mercoledì 2 settembre 2009

Guerra al narcotraffico

La strategia del governo messicano tende al fallimento: i morti aumentano, droga e soldi continuano a fluire, la società paga il prezzo.


di Matteo Dean

La chiamano 'guerra contro il narcotraffico'. È stata lanciata così, in pompa magna, davanti alle centinaia di telecamere dei mezzi di comunicazione che riprendevano il neo presidente messicano, Felipe Calderon, in uno dei suoi primi discorsi pubblici, verso la fine di dicembre 2006. E da allora, colui che si era presentato alle elezioni – vinte grazie ad alcune irregolarità – come il “presidente del lavoro” (inteso come posti di lavoro), divenne il presidente della 'guerra al narco', della battaglia 'epocale' contro i potentissimi cartelli messicani della droga. Sin da quei primi mesi, lo slogan ottenne il successo desiderato: nonostante la scarsa legittimità di cui godeva Calderon, la nuova impresa dello Stato contro la criminalità organizzata che “insanguina le nostre terre e offre droga ai nostri figli” sembrava ottenere quel consenso non pienamente ottenuto alle urne. Ed allora il via ufficiale alla crociata anti-criminalità: 70.000 soldati utilizzati in funzione di polizia, nuove leggi che permettono maggiore agilità 'giuridica' e libertà operativa per le forze di polizia e per gli inquirenti, firma dell'Iniziativa Merida, piano strategico che prevede il finanziamento per circa 1.4000 milioni di dollari in tre anni da parte del governo americano per la 'lotta al narcotraffico', ecc..

Ad oggi, 32 mesi dopo il lancio delle operazioni, il bilancio è tragico: oltre 13.000 morti, con un aumento del 100% tra il 2008 e il 2009, visto che si è passati da una media di 10,2 morti al giorno dello scorso anno a ben 20,1 di quest'anno. E, purtroppo, non vi sono segnali di una controtendenza a questa vertiginosa crescita. Certo, si dice, i morti sono tutti narcotrafficanti, grandi e piccoli, che si uccidono tra loro, nella battaglia campale che si è scatenata da quando il governo messicano, lanciando la sua 'guerra', ha tagliato la testa a praticamente tutti i grandi cartelli della droga. Una guerra interna, si dice, che “dimostra l'efficacia dell'attuale politica dello Stato”, dicono presso il plenipotenziario Ministero della Pubblica Sicurezza (SSP, l'acronimo in spagnolo). Quel che è vero, però, è che gli scontri tra le bande di narcotrafficanti non avvengono nelle ore notturne, i luoghi isolati e lontani dagli occhi della popolazione. Al contrario, le sparatorie ormai si realizzano nei centri cittadini delle grandi città, da Guadalajara a Monterrey (rispettivamente la seconda e la terza città più grande del paese), da Ciudad Juarez a Tijuana, da Acapulco e Città del Messico. Ed allora le cifre potrebbero aumentare, perché molte volte le cronache giornalistiche riportano l'esistenza di vittime 'civili', tra i passanti, tra i comuni cittadini costretti ad assistere impotenti a questo scontro senza precedenti. Ma purtroppo, di queste vittime, ancora non c'è una statistica ufficiale che, pur riducendo le vite in semplici numeri, riesca comunque ad offrire un panorama anche di questo genere d'impatto sulla società. Dall'altra parte, poche sono anche le informazioni relative alle morti, pure copiose, tra le forze dell'ordine, attaccate ormai con quotidiana regolarità dalla potente macchina militare del narcotraffico. Il governo lo ha ammesso ormai da diversi mesi: “I cartelli sono militarmente superiori a noi, in quanto a volume di fuoco e capacità distruttiva”. Detto in altre parole: i narcotrafficanti hanno più uomini – si calcola che in tutto il giro d'affari ci lavorino circa 2 milioni e mezzo di persone – ed armi più potenti – da bazooka a missili terra-aria. Insomma, la guerra è vera e non risparmia colpi.

Ma se la campagna presidenziale – perché ormai, tra critiche ed opinioni contrarie, sembra che solo Calderon ed il suo staff continuino a credere nell'attuale strategia – sembra destinata ad aumentare ulteriormente il numero di morti nel paese, sorge da più parti la domanda rispetto il reale obiettivo di tanta “violenza legittima”. Perché è pur vero che molti – ma non tutti: esemplare il caso di Joaquín 'el Chapo' Guzman – dei grandi capos della droga son finiti dietro alle sbarre, ma è questo forse l'unico risultato concreto ottenuto: sull'altro versante, infatti, ormai non si contano i municipi commissariati, le cui polizie locali sono state sostituite dall'esercito; non si conta il numero di armi presenti nel paese; non si contano i giovani – e meno giovani – che oggi, disoccupati e in crisi perenne da ben prima della temibile 'crisi economica', entrano a far parte dell'affare-narcotraffico. Così come, infine, è difficile oggi distinguere con chiarezza le reali operazioni anti-criminalità da quelle contro le organizzazioni sociali, più o meno civili.

