martedì 22 settembre 2009

Honduras, il presidente legittimo Zelaya è rientrato a Tegucigalpa dopo 80 giorni di esilio forzato

Il governo decreta un nuovo coprifuoco

Si trova nell'ambasciata brasiliana, in attesa che il presidente Osa Insulza lo raggiunga e lo accompagni nella presa del potere contro i golpisti.

Il presidente legittimo dell'Honduras, Manuel Zelaya, detto Mel, costretto all'esilio forzato il 28 giugno scorso da un colpo di stato militare, è riuscito a rientrare nel suo paese e adesso si trova nell'ambasciata brasiliana a Tegucigalpa. L'intento è aspettare l'arrivo del segretario generale degli Stati americani (Osa), Miguel Insulza, dal quale ottenere l'appoggio ufficiale per il suo rientro e la sua ripresa del potere, da ottanta giorni nelle mani di Roberto Micheletti.

Sarà Insulza a quanto pare colui che tesserà il dialogo per riportare concretamente Zelaya al potere, un dialogo difficile, finora risoltosi in un niente di fatto e che, al contrario, ha reso i golpisti più spietati nella repressione. Molte manifestazioni di massa organizzata dalla maggioranza degli honduregni in appoggio a Zelaya sono finite nel sangue, con tanto di vittime al seguito.
Non è certo la prima volta che Zelaya tenta il ritorno, ma ogni volta la crudeltà della reazione del governo de facto lo ha costretto a rinunciare. Ma mai il presidente democraticamente eletto si è arreso. E oggi, senza preavviso, è riuscito a entrare nel paese e a raggiungerne il cuore, la capitale.

Ringraziando il presidente brasiliano, Luiz Inacio Lula da Silva, per il gesto diplomatico, Mel ha incitato il popolo d'Honduars ad avvicinarsi all'ambasciata che lo sta ospitando e ad aiutarlo a recuperare il filo costituzionale. In una conferenza stampa ha quindi spiegato come ha fatto a eludere i severi controlli dei golpisti, lasciando intendere che qualcuno lo ha aiutato: "Ho percorso mezzo Honduras ... quasi 15 ore in differenti mezzi di trasporto. Ho avuto chi ha collaborato, ma non posso dire chi sia affinché nessuno venga molestato... alle Forze armate d'Honduras ... chiedo il buonsenso: la gente è disarmata e pacificamente sta gridando loro di consegnarsi, con allegria", ha spiegato Zelaya.

Parole di giubilo dalla moglie del presidente legittimo, Xiomara Castro de Zelaya, felice per il rientro del marito, ma dura e diretta nei confronti della stampa di regime, praticamente l'intera stampa honduregna, la quale fino all'ultimo ha negato persino la presenza di Mel nel paese. "Oggi ancora una volta sono venute fuori le bugie della stampa ... che ora sarò costretta a rettificare. Il presidente Zelaya è in Honduras", quindi ha aggiunto "sono molto felice perché il presidente della Repubblica, il presidente eletto da tutti gli honduregni è finalmente a Tegucigalpa. È qui e viene a cercare la pace del mio paese, del nostro paese, cerca di arrivare a un grande dialogo, a una concertazione, oggi siamo uniti per un nuovo paese, una nuova repubblica".

Intanto, la gente di Tegucigalpa sta rispondendo all'invito di Mel e sta radunandosi intorno all'ambasciata brasiliana. C'è felicità ed emozione. A testimoniarlo la corrispondente di TeleSur, Adriana Sivori, che ha precisato come Zelaya si stia riunendo da ore con i leader delle organizzazioni sociali e i rappresentanti della facoltà di scienze della formazione, tra i più attivi a tener viva la resistenza contro i golpisti. Che intanto tacciono.

di Stella Spinelli Peace Reporter

Afghanistan: un mistero risolto.

di Basir Ahang - Kabul Press

Fin dal principio l’Afghanistan non fu mai del popolo afghano.


Per la sua particolare posizione strategica, infatti, l’Afghanistan è sempre stato al centro di un forte interesse da parte di Europa, America e Unione Sovietica. La prima nazione ad "occuparsene", nel 1938, fu la Gran Bretagna, e ciò a causa della minaccia che l’Unione Sovietica rappresentava. Entrando in Afghanistan, infatti, essa avrebbe potuto impossessarsi delle colonie inglesi situate in India, Pakistan, Bangladesh e altri paesi confinanti. Le paure della Gran Bretagna erano tuttavia infondate: l’U.R.S.S., infatti, era interessata unicamente all’Oceano Indiano per la sua posizione strategica e per questo tentava talvolta di penetrare nel territorio afghano.

