituzionale. Diverse decine di membri del partito, che il 29 marzo ha trionfato nel sudest turco a maggioranza kurda, sono stati arrestati la scorsa settimana nell’ambito di un’operazione di polizia che ha coinvolto 13 città. Fonti ufficiali di Ankara affermano che gli arresti giungono al termine di un’indagine lunga un anno sui legami tra Dtp e Pkk, ma i dirigenti del partito parlano di “un’operazione di carattere politico” e di “un colpo alla lotta pacifica e democratica” della formazione filo-kurda.

(fonte: Hurriyet)

mercoledì 22 aprile 2009

Cifre della Banca Mondiale: ogni israeliano consuma acqua come quattro palestinesi

Si chiama sete l'ultima tortura per la Palestina


La distribuzione dell'acqua tra israeliani e palestinesi, decisa con gli accordi di Oslo II del 1995, deve essere modificata immediatamente se si vuole mettere fine ad una discriminazione che sta per provocare una catastrofe nei Territori occupati. A raccomandarlo con forza è la Banca mondiale che in un rapporto diffuso ieri riferisce che un israeliano ha a disposizione una quantità d'acqua quattro volte superiore a quella di un palestinese. L'accordo siglato dalle due parti ha messo in ginocchio i palestinesi, vittime di intese di 14 anni fa, frutto delle imposizioni della parte più forte, Israele, sulla debole Anp dello scomparso Arafat. E' la prima volta che la Banca mondiale produce un rapporto sulla distribuzione dell'acqua tra israeliani e palestinesi. Lo studio sottolinea che la divisione ineguale delle risorse idriche e la mancanza di informazioni precise sulle riserve di acqua, ha impedito ai palestinesi di poter accedere a nuove fonti. I palestinesi hanno diritto soltanto a un quinto delle riserve dell'acqua potabile. Il resto finisce nel sistema di distribuzione israeliano senza che il comitato congiunto incaricato dagli accordi di Oslo abbia la possibilità di riconsiderare l'assegnazione delle quote. In sostanza Tel Aviv si preoccupa di tenere la quantità d'acqua per la sua popolazione sugli standard stabiliti internazionalmente, senza preoccuparsi delle conseguenze per i palestinesi. E' da considerare anche il fatto che i rari nuovi pozzi che i palestinesi hanno potuto scavare nei 42 anni di occupazione, hanno garantito modeste quantità di acqua a differenza degli israeliani che, grazie alla loro tecnologia, possono arrivare a profondità maggiori. I problemi sono resi più acuti dall'inefficienza delle istituzioni dell'Anp. Israele ha respinto il rapporto sostenendo che il suo apparato industriale, ampiamente superiore a quello palestinese, richiede maggiore quantità d'acqua. Dopo l'occupazione di Cisgiordania e Gaza nel 1967, l'esercito israeliano trasferì il controllo delle risorse idriche palestinesi alla società Mekorot. Da allora i palestinesi hanno un controllo molto limitato delle proprie risorse idriche che, in buona parte, finiscono in Israele. Diversi villaggi della Cisgiordania inoltre non hanno acqua potabile per gran parte dell'anno e gli abitanti, paradossalmente, sono costretti in non pochi casi a comprarla dai coloni israeliani che occupano la loro terra.
Michele Giorgio

martedì 21 aprile 2009

Azione anti-nucleare a Scanzano Jonico

Scanzano Jonico rischia di ospitare il deposito delle scorie nucleari. Siamo andati sul sito dei pozzi aperti. In una notte li abbiamo cementati e trasformati in un parco giochi. Perché con il futuro dei nostri figli non si può giocare!
Questa notte circa quindici attivisti sono entrati nel sito, hanno ’chiuso’ i pozzi con tappi di cemento e hanno steso striscioni con i messaggi "Stop follia nucleare", "Niente scorie nucleari a Scanzano", "Non giochiamo con il futuro dei nostri figli".
La storia del sito per il deposito nucleare di Scanzano Jonico è lunga. Il sottosuolo dell’intera zona è caratterizzato dalla presenza di 15 miliardi di tonnellate di salgemma. Ma non è la miniera di sale a destare interesse quanto piuttosto il progetto di buttare a mare il salgemma e utilizzare le caverne come deposito.
Nel 2003 il governo indicò il sito di Scanzano come deposito nazionale per tutti i rifiuti radioattivi italiani. Dopo un mese, in seguito a una mobilitazione popolare senza precedenti, il governo decide di rimuovere il riferimento a Scanzano Jonico per le scorie e di affidare la decisione della scelta del deposito a una Commissione mai costituita. Insomma, la gestione delle scorie radioattive in Italia rimane un problema ancora irrisolto.
Oggi il governo – nella follia della riapertura del nucleare nel nostro paese - sta proponendo al Parlamento una strategia ‘sovietica’ basata su un approccio autoritario e ’militare’ alle scelte di localizzazione dei siti e gestione delle scorie, contraria alle direttive europee.
Con l’azione di oggi chiediamo che il sito di Scanzano Jonico venga ripristinato. I pozzi vanno chiusi al più presto e la Regione Basilicata deve annunciare pubblicamente che non è disponibile a subire nessun deposito nucleare sul proprio territorio.
Chiediamo che la gestione ‘militare’ del nucleare finisca e si apra una discussione democratica e partecipata sul futuro energetico del Paese. Dopo 60 anni di ricerca, tutti i problemi del nucleare rimangono ancora irrisolti: dalla gestione delle scorie alla sicurezza degli impianti, dalla limitatezza delle risorse di Uranio agli altissimi costi di costruzione.
Gli obiettivi europei per le fonti rinnovabili e l’efficienza energetica al 2020 valgono il triplo del piano nucleare del governo e occuperebbero almeno 200 mila persone. 10-15 volte l’occupazione indotta dal nucleare.
Articolo pubblicato sul sito di Greenpeace