La presenza dell'esercito nello stato di Guerrero, per esempio, incluso nelle vie della rinomata Acapulco, ha già prodotto scontri a fuoco, di una certa rilevanza, tra le forze armate e gruppi armati appartenenti alle diverse sigle guerrigliere presenti nel territorio. In altre zone del paese, Oaxaca e Chiapas per esempio, ma anche nel nord della repubblica, sono ormai all'ordine del giorno le denunce di organizzazioni sociali - assolutamente non guerrigliere, ma semplicemente radio comunitarie, contadini, comunità indigene, studenti, ecc. - rispetto ai presunti abusi ed alle violazioni ai diritti umani realizzate dalle truppe dell'esercito nelle vesti della pubblica sicurezza. In questo senso, non solo sono allarmanti le denunce, ma ancor più inquietante risulta essere la risoluzione della Suprema Corte di Giustizia della Nazione (SCJN) emessa a principio di agosto rispetto all'immunità di cui godono le truppe. Dice la risoluzione: i militari colpevoli di violazioni al codice penale saranno giudicati dagli organi di giustizia militari. Un colpo tremendo, soprattutto per tutti coloro – tra cui diversi settori della classe politica rappresentata in Parlamento – che pongono il dubbio sulla reale legittimità nell'uso delle forze armate in funzioni di polizia.

Il dibattito rispetto l'immunità dei militari non è sterile. Al contrario, si genera a partire da fatti concreti: omicidi 'involontari', magari a qualche posto di blocco dove un'automobile innocente non si è fermata all'alt pronunciato dall'esercito; arresti arbitrari, incursioni senza mandato in case e spazi privati; torture ed abusi fisici agli interrogati; alcune sparizioni sospette. Ma la polemica, come suole accadere, si accende solamente quando l'ombra del dubbio è segnalata dalle voci 'importanti'. La consegna dei finanziamenti previsti dall'Iniziativa Merida, infatti, è condizionata dal rispetto dei diritti umani nella lotta al narcotraffico. La legge emessa in aprile di quest'anno dal Congresso statunitense, infatti, vincolava il 15% del finanziamento ad uno studio in fase di realizzazione che certifichi tale rispetto. Il presidente Calderon nega gli abusi. Il Ministero della Difesa ne ammette una decina e conferma che la giustizia militare sta facendo il suo corso. Ma le organizzazioni sociali hanno altri dati: Amnesty International, Human Rights Watch ed altre documentano decine e decine di casi, in tutto il paese.

Rosario Ibarra, oggi senatrice della Repubblica, ma da oltre trent'anni attenta e testarda lottatrice per la consegna delle centinaia di desaparecidos della cosiddetta 'guerra sporca' degli anni '70, tra cui il figlio Jesus Ibarra, avverte che la presenza di tanti soldati nelle strade messicane potrebbe avere anche altre finalità: “Giustificano tutto con la lotta al narcotraffico, ma la gente continua a morire e pochi sono gli arresti”. Aggiunge: “Cercano di abituare la popolazione alla presenza militare per le strade. Fanno in modo che la gente esiga questa presenza, con l'illusione di risolvere il problema dell'insicurezza”. E conclude: “In realtà temo che il prossimo passo ci saranno gli escuadrones de la muerte”(l'ipotesi, purtroppo, si starebbe confermando). Carlos Montemayor, scrittore ed analista politico, coincide nell'analisi: “È evidente che la situazione è scappata al controllo del governo”. In quest'ottica e nel contesto dell'attuale crisi economica – che ha portato all'aumento 'ufficiale' nel numero di poveri in Messico: 53,1 milioni, secondo l'INEGI, l'istituto nazionale di statistiche -, spiega, “si stanno chiudendo le valvole di sfogo naturali alla pressione sociale crescente, ovvero emigrazione (il Messico espelleva, sino all'altr'anno, quasi un milione di persone verso gli USA) e il lavoro informale (o lavoro 'nero', di cui farebbe parte il 48% della Popolazione Economicamente Attiva)”. Quel che resta, conclude “è che la gente senza lavoro andrà ad ingrossare le fila del narcotraffico”. È evidente dunque che, come spiega Johan Galtung, “le ragioni per le quali la gente accetta di lavorare per i cartelli è che desidera uscire dalla miseria” e quindi “ si devono offrire valide alternative economiche alla popolazione”. Ma il governo messicano non ci sente per quell'orecchio e continua ad inviare soldati nelle 'zone calde' del conflitto. Continua Galtung: “Per il governo il problema non è la miseria, ma il narcotraffico, perché questo offre un'alternativa alla miseria di milioni” e di conseguenza ottiene tendenzialmente maggiore consenso. L'attuale militarizzazione del paese, dunque, potrebbe essere letta in un'ottica che comprenda il lungo termine. L'opinione di Galtung, largamente condivisa da Montemayor, è che “il governo teme il 2010, per l'effetto simbolico che produrrà”. Il prossimo anno, infatti, si celebreranno due importanti anniversari: i duecento anni dell'Indipendenza (1810) e i primi cent'anni della Rivoluzione (1910). Secondo i più queste due date “obbligheranno i messicani a chiedersi se gli obiettivi di quei due momenti storici sono stati raggiunti”. In altre parole, nel 2010 i messicani dovranno dire se il Messico è oggi veramente indipendente e veramente democratico. Secondo Galtung il governo messicano teme realmente una rivolta generalizzata nel paese. Le condizioni vi sarebbero tutte e dunque “la presenza dei militari nel territorio, nella società, risponde anche ad altre necessità: abituare la gente alla presenza militare; lanciare un segnale chiaro a chiunque abbia in mente di ribellarsi, 'siamo pronti'; e infine abituare gli stessi militari a stare per le strade, in mezzo alla gente”. Se tutto ciò fosse vero, dunque, rimane una sola domanda a cui rispondere: “La guerra che il governo messicano realizza contro chi è? Contro le bande di narcotrafficanti o contro la popolazione?”.