Il popolo afghano non tollerò l’invasione straniera e l’Unione Sovietica di nascosto rifornì di armi l’Afghanistan. La guerra terminò nel 1942 a seguito delle ingenti perdite dell’esercito inglese.
In seguito a tale guerra l’Afghanistan godette di un governo semi-autonomo controllato da Unione Sovietica e America. La popolazione poté finalmente vivere un periodo di pace, nonostante l’intrusione dei paesi stranieri nella politica interna del Paese. Sfortunatamente nel 1980 i sovietici entrarono in Afghanistan e la pace cessò.

Le potenze occidentali si sentirono minacciate dall’invasione sovietica. Jimmy Carter, allora presidente degli Stati Uniti, affermò che l’Unione doveva pagare per quest’aggressione. Gli Stati Uniti, attraverso Zbigniew Brzezinski consigliere della sicurezza nazionale americana, iniziarono a rifornire i fondamentalisti afghani (mujahidin) presenti in Pakistan di armi e denaro, affinché essi combattessero contro i sovietici. Più di 175 milioni di dollari vennero spesi a favore di tale causa. I mujahidin divennero così i figli adottivi di Jimmy Carter, che in quanto a libertà, diritti umani e democrazia evidentemente la pensavano allo stesso modo. Brzezinski con il supporto dell’intelligence pakistano si recò a Khaibar, al confine tra Pakistan e Afghanistan, e lì creò un vero e proprio campo di addestramento per mujahedin (chiamati anche signori della guerra o letteralmente “coloro che combattono la jihad”). Questo luogo divenne da allora la “capitale dei terroristi”, lo stesso Osama Bin Laden abitò in quel luogo per 14 anni assieme a diversi esponenti della Cia.

Davvero non sfiorò neppure le loro menti il pensiero che magari questi fondamentalisti una volta sconfitti i sovietici avrebbero potuto impossessarsi a loro volta del territorio, divenendo un grave pericolo per l’intera umanità?
La storia certo ne ha dato conferma. I fautori di questo gioco sapevano, ma vi erano delle priorità e degli interessi troppo grandi per rinunciare a una simile occasione.
Se per l’opinione pubblica gli americani armati di mitra e buone intenzioni esportavano pace e democrazia, per le vittime di questo gioco al massacro era lampante che essi in realtà mentre con le mani costruivano con i piedi distruggevano.
Per più di 20 anni i signori della guerra vennero aiutati dagli americani per distruggere il loro stesso paese.
In seguito alla caduta del Governo comunista presieduto dal Dott. Najibulla avvenuta nel 1992, i mujahedin iniziarono una lotta spietata per il controllo del potere suddividendosi in fazioni a seconda delle diverse etnie a cui essi appartenevano. Combattendo tra loro trasformarono Kabul in un bagno di sangue nel quale trovarono la morte più di 60 000 civili. In questo momento davanti alla morte di migliaia di innocenti, tra cui naturalmente migliaia di donne e bambini, il mondo tacque fingendo di non sapere, fingendo di non vedere.
Dov’era in quel momento il loro desiderio di esportare pace e democrazia? Evidentemente ancora non c’erano i presupposti utilitaristici per farlo nascere.

Ancora una volta, la situazione era a favore delle super potenze occidentali, che vedevano in un governo composto da mujahidin un’occasione per controllare facilmente l’Afganistan.
Ma i signori della guerra certo non volevano farsi comandare dagli americani, così quando essi si accorsero di non poter controllare la situazione cercarono qualcuno che potesse sconfiggere il nuovo nemico al posto loro. Questo qualcuno lo trovarono ben presto tra i talebani.
I mujahidin per contrastare i talebani cercarono e trovarono il sostegno dei russi. Cambiarono così i giocatori, ma non il gioco.

Durante il regime talebano, gli americani approfittarono della debolezza in cui verteva l’Afganistan per trasformare uno dei paesi più martoriati al mondo in una fonte di guadagno. Data la sua posizione strategica infatti, esso rappresenta una zona di transito tra Turkmenistan, Kazakistan, e gli altri paesi dell’Asia Centrale offrendo la possibilità di sfruttare giacimenti petroliferi e di gas.