In Turchia record di arresti


Dal 14 aprile 305 persone sono state prese in custodia dalla polizia turca nell'ambito delle operazioni contro il DTP.

Qualche giorno fa è stata svolta una ingente operazione contro il Partito della Società Democratica – DTP – in quindici province turche; 53 persone sono state fermate; in seguito 51 sono state arrestate e due sono state rilasciate. Delle persone fermate, 27 sono state immediatamente rinviate all’esame della Procura della Repubblica, che ne ha raccolto le dichiarazioni e le ha poi inviate al cospetto del tribunale ordinario. Si tratta del Vicepresidente del DTP, Bayram Altun, di Kamuran Yüksek, e dei consiglieri Selma Irmak, Şinasi Tur e Siracettin Irmak (che sono avvocati), Hüseyin Yılmaz, Kemal Aktaş, Mehmet Abbasoğlu, Herdem Kızılkaya, Mehmet Akın, Celal Yoldaş, Hasan İnatçı, Sara Aktaş, Ercan Sezgin, Nadir Yıldırım, del Vicepresidente della sezione di Diyarbakir del DTP, Musa Farisoğulları, di Temer Tanrıkulu, del coordinatore generale delle attività di Gün TV, Ahmet Birsin, di Zehra Bozacı, Zahide Besi, Çimen Işık, Heval Erdemli, Pergüzar Kaygısız, Ahmet Çelen, Alican Önlü e Salih Akdoğan. Dirigenti e membri dell’organizzazione sono stati poi inviati in un carcere di tipo D di Diyarbakir.Stamane altri 25 appartenenti al DTP sono comparsi al cospetto del tribunale e 24 sono stati conseguentemente arrestati, sempre con l’accusa di appartenenza al PKK. Pertanto soltanto Űmit Aydin e Mesut Çetin sono stati rilasciati, mentre altre 51 persone sono attualmente agli arresti.