Libertà di stampa by Israel, l'appello dell'associazione dei media palestinesi: liberate i giornalisti imprigionati.

tratto da Infopal

L'Associazione dei Media palestinesi ha condannato i continui rapimenti di colleghi giornalisti da parte delle forze di occupazione israeliane.

In un comunicato stampa, l'Associazione denuncia il sequestro di Sirri Sammour, avvenuto all'alba di lunedì, dopo che le truppe israeliane ne avevano assaltato l'abitazione di Jenin.

La settimana scorsa sono stati rapiti altri due giornalisti che risiedono nel campo profughi di al-Ein, a Nablus. Altri sei sono attualmente rinchiusi nelle carceri israeliane.

L'organizzazione rivolge un appello a Reporter senza frontiere e alle associazioni per la difesa dei diritti umani e la libertà di stampa affinché condannino le aggressioni israeliane e chiedano l'immediato rilascio dei giornalisti sequestrati.

martedì 1 settembre 2009

Il saccheggio dell’Amazzonia tra antichi conquistadores e moderni petroleros

Toxi-tour: viaggio di Ya Basta! tra le comunità ribelli che si oppongono alla produzione petrolifera.
di Riccardo Bottazzo
Nell’Anno del Signore 1561, Gonzalo Pizarro, governatore di Quito e fratello del celebre conquistadores, armò una grande spedizione e scese il versante orientale della cordigliera alla conquista di terre inesplorate.
Nascosta in quell’immensa foresta dove mai nessun europeo aveva messo piede, sorgeva una città dai tetti d’oro e dalle strade lastricate di pietre preziose. Il sovrano di questo paese era talmente ricco che si faceva cospargere di polvere d’oro. El Dorado, lo chiamavano i suoi sudditi.
Un regno, il cui segreto era gelosamente custodito dai nativi. Tanto che ci erano volute ore e ore di tortura perché un indigeno confessasse la sua esistenza.
E così, 340 soldati spagnoli, 150 cavalieri, 4 mila portatori indigeni e un discreto numero di preti e frati convinti che l’unica differenza tra una spada e una croce dipendesse dalla parte in cui si impugnava il manico, si addentrarono nella foresta inesplorata più grande della terra, massacrando e convertendo, convertendo e massacrando tutti i nativi che gli si paravano davanti.
Avanti, avanti, sempre più in basso e sempre più dentro l’impenetrabile giungla. Avanti, avanti sino a che non fosse apparsa una città dai tetti d’oro da conquistare di spada e di croce.
Tre mesi dopo, la spedizione era ridotta alla fame. Le malattie, la carenza di viveri e di acqua potabile, gli animali velenosi, la resistenza degli indigeni avevano decimato i conquistadores. A morire di fame furono innanzitutto i 4 mila portatori indigeni. Poi cominciarono a cadere anche gli spagnoli.
Stremato, incapace di andare avanti quanto di tornare indietro, Gonzalo Pizarro pose il suo ultimo campo in quelle terre sconosciute e affidò tutte le sue speranze al luogotenente Francisco de Orellana. Un indigeno, dopo l’immancabile tortura, gli aveva confessato che El Dorado era vicina e che sorgeva alla confluenza dei due grandi fiumi che oggi si chiamano rio Napo e rio Coca. Pizarro ordinò al suo luogotenente di mettersi in marcia con la cinquantina di spagnoli ancora in forze, conquistare la città, cristianizzarla, saccheggiarla e far ritorno al campo con oro, viveri e schiavi (quelli che si erano portarti da Quito li avevano finiti tutti) e salvare il suo governatore. Il tutto, in nome di dio e del re di Spagna.
Francisco Orellana si mise in cammino, trovò i due grandi fiumi ma, ahimè, della città dai tetti d’oro non c’era traccia. Vai a capire perché, gli indigeni si dimostravano sempre poco collaborativi nei confronti dei conquistadores. Scappavano, si rifiutavano di aiutarli e di farsi evagelizzare senza previa tortura, erano assai poco precisi nell’ubicare l’El Dorado, e come se non bastasse, erano talmente ignoranti da credere che quelle terre fossero loro e si rifiutavano di ammettere che dio le aveva concesse ai re cattolici di Spagna!
Compreso che tornare indietro significava morire e che l’oro e la gloria di El Dorado potevano essere a pochi chilometri di distanza, nascosti dal quell’intricatissima foresta di alberi giganteschi, Orellana decise di proseguire. Costruì una grande zattera, la varò sul rio Napo, ed affidò la sua anima al buon dio e la sua vita al grande fiume. Aggrappato a quei legni, con gli ultimi compagni rimasti, si abbandonò alla corrente di quelle acque ignote che scendendo a valle si allargavano sempre di più, grazie all’apporto di migliaia di affluenti, sino ad assumere le dimensioni di un piccolo mare d’acqua dolce.