I Paesi Occidentali e le Compagnie petrolifere cominciarono così a competere tra di loro per il possesso dei giacimenti. Due compagnie tra tutte: la UNOCAL (americana) e la BRIDAS (argentina), il cui presidente spesse volte si recò in Afganistan per dialogare con i talebani ed offrire loro soldi in cambio di un lasciapassare per il Pakistan (il petrolio, infatti, veniva prelevato dal Turkmenistan e l’Afghanistan era zona di passaggio obbligatoria per trasportarlo poi in Pakistan).

I protagonisti di questa triste vicenda, assunti dalla stessa UNOCAL per trasportare il petrolio furono:
Tom Simons ambasciatore americano in Pakistan, Charles Larson capo della marina militare nell’Oceano Pacifico, Donald Rise capo dell’aviazione militare americana durante il Governo di George Bush I, Henry Kissinger e Robert Oakley responsabile della succursale del reparto Asia nel ministro degli esteri americano. Preposte al dialogo con i talebani invece vi furono due donne: Robin Raphael e Laily Helms principessa afghana moglie di Roger Helms, nipote di Richard Helms ex capo della CIA.

Dal NY Daily News dell’Ottobre 2001: “talvolta la realtà è più sorprendente di qualsiasi sogno o favola: il rappresentante dei talebani in America è una donna: il suo nome è Laily Helms, afghana americana preposta all’organizzazione degli incontri tra i capi dei talebani ed i congressi,i responsabili delle Nazioni Unite e i rappresentanti dei media. E’ sorprendente inoltre il fatto che ella durante tali incontri si vesta come un uomo e non indossi alcun chador. Suo marito, Roger Helms lavora per la Chase Manhattan, una della banche più importanti al mondo”)
Mentre ogni giorno i talebani uccidevano centinaia di uomini, di bambini, sparavano sulle donne per strada, e tagliavano gole in pubblico le forze internazionali tacquero e nessuno ebbe niente da ridire.

Quando dopo l’11 Settembre 2001 Bush ordinò ai talebani di consegnare alla giustizia Osama Bin Laden essi rifiutarono, definendo Bin Laden loro fratello musulmano con diritto d’asilo in Afghanistan. Terminò così l’amicizia che legava i talebani agli Stati Uniti ed improvvisamente gli americani si interessarono alle sorti dell’Afghanistan.

Quando le forze internazionali si interessarono alle sorti dell’Afghanistan diffondendo nel mondo lo slogan della pace, della giustizia e la libertà per la popolazione fu un mistero, dato il disinteresse iniziale. Tuttavia il popolo accolse gli americani come degli ospiti graditi, come dei fratelli, credendo davvero che forse le loro sorti sarebbero finalmente potute cambiare. Tutti anelavano la pace, stanchi di una guerra decennale e si fidavano ciecamente delle belle parole che venivano costantemente propinate al mondo intero.

Memore della sconfitta dell’Unione Sovietica Il governo Bush chiese l’appoggio delle forze internazionali per attaccare l’Afghanistan e con la scusa di voler sconfiggere il terrorismo riuscì a riceverlo. Ebbe così inizio la Sua guerra, una guerra ipocrita per la quale si mandarono e ancora oggi si mandano a morire migliaia di militari ignari.
Il 99% del territorio era nelle mani dei talebani, ma in soli 27 giorni l’esercito americano riuscì a far crollare il regime. La domanda sorge spontanea: come mai ora in otto anni di guerra nessuno è riuscito ancora a sbrogliare questo nodo gordiano?

Tuttavia ciò che gli Stati Uniti malauguratamente si scordarono di fare fu far terminare la guerra tra etnie, i talebani infatti erano e sono pashtun, i governati e l’attuale presidente afghano è pashtun, tutti coloro che detengono il potere in Afganistan sono pashtun, senza considerare le restanti etnie che rappresentano il 65% della popolazione. A quanto pare le forze internazionali si sono scordate di una numerosa fetta di popolazione.