Gli aiuti umanitari marciscono alle porte di Gaza

Erin Cunningham, The Electronic Intifada
Centinaia di migliaia di tonnellate di aiuti indirizzati alla Striscia di Gaza sono ammassati nelle città del nord del Sinai, nonostante gli inviti degli Usa ad allentare le restrizioni all’ingresso delle merci nella regione, ex-campo di battaglia del recente assalto israeliano.
Cibo, medicinali, coperte, alimenti per bambini ed altri tipi di rifornimenti inviati da governi e Ong milione e mezzo di palestinesi residenti nella Striscia sono attualmente stipati in magazzini, posteggi, stadi e piste di atterraggio all'interno del governatorato egiziano del Nord del Sinai, la regione confinante con Israele e la piccola striscia appartenente ai Territori palestinesi.
Con quest’ultima, in particolare, l’Egitto condivide una frontiera di 14 chilometri, chiusa in maniera più o meno permanente da quando il movimento militante islamico di Hamas ha preso il controllo del territorio nel giugno del 2007.
Farina, pasta, zucchero, caffé, cioccolato, salsa di pomodoro, lenticchie, datteri, succhi, piselli, coperte, letti ospedalieri, cateteri e altri riformimenti umanitari sono ammassati in almeno otto punti diversi dentro e fuori a al-Arish, una cittadina nel nord del Sinai, a circa 50 km. dal confine con Gaza.
Tali rifornimenti hanno cominciato a riversarsi in Egitto fin dallo scoppio della guerra. Tre mesi dopo la sua fine, a causa del continuo rifiuto egiziano di aprire il passaggio di Rafah, molti degli aiuti sono ormai marciti, o danneggiati irreparabilmente dalla pioggia e dal sole.
Un funzionario governativo locale, che ha scelto di restare anonimo, ha dichiarato all’IPS: “La verità è che la maggior parte di questi aiuti non vedrà mai Gaza. Molti degli alimenti andranno buttati”.
La Striscia di Gaza è stata l'obiettivo di un'operazione israeliana durata tre settimane e chiamata "Piombo Fuso", dove sia la popolazione civile e le decrepite infrastrutture sono state colpite dalla potente macchina da guerra di Israele. Sul terreno sono stati lasciati 1400 morti e oltre 5000 feriti. Un cessate il fuoco unilaterale è in atto dal 18 gennaio.
John Ging, coordinatore dell’Agenzia Onu per i Rifugiati (UNRWA) a Gaza, la settimana scorsa ha dichiarato a IPS che il soffocamento degli aiuti nel periodo dopo la guerra ha conseguenze devastanti sulla popolazione, sia dal punto di vista fisico che emotivo.
L’ultimo rapporto pubblicato dall’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (OCHA) ha stabilito il 30 marzo scorso che “le quantità e i generi di rifornimenti che raggiungono Gaza continuano ad essere soggetti a restrizioni casuali ed a procedure di sdoganamento imprevedibili, creando grossi problemi logistici alle agenzie umanitarie”.
(...)
Dal 27 dicembre 2008, il giorno in cui Israele ha lanciato i suoi attacchi, solo 43 camion di quelli che l'OCHA definisce "prodotti alimentari umanitari" sono di alimenti sono stati inviati nella Striscia via Rafah. Il primo carico è stato mandato il 10 gennaio 2009, più di due settimane dopo l'inizio della guerra.
I farmaci e le attrezzature mediche sono riuscite a passare dal valico di Rafah, mentre i generi alimentari hanno dovuto attraversare il territorio israeliano. Attualmente, qualsiasi carico deve attraversare i passaggi commerciali di al-Auja e di Kerem Abu Salam, ed è sottoposto sia alle norme commerciali israelo-egiziane, sia alle leggi israeliane per le importazioni.
Gran parte di ciò che è conservato attualmente nel Sinai del Nord – compreso il cibo – è stato definito da Israele “non essenziale” alla vita nella Striscia di Gaza.
Duemila “confezioni-famiglia” – provviste di rifornimenti essenziali per le famiglie palestinesi e donate dall’Ong italiana Music for Peace – sono state recentemente respinte al passaggio di al-Auja dalle autorità israeliane. Il motivo: ciascuna di esse conteneva un barattolo di miele. Questo è quanto è stato riportato dal presidente dell’Ong, Stefano Robera
.
Rappresentanti di altre Ong internazionali giunti a al-‘Arish e a Rafah temono che neanche un frammento degli aiuti inviati oltrepasseranno i punti di transito egiziani, nonostante la promessa del governo di Nazif che il valico di Rafah resterà aperto per “considerazioni umanitarie”.
Secondo l’OCHA, durante tutto il mese di marzo è stata invece sbarrata la strada a ogni mezzo di trasporto merci, ed è stato aperto per soli due giorni per mandare coperte e materassi alla Striscia di Gaza.
Controversa la questione di chi dovrebbe avere la responsabilità dello smistamento dei rifornimenti in Egitto: il governatore del Sinai del Nord Mohamed ‘Abd al-Fadil Shusha ha chiesto alle organizzazioni di donarli semplicemente a Ong locali. Altre fonti hanno riferito all’IPS che le forze di sicurezza egiziane incaricate di tenerli in custodia hanno demandato tutto ad alcuni residenti di al-‘Arish.
Il valico di Rafah fu aperto per la prima volta nel novembre 2005, quando Israele e l’Autorità Nazionale palestinese firmarono un Accordo sul movimento e l’accesso, parte integrante del “disimpegno” israeliano dalla Striscia. In coordinazione con l’Anp, l’Egitto cominciò a permettere il passaggio a viaggiatori, cargo e aiuti umanitari, sotto la supervisione Ue e israeliana. Quando però Hamas ottenne il controllo della regione nel giugno 2007, Mubarak sigillò i confini.
Da allora, il governo egiziano ha rifiutato di aprire Rafah a qualsiasi mezzo o rifornimento che non fosse medico, abbandonando gli aiuti nelle condizioni che conosciamo e lasciando la popolazione di Gaza alle prese con le conseguenze della tragica guerra e dell’embargo ininterrotto.
Le organizzazioni dei diritti umani hanno recentemente denunciato come non solo Israele, ma anche Egitto, Ue e Usa, avallando questa situazione, abbiano violato le leggi internazionali – e i diritti di tutta la popolazione di Gaza – per non aver rispettato il suddetto Accordo sul movimento e l’accesso, soprattutto dopo la fine del conflitto.
Traduzione per Infopal a cura di Jacopo Falchetta

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!