Nell’agosto del 1562, dopo quasi un anno trascorso sulla zattera a pescar piranha e ad azzuffarsi con tutte i gruppi indigene incontrati tra cui una di donne guerriere, il grande fiume che oggi chiamiamo il Rio delle Amazzoni, depositò Orellana e un pugno di conquistadores ancora in vita, nell’Oceano Atlantico. Avevano attraversato l’intero continente.
Mezzo migliaio di anni dopo, nell’Anno del Signore 2009, ai carovanieri di Ya Basta! in viaggio nell’Otra mitad del Mundo, vien da chiedersi se sia cambiato l’atteggiamento dei conquistadores bianchi nei confronti dei popoli amazzonici. Quelle buonanime di Francisco de Orellana e di Gonzalo Pizarro, perlomeno, avevano la fantasia o l’ingenuità di credere nelle fiabe. Le multinazionali del petrolio solo nell’estratto conto. Per il resto, le tecniche di genocidio sono state soltanto ripulite e raffinate. La globalizzazione ha preso il posto della religione. Lo sviluppo economico ha sostituito il saccheggio. Il diritto giuridico, il diritto divino. Neppure la patina di rispettabilità con cui si vestono oggi i padroni dell’Impero è troppo distante da quella che, ai loro tempi, ricopriva la nobiltà.
Soprattutto, l’oro (che non c’era) è stato sostituto dal petrolio (che invece c’è).
Oggi, Puerto Francisco de Orellana, la città alla confluenza dei due grandi fiumi dove il conquistador gettò in acqua la sua zattera, è il capoluogo di una omonima provincia che galleggia sopra un mare di oro nero. Il petrolio, el crudo come lo chiamano qui, è una presenza tangibile in tutti gli aspetti della vita e non solo per la quantità di pompe, stabilimenti, pozzi, ciminiere di fuochi perenni, cisterne, serbatoi, vasche di raccolta e terre devastate dalla contaminacion che si contendono la visuale con quel che rimane degli alti alberi secolari massacrati dalla deforestazione.
Qui, a El Coca, come gli ecuadoriani chiamano familiarmente Orellana, qualsiasi cosa - sogni, urbanistica, speranze, paure, trasporti, lavoro, salute, politica… - viene sempre ricondotta al petrolio. Addirittura il desayuno, la colazione, nei bar viene proposto in due versioni: continental, soliti caffè, pane e marmellata, oppure petrolero. Di che si tratta? Beh… diciamo che il desayuno petrolero sta al continental come il neo liberismo alla decrescita: una quantità di salsiccie, affettati e uova che una normale famiglia indigena non vede insieme neppure in due settimane.
Ma sono i tubi la presenza più ossessiva. Tubi di tutte le dimensioni e di tutti i colori con il solo comun denominatore di essere fatiscenti e assolutamente inaffidabili. Il petrolio amazzonico è tanto ma di cattiva qualità. Per far quadrare i bilanci multinazionali, si punta sulla quantità. Una perdita, anche una perdita capace di inquinare un’area grande come mezza laguna di Venezia, viene considerata insignificante nei conteggi bancari dei petroleros. Non esistono valvole di sicurezza, ad Orellana. Gli svasi di petrolio greggio vengono segnalati dai contadini quando gli animali cominciano a morire e i bambini ad ammalarsi. Manuel, un simpatico colono che ha accolto i carovanieri di Ya Basta! nella sua finca, ci accompagna su un laghetto putrido e puzzolente grande come mezzo campo di calcio. Da far venire la nausea solo a passarci vicino. Dopo la denuncia, spiega, i petroleros hanno fatto svolgere delle analisi chimiche e fisiche. Il risultato? “Che non proprio nulla di cui lamentarmi e posso stare tranquillo – ci spiega–. Mi hanno garantito che la fuoriuscita di greggio ha fatto bene alle piante e ora crescono meglio di prima”. E morta qua. Un’altra denuncia e, invece dei tecnici, sarebbero arrivati la polizia e le guardie private dei petroleros a fargli le “analisi” del terreno! E di morti ammazzati per mani neppure troppo misteriose, come ci confermerà la sera l’amico Diocles Zambrano, leader della rete Angel Shingre, da queste parti ce ne sono fin troppi.