Gli Usa in seguito alla sconfitta dei talebani misero al Governo l’attuale presidente Hamed Karzai, seguito da una schiera poco fedele di ex signori della guerra, criminali di guerra, nonché di talebani stessi che ricoprono ora importanti ruoli governativi (infatti il presidente Karzai in una conferenza stampa del 2006 si lasciò andare a dichiarazioni semplicemente sconvolgenti, suddividendo i talebani in buoni e cattivi, chiamandoli pubblicamente figli e fratelli suoi e affermando di voler contattare Mullah Omar per renderlo partecipe della “ricostruzione del paese”).

In seguito al messaggio molto chiaro di Karzai, Mawlavi Wakil Ahmad Motawakil, ministro degli esteri del regime talebano , Mawlavi Abdussalam Raketi comandate dell’esercito talebano nel nord est Afghanistan e Padshah khan Zadran rappresentante dei talebani sul confine del Pakistan e molti altri estremisti sono arrivati armati di kalashnikov a Kabul per partecipare attivamente alla “ricostruzione del paese”. A loro arrivo karzai ha riservato un’accoglienza degna degli ospiti più illustri, assegnato a ciascuno una villa, dei bodyguard e svariate automobili rigorosamente con vetri antiproiettile. Attualmente essi risiedono a Kabul, liberi di organizzare attentati kamikaze, ed ogni sorta di rappresaglia.

Karzai costituì la “Commissione di Pace”, al cui capo pose Mujadadi, mullah estremista arabo-afghano, che risiede attualmente a capo del senato. Mujadadi si occupa contemporaneamente di consegnare mensilmente ai talebani 1000 dollari, una tessera della commissione che permette loro di viaggiare ovunque e di non avere problemi con le forze dell’ordine.

E l’America tace, nonostante Karzai sia sorvegliato costantemente da agenti della CIA e dal Governo americano stesso. E i 54 miliardi di dollari spesi per la “ricostruzione del paese” , dove sono andati a finire? E chi ridarà loro tutti questi soldi? Con che coraggio richiederanno indietro i soldi? Il debito dell’Afghanistan sale, ma di scuole, ospedali, strade e quant’altro non ve n’è traccia. Debito ed ipocrisia a parte, chi ripagherà invece le migliaia di morti innocenti? A chi è imputabile tutto ciò? E’ possibile massacrare in una missione di pace? E se la scusa dell’errore potesse realmente esser contemplata, si potrebbe credere ad una serie di errori tanto frequenti?
In Afghanistan sono attualmente presenti e coinvolti in questa “missione di pace”, gli eserciti di: Stati Uniti, Inghilterra , Italia, Canada, Australia, Germania, Francia, Spagna, Olanda, Danimarca, Belgio, Svezia, Austria, Finlandia, Norvegia, Romania, Turchia, Sud Corea, Slovacchia, Lituania, Estonia, Azerbaijan, Emirati Arabi, Lussemburgo, Georgia, Islanda, Croazia, Slovenia, Grecia, Singapore, Nuova Zelanda, Repubblica Ceca, Irlanda, Ucraina, Bosnia Erzegovina, Bulgaria, Ungheria, Macedonia, Albania, Polonia, Portogallo, Lettonia 42 Paesi coinvolti, 64 500 soldati in tutto, 15 mila talebani (secondo le fonti ufficiali, quindi il numero potrebbe essere inferiore) inspiegabilmente imbattibili. Siamo davvero sicuri che questa guerra non faccia comodo a qualcuno?

Ciò che molti cominciano purtroppo solo ora a chiedersi è: per quale motivo le forze internazionali sono presenti in Afghanistan?

1) Combattere il terrorismo internazionale?
La maggior parte di questi terroristi, nonostante non se ne senta mai parlare, provengono da paesi quali: Arabia Saudita, Cecenia, Marocco, Pakistan, Egitto, Emirati Arabi e molti altri paesi arabi. Per sconfiggere questi estremisti non occorre bombardare l’Afghanistan. I kamikaze non sono tutti afghani come vogliono farci credere. Il Pakistan in particolare è pregno di luoghi in cui i terroristi imparano l’arte del fanatismo e della guerra, ma stranamente le frontiere tra Pakistan e Afghanistan rimangono aperte, consentendo agli stessi di penentrare facilmente nel paese. Questo perché molte persone di etnia pashtun vivono sul confine e nessuno si sogna di scomodarli. E’ lì che esiste persino la sede di radio shariat (letteralmente: “voce della legge religiosa”) preposta ad impartire ordini e nozioni a talebani e kamikaze. Perché la sede di questa radio è ancora aperta? Persino il ricercatissimo Osama Bin Laden si suppone viva tranquillamente in una villa al confine tra Pakistan e Afghanistan. I campi di addestramento dei mujahidin sono ancora aperti ed attivi, occupati da talebani che rifiutano sia il governo afghano sia quello pakistano, chiamando la terra da loro occupata pashtunistan, terra dei pashtun.

2) Esportare pace, libertà e democrazia?
Fare la pace con la guerra è da sempre un paradosso inspiegabile se tale motivazione viene spacciata per veritiera. Di pace non ve n’è traccia, le persone ancora escono di casa senza sapere se vi ritorneranno. E se nella capitale Kabul, dove due giorni fa sei militari italiani hanno trovato la morte, è così figuratevi negli altri posti. Ogni settimana più di venti persone muoiono a Kabul in questo modo. Libertà poi in Afghanistan è ancora una parola che provoca un amaro sorriso considerando che: il ministro della cultura afghano in una conferenza stampa dichiarò democrazia e diritti umani affari dei paesi occidentali privi di valore per un paese che segue unicamente la legge islamica, un giornalista che aveva tentato di tradurre il corano in persiano venne condannato a 25 anni, un altro che in un articolo descrisse come la religione islamica violasse i diritti delle donne venne condannato prima a morte in seguito la pena fu commutata a 20 anni di prigione, così migliaia di altri esempi.

3) Cambiare la situazione delle donne?
Se ciò fosse vero risulta incomprensibile come sia ancora possibile che più di dieci donne vengano violentate ogni giorno (nel 2009 più di 35 bambine vennero violentate da esponenti del governo, una di loro aveva solo sei anni, stuprata dal figlio di un parlamentare nella regione di Sarepul nel nord Afghanistan. L’atto rimase totalmente impunito), e che Karzai il “presidente democratico” abbia promulgato una legge per la quale alle donne è proibito lavorare ed uscire di casa senza il coniuge o un parente maschio, per la quale è consentito lo stupro da parte del marito e la possibilità da parte di questo di privare la moglie del cibo se “disubbidiente”, che le bambine vengano vendute ad uomini anziani (nel 2006 una bambina di 11 anni venne persino venduta in cambio di un cane). Grazie a tutti voi per aver cambiato la situazione delle donne in Afghanistan, perché peggio di così non può certo diventare, nemmeno il regime talebano arrivò a tanto.

4) Fare giustizia?
Quest’anno un talebano si è candidato come presidente della repubblica, due vice di Karzai sono criminali di guerra che secondo Human Rights Watch dovrebbero ora essere in carcere e non al governo, altri invece sono ministri e parlamentari. Se l’opinione pubblica in Europa e in America venisse informata del fatto saremo ancora disposti a mandare i loro figli a morire in Afghanistan?

5) Per ricostruire l’Afghanistan?
Dopo otto anni di guerra il centro di Kabul è ancora privo di illuminazione e strade asfaltate. Nella regione di Bamyan nel 2008 più di 200 persone sono morte a causa della mancanza di ospedali. Alcune statistiche: l’80% della popolazione è perennemente in pericolo a causa della mancanza di ospedali, secondo world food program (WFP) il 10% della popolazione quest’inverno rischierà di morire di fame, il 60% degli studenti studia all’aperto, non essendoci di fatto scuole ma solo insegnanti, il 30% delle donne inoltre muore in gravidanza o durante il parto, il 15% dei bambini in assenza di vaccini vengono colpiti dalla poliomelite ed in seguito dalla paralisi. Se davvero queste forze armate fossero in Afghanistan per ricostruire il paese nessuno farebbe loro del male, ma ovunque verrebbero accolti con gioia, basti considerare le parole di Gino Strada in un intervista riportata il 17/09/2009 sull’Unità: “(...)Quanto ai soldi della cooperazione internazionale noi non abbiamo ricevuto una lira(..)Emergency lavora in afghanistan da dieci anni, abbiamo curato 2 milioni e 200 mila afghani, praticamente il 10% della popolazione(…) Per questo a Laskhargah (nota: una delle regioni più pericolose dell’Afghanistan) non è mai stato torto un capello al nostro personale internazionale(…)”

Ora traete le conclusioni..Davvero l’unico problema in questa guerra è cambiare strategia? Prima di cambiare strategia contate i talebani al governo, contate gli 80 000 morti del 2008 di cui solo il 5% talebani e considerate le mosse del presidente Karzai. Prima che una storia di estremismo religioso, prima che una storia di guerra perpetua la storia dell’Afghanistan è una storia di petrolio e traffici internazionali di droga. Adesso che come me conoscete la reale situazione in cui verte il paese avrete ancora il coraggio di mandare i vostri figli a morire per gli interessi economici dei soliti noti?

lunedì 21 settembre 2009

Eid di sangue: bombardamenti israeliani contro il sud e il nord della Striscia di Gaza.