“Qui in Amazzonia il bacino di voto è appena il 5 per cento – commenta Diocles -. Al governo non gliene frega niente di noi. La revolucion ciudadana esta en marcha e passa sopra i più elementari diritti degli indigeni e dei coloni che di petrolio muoiono assieme alla loro terra e alla loro cultura. L’interesse dello Stato viene prima di tutto e tutto giustifica. L’Amazzonia è sacrificabile nell’altare di una economia e di una politica estrattiva che, Correa può anche definirle socialiste, ma sono e restano derechosas (destrorse. ndr). Le compagnie nazionalizzate non hanno fatto certo meglio di quelle straniere sul tema dell’inquinamento e del rispetto dei diritti umani!” Le stesse, frequenti, perdite e rotture dei tubi, spiega Diocles, che stanno ammazzando la foresta e portando alla disperazione gli indigeni che ancora vi vivono, vengono imputate dai petroleros e dal governo ad atti di sabotaggio dei campesinos. Così che chi segnala una pozza inquinante nella sua finca rischia innanzitutto di essere menato di brutto e denunciato alle forze dell’ordine.
Il viaggio della carovana, su uno scassato furgone che tira il fiato su ogni salita, prosegue per le strade di Dayuma dove una targa posta fuori del municipio ricorda la strenua resistenza dell’intera comunità nel 2007, quando ci vollero i mezzi blindati e tremila uomini dei reparti speciali dell’esercito ecuadoriano per porre fine al grande “paro” che vide campesinos e indigeni uniti a bloccare per giorni l’unica strada che collega Orellana ai pozzi.
La martellante presenza dei tubi lungo la carreggiata viene interrotta da ridicoli cartelloni in stile “pubblicità progresso” posti dagli stessi petroleros: “Produciamo l’energia e proteggiamo l’ambiente”, “Non gettate immondizia”, “Donna, non permettere più che ti maltrattino”. Ci chiediamo se fanno più ridere o incazzare. Di tanto in tanto, un posto di blocco delle milizie private ci ferma per chiederci dove andiamo e perché. Mentiamo spudoratamente e senza sensi di colpa. Loro non sono da meno. Quando chiediamo informazioni ci spediscono regolarmente fuori strada. L’Otra Mitad del Desarollo (sviluppo) è roba da stomaci forti e non è bello che girino per il “mondo civilizzato” (quello che consuma e ignora) le foto, le immagini e i reportage di questo stupro sistematico cui le multinazionali del petrolio sottopongono ogni giorno l’Amazzonia, il “polmone verde” dell’umanità.
Procediamo sino quasi ai confini con la Colombia. Tubi. Ancora e sempre tubi da tutte le direzioni e da tutte le parti. Migliaia di endovenose che prelevano il sangue ad un paziente mezzo morto. Sono dappertutto. Attraversano città e paesi in linea retta, sfiorano le case e costeggiando le strade. Per passare da una parte all’altra della piazza del paese ti tocca scavalcarli (interrarli è troppo costoso, oltre che pericoloso). Corrono senza pudore in mezzo alle fincas dei coloni, separano la capanne dalle latrine, tagliano in due le stalle, passano i ponti da dove i bambini si tuffano in acque inquinate. Corrono sotto gli stendi biancheria e le massaie son costrette a salirci sopra per stendere il bucato. Si vive in gabbie di petrolio. Ma come possono permettersi di umiliare in tal modo un intero pueblo? Ce lo ha spiegato bene una anziana signora che ha provato ad opporsi alla distruzione del suo giardino per far passare l’ennesimo tubo a due passi dalla soglia della sua casa e proprio dentro il suo allevamento di polli. Grazie ai compañeros dell’associazione Derechos Humanos di Joya de los Sachas, la signora ha intentato causa ai petroleros. La pratica è ancora in tribunale. Aspetta e spera. Per l’intanto, sono andati a trovarla trecento tra poliziotti, forze speciali, esercito e milizie private che l’hanno menata e spiegato che il tubo, come la Revolucion Ciudadana, deve marciare anche per casa sua. Adesso il suo giardino non esiste più, l’allevamento lo ha dovuto spostare e l’intera casa è circondata di cartelli con scritto peligro e “lavori in corso”. Storia neppure originale in quel di Orellana, dove il petrolio vale più della foresta e della tua stessa vita.
E non è una novità, in questa Otra Mitad del Mundo, neppure che gli sbirri del compagno presidente si mobilitino in trecento per convincere a botte una vecchia contadina che voleva solo difendere le sue galline. Siamo nella terra dell’oro nero e non si bada a spese.
Casomai qualcuno avesse ancora dubbi su chi comanda in questa Otra Mitad del Mundo…

lunedì 31 agosto 2009

Segnali di pace dall'uomo di Imrali

Nuove speranze per la questione curda. Gli sforzi del governo e il piano Ocalan potrebbero mettere fine a 25 anni di lotte


La questione curda, dopo venticinque anni di lotta, non è arrivata mai così vicina a una possibile soluzione. Con sette giorni di ritardo Omer Gunes, l'avvocato di Abdullah Ocalan, ha reso noto che il leader del Pkk ha inviato al governo turco dal carcere dell'isola di Imrali la tanto attesa Road Map. Il documento, che fissa i paletti con richieste e concessioni per mettere fine a una lunghissima striscia di sangue, repressioni e compressioni di diritti, sarebbe stato consegnato da Ocalan ai suoi avvocati il 20 agosto scorso.

I punti della Road Map.
Sui contenuti del documento elaborato dal leader curdo ci sono solo delle ipotesi o tutt'al più indiscrezioni svelate da fonti vicine al partito filocurdo Dtp. "Il presidente" chiederebbe, in sei punti, a) una Costituzione democratica, b) il riconoscimento dei diritti politici della minoranza curda, c) una trattativa con il Pkk, d) l'abolizione dei guardiani di villaggio - attraverso i quali l'amministrazione turca esercita il proprio controllo sulle comunità rurali, e) un'amnistia generale, f) miglioramento delle condizioni di prigionia nel carcere dello stesso Ocalan. Sul lato delle concessioni, il leader del Pkk chiede al suo popolo di riconoscere lo Stato turco che a sua volta dovrebbe accettare che la popolazione curda a divenire una nazione democratica. È proprio su quest'ultimo punto, fin quando non ne verranno chiariti ulteriormente i dettagli, che sorgono i maggiori interrogativi. Indipendenza, federazione o autonomia?

Fattori esterni.
Mehmet Yuksel, coordinatore dell'Uiki (Ufficio d'Informazione del Kurdistan in Italia), parlando con PeaceReporter, dimostra di essere cauto e diffidente. Pur non nascondendo ottimismo, Yuksel pensa che un buon traguardo sarebbe anche solo percorrere la strada seguita dai sudafricani: "Noi siamo i neri di Turchia, conquistare un'eguaglianza di trattamento e parità nell'esercizio dei diritti è un primo obiettivo che si può raggiungere". E poi il cambiamento in positivo di come la stampa sta trattando la questione e sensibilizzando l'opinione pubblica non è un fattore di poco conto. Sul perché Ankara stia accelerando per risolvere la questione curda Mehmet Yuksel non ha dubbi: in primo luogo il partito di Racyyp Erdogan, l'Akp, sta pensando alle elezioni del 2011 e la pacificazione della nazione rastrellerebbe il consenso di quegli elettori, in continuo aumento che non reggono più lo stress di una guerra interna; poi c'è Bruxelles e infine gli Stati Uniti e la questione energetica. Washington vorrebbe che la Turchia assumesse un ruolo di prim'attore nella gestione irachena per meglio concentrarsi in Afghanistan e altrove. Dal 2010 il gasdotto Nabucco porterà nel cuore dell'Europa 30 miliardi di metri cubi di gas del Mar Caspio by-passando Russia e Ucraina: i condotti attraverseranno il Kurdistan turco e la Botas, la compagnia energetica di Ankara deve poter assicurare gli altri quattro partner commerciali da qualsiasi sabotaggio.