Questa mattina all'alba, secondo giorno di 'Id al-Fitr, la festa che celebra la fine del mese di Ramadan, l'aviazione da guerra israeliana ha effettuato una serie di attacchi aerei contro le gallerie situate al confine tra Egitto e Striscia di Gaza, distruggendone diverse.
Le gallerie del "contrabbando" (di prodotti alimentari, medicine, combustibile, e solo in parte di armi), sono indispensabili alla sopravvivenza di una popolazione di 1,6 milioni di persone poste da tre anni a questa parte sotto feroce assedio israelo-egizio-internazionale.
Fonti palestinesi hanno reso noto che gli aerei da guerra, di tipo "F16", hanno lanciato 4 attacchi contro i tunnel, causando distruzione, ma senza provocare feriti.
Il raid giunge qualche ora dopo all'uccisione di due combattenti palestinesi, avvenuta ieri sera nel nord della Striscia.
Ieri sera, infatti, 2 palestinesi sono stati uccisi e altri 3 feriti a seguito di un bombardamento israeliano. Le due vittime sono state identificate come ‘Abd al-Hafez as-Silawi, 21 anni, e Muhammad Nasir, anche lui sulla ventina. Secondo il dott. Mu‘awiyya Hassanayn, capo dei servizi di emergenza e di ambulanza presso il ministero della Sanità di Gaza, il corpo di as-Silawi è giunto all’ospedale di Adwan insieme ai tre feriti, dei quali uno era grave.
Le Brigate al-Qassam, ala militante di Hamas, hanno dichiarato in un comunicato che le forze israeliane che operano nel nord della città avevano aperto il fuoco con i carrarmati. La notizia è stata poi confermata dall'esercito israeliano. Altri testimoni riferiscono di aver visto sette proiettili di carrarmato all’interno e nei pressi di Izbet Abed Rabbo, una cittadina a est del campo profughi di Jabaliyya considerata da due gruppi armati palestinesi il probabile bersaglio scelto dall’occupazione.
Da parte sua, un portavoce militare israeliano ha dichiarato che l’attacco è stato sferrato dopo che i soldati, intenti in quella che è stata definita "una pattuglia di routine", hanno scorto dei palestinesi mentre tentavanto di azionare un esplosivo vicino al passaggio di frontiera di Nahal Oz.
Nel suo comunicato, Hamas ha affermato che as-Silawi apparteneva a al-Qassam, mentre il portavoce israeliano lo considera un membro dei Comitati di Resistenza popolare.
Per quanto riguarda Nasir, sia Israele che il Fronte popolare per la liberazione della Palestina sono d’accordo nel sostenere che appartenesse al secondo. Più precisamente, come ha aggiunto il Fronte, era un membro delle Brigate Abu ‘Ali Mustafa.
Nella giornata di ieri, alcuni mujahidin hanno sparato due razzi artigianali dalla Striscia di Gaza in Israele, secondo fonti israeliane. L’area colpita sarebbe una zona disabitata vicina alla città di confine di Sderot: non si sarebbero riportati danni o feriti.
Un gruppo che dichiara di chiamarsi “membri della Sunna” ha in seguito rivendicato la responsabilità dei lanci, specificando di averli effettuati in risposta alle recenti notizie sugli abusi sessuali dei carcerieri israeliani nei confronti delle donne palestinesi prigioniere.

tratto da Infopal

sabato 19 settembre 2009

Botte dalla polizia cinese, gravissimo l’artista Ai Weiwei

Manifestava per la libertà di informazione



Ai Weiwei, il grande architetto e artista visivo cinese, da tempo impegnatissimo nella denuncia delle violazioni ai diritti civili in Cina si trova in un ospedale di Monaco di Baviera, dove è stato sottoposto ad un delicato intervento chirurgico in seguito ad un'emorragia cerebrale.