La cosiddetta "Iniziativa Curda" annunciata dal governo il mese scorso fissa in dieci punti gli sforzi che lo Stato compirà per tendere la mano alla minoranza etnica. Il piano sarà presentato solo a settembre, ma anche qui le anticipazioni non mancano. Innanzitutto l'unità della nazione turca non verrà mai messa in discussione mettendo da parte qualsiasi ipotesi di indipendenza. Ai curdi verrà permesso di parlare la loro lingua in campagna elettorale e in carcere, dove oggi è vietato e punito con l'isolamento; si potrà studiare il curdo e potranno nascere istituti di cultura locale; non sarà più possibile classificare i bambini come terroristi (dodicenni che lanciavano pietre contro la polizia nel corso di manifestazioni sono stati processati e condannati a norma dell'articolo 9 della Legge Anti-terrorismo); i nomi dei villaggi che sotto la guida di Kemal Ataturk furono "turchizzati" verranno sostituiti da quelli tradizionali curdi; gli abitanti della regione curda potranno esprimersi liberamente.

Traditori e venduti.
I partiti dell'opposizione, quello nazionalista Mhp in particolare, stanno osteggiando con tutte le loro forze un progetto che ha trovato l'appoggio perfino dei vertici militari (che precisano, però, "non tratteremo mai con il Pkk). Gul ed Erdogan sarebbero traditori e venduti agli Stati Uniti che avrebbero imposto e scritto il programma "Iniziativa Curda". Con sfumature diverse Vamik Volkan, rispettato professore di psicologia politica, critica le scelte del governo: "La Turchia non può compromettersi sedendosi al tavolo con l'uomo di Imrali (è così che viene indicato dai turchi Ocalan per non pronunciarne il nome come per il Diavolo), una persona che ha dato inizio al terrore e ucciso molte persone. Stando alle parole di Volkan, riportate dal quotidiano Today's Zaman, includendo Ocalan nel processo di pace è inevitabile che tutto vada sottosopra.
Un'altra incognita è rappresentata dalle formazioni più radicali del Pkk, dai guerriglieri arroccati sulle montagne del Kurdistan iracheno. Sebbene abbiano abbandonato da tempo l'idea di indipendenza difficilmente accetteranno soluzioni diverse da un modello federativo.

Un nuovo inizio.
Erdogan gode, in ogni caso, di un forte appoggio internazionale e anche di una buona fetta della società civile turca che viene coinvolta dal gabinetto di governo da sempre più frequenti dibattiti pubblici. Che si tratti con il Diavolo o meno questa sembra essere la migliore occasione per chiudere 25 anni di lotta e seppellire con dignità le 40 mila persone morte in una lotta di controllo e libertà.

Tratto da:
peacereporter

¡¡ZANON ES DEL PUEBLO!!

Un'altra tappa importante nella lotta della più grande fabbrica occupata argentina Dopo 9 anni è stato conquistato l'esproprio definitivo della fabbrica
Dopo 9 anni di lotta, siamo riusciti a strappare l’esproprio definitivo della nostra fabbrica.
Questo cammino, percorso dalle operaie e dagli operai della Zanon, non sarebbe stato possibile senza prima aver strappato alla burocrazia sindacale le nostre rappresentanze di categoria.
Per prima cosa, nel 1998, abbiamo recuperato la nostra commissione interna per lottare contro i licenziamenti, i maltrattamenti, le umiliazioni e per le condizioni di sicurezza e igiene, contro la polifunzionalità, per i nostri salari, ecc, ma soprattutto per instaurare una nuova forma di lavoro: la democrazia diretta per poi, nel 2000, ricuperare il nostro sindacato e metterlo al servizio dei lavoratori.
In questi quasi nove anni ne è passata di acqua sotto i ponti, abbiamo valorizzato profondamente l’appoggio che abbiamo ricevuto in questi anni di lotta. Dalla [gente della] comunità di Centenario, Neuquén, Plottier, ecc, che sul finire del 2001 si avvicinava con un pacchetto di spaghetti alle tende che abbiamo sostenuto per 5 mesi, fino ai lavoratori interni dell’unità n° 11 che si trova a pochi metri dalla fabbrica, che per 3 giorni hanno donato le loro razioni di cibo affinché potessimo resistere.
Le Madri di Plaza de Mayo, associazione regionale di Neuquén, che fin dal primo giorno ci hanno adottato come loro figli e camminano per le strade assieme a noi, fino ad oggi, resistendo assieme ad ognuno di noi 5 ingiunzioni di sfratto, repressioni, minacce.
I compagni e le compagne docenti dell’ATEN[1], compagni della CTA[2] Neuquén. Fino alla solidarietà a livello nazionale e internazionale di compagni che mai abbiamo conosciuto e che, conoscendo la nostra lotta, ci inviavano i loro fondi sciopero per resistere.
Abbiamo imparato anche ad essere solidali con altri lavoratori, creando un Fondo per lo Sciopero permanente, abbiamo spinto dicendo che la coordinazione è fondamentale per il trionfo delle lotte operaie. – Dai minatori di Río Turbio, lavoratori del petrolio di Las Heras, statali e lavoratori di fabbriche di Neuquén e Río Negro, Garrahan Subterráneas, Aeronautici, Ferroviari, fino ai movimenti di lavoratori disoccupati di Tartagal e decine di fabbriche ricuperate.-
Dal principio abbiamo aperto la fabbrica alla comunità, ricevendo migliaia di bambini e adulti affinché conoscessero la nostra esperienza di lotta.-
Abbiamo consolidato l’unità operaio-studentesca, tanto nei giovani studenti medi quanto con i compagni universitari, che ha avuto e ha espressione nell’accordo quadro di collaborazione con l’Università.Abbiamo organizzato concerti senza polizia, con artisti regionali e gruppi nazionali come La Renga, Attaque 77, Bersuit Vergarabat, León Gieco, Raly Barrionuevo, Dúo Coplanacus, tra gli altri, che hanno solidarizzato con la nostra lotta lasciando la loro arte e solidarietà alle operaie e agli operai della Zanon, plasmata nella comunità di Neuquén.
La nostra lotta si è sempre basata nella pratica della lotta di classe, identificando i governi, i padroni e le burocrazie sindacali come il nemico dei lavoratori.
Questa esperienza, che abbiamo costruito lungo questi nove anni e con l’enorme consenso di cui gode la nostra lotta nella provincia, a livello nazionale e internazionale ha fatto sì che potessimo ritorcere la volontà politica del Governo Provinciale del MPN[3] che ha dovuto sostenere e votare il progetto di legge di esproprio.
Consideriamo che questa conquista, da parte di tutto l’insieme della classe dei lavoratori, ha un valore enorme, e che questo governo che oggi vota l’esproprio della “Zanon bajo gestión obrera[4]” è lo stesso che ha assassinato Teresa Rodríguez[5]; lo stesso che ha represso noi operaie e operai della Zanon a fine del 2001 e ha voluto sgomberarci 5 volte; lo stesso che ha fucilato il nostro compagno ceramista Pepe Alveal, facendogli perdere un occhio, nella repressione del Barrio San Lorenzo; lo stesso che ci ha assassinato il compagno Carlos Fuentealba e lo stesso che oggi parla di pace sociale quando in questi momenti di crisi economica mondiale gli impresari e i loro governi ci dichiarano guerra con licenziamenti, salari da fame, caro prezzi, ecc.
Le scuole e gli ospedali sono stati svuotati e l’unica opera pubblica di cui parlano è la costruzione di carceri per rinchiudere i nostri giovani, mentre ogni giorno muoiono decine di famiglie negli incendi delle loro precarie casette occupate.
Per questo, nonostante l’enorme conquista che abbiamo ottenuto, in un contesto di crisi economica internazionale, strappando l’esproprio a questo governo, cosa che ha un valore molto maggiore, dalla gestione operaia della Zanon e dal Sindacato Ceramisti di Neuquén siamo convinti che la nostra lotta non è finita perché, come fin dal primo giorno, consideriamo che la salvezza non è individuale ma dell’insieme della classe lavoratrice.
Compagni e compagne, a tutti e tutte quelli che in qualche modo sono stati parte, hanno portato il loro granello di sabbia: condividiamo l’allegria di questo grande passo!!
Ai compagni che ancora guardano increduli, talvolta timorosi, talvolta scettici diciamo: vi invitiamo ad essere parte di questa storia che non è né più né meno che contribuire con un granello di sabbia alla trasformazione della realtà e riprendere il sogno dei nostri 30 mila compagni[6]: una società senza sfruttatori né sfruttati!!

¡¡ZANON ES DEL PUEBLO!!
Obreras obreros de Zanon - Sindicato Ceramistas de Neuquén

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[1] ATEN: “Asociación Trabajadores del Estado de Neuquén”, sindacato dei lavoratori statali
[2] CTA: “Central de Trabajadores Argentinos”, grosso sindacato dissidente argentino
[3] MPN: “Movimiento Popular Neuquino”, partito di centro-destra che ha sostanzialmente dominato la scena politica della Provincia di Neuquén per quasi 50 anni.
[4] “sotto gestione operaia”
[5] Attivista del movimento dei lavoratori disoccupati, assassinata dalla polizia durante un picchetto nel 1997.
[6] Il riferimento è ai 30.000 desaparecidos della dittatura militare 1976-1983

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!