A causarla - a un mese circa di distanza - una brutale aggressione della polizia cinese, in occasione di una manifestazione di protesta per il silenzio sulla morte di 5mila bambini nel terremoto di Sichuan del maggio 2008, a causa di difetti colposi nell'edilizia scolastica. L'artista si trovava a Monaco per preparare un'esposizione alla Haus der Kunst, quando ha avuto una crisi che i medici hanno ritenuto di arginare con intervento urgente

Vedi articoli:

Ai Weiwei: la Cina censura l'informazione? E noi boicottiamo internet

The Ai Weiwei Way

venerdì 18 settembre 2009

L'odiosa retorica

La guerra, la sua brutalità e concretezza, è di nuovo, forse non per molto, svelata, nuda.


L’odiosa retorica con cui lo stato tenta di difendersi dall’”effetto bare” è ormai solo un inutile rumore di fondo. Lo squarcio quei 150 chili di esplosivo non l’hanno prodotto solo sulle lamiere del blindato Lince della Folgore. La guerra, la sua brutalità e concretezza, è di nuovo, forse non per molto, svelata, nuda. Quello che le notizie (poche) e le immagini ( pochissime) delle stragi di civili, di bambini, di donne e uomini di tutte le età e di ogni condizione sociale compiute dalla Nato, dagli americani, dagli inglesi e anche dagli italiani, non riescono mai a fare, lo fanno, quando accade, le bare che tornano a riempire l’altare della patria.

La retorica le accoglie, impedisce che vengano sbattute sulla tavola aparecchiata dell’italiano medio, mentre si appresta a cenare. Le adagia piano piano in mezzo a corone d’alloro e bandiere, nasconde l’odore della morte, dei corpi fatti a pezzi, con quello della naftalina dei vestiti da parata dei corazzieri e dell’incenso delle chiese. Ma ogni volta, e i governi lo sanno bene, è sempre più difficile. E quel tempo che si apre, squarciato, tra una bara e l’altra, tra un funerale e un altro, perché così si scandisce il procedere di ogni guerra, è un tempo a rischio per chi comanda e impone la guerra.

Lascio i discorsi di cordoglio per i militari e le loro famiglie a qualcun altro, come quelli sulle missioni di pace per portare democrazia, o dall’altro versante quelli sull’imperialismo americano o sui combattenti della resistenza afgana. Roba da funerale, appunto, buona per chi ha già celebrato quello del suo cervello e della sua libertà. Invece credo che questo tempo, che durerà poco, vada riempito subito con una grande e rinnovata sfida alla guerra. Dagli stati uniti all’europa è il momento, di nuovo, di cogliere l’occasione e tornare a costruire mobilitazioni forti per delegittimarla e batterla. Per far ritirare i soldati e impedire che essa si prenda più spazio di quanto non abbia già sottratto alla democrazia vera, alla giustizia sociale, alla libertà e all’indipendenza.

Sono altresì convinto che con gli arnesi del ceto politico, anche quello post-noglobal, non andremo molto lontano. E’ necessario parlare a molti, a milioni di persone che in questo momento possono ascoltare, e per farlo bisogna mettersi nelle condizioni di essere parte, di contribuire, alla formazione di qualcosa di più grande di noi, fatto di tanti e diversi, accomunato temporaneamente da un desiderio comune, quello di fare qualcosa perché la guerra si inceppi.

Il far tornare a casa i soldati, tutti professionisti dei corpi d’elite, che fanno questo di mestiere e non per costrizione, di certo non farà cessare le atroci sofferenze che da almeno trentanni il popolo, o meglio i popoli che abitano i monti e le pianure chiamate Afghanistan, ininterrottamente devono subire. Li attende la barbarie delle bande e del fanatismo religioso, un miscuglio tra affari, sadismo e fascismo. Quelli che tagliano le dita a chi va a votare, o i signori della guerra e dell’oppio amici di Karzai, o i reclutatori di bambini schiavi, o i torturatori delle donne. Non ci sarà certo la fine della guerra per questa gente sfortunata, che ne combatterà una al giorno, o al minuto, per sopravvivere, anche dopo che l’ultimo soldato invasore se ne sarà andato. Ma il ritiro delle truppe occidentali, l’unica cosa su cui noi, da qui, possiamo incidere, può significare molto, anche al di là dell’interrompere la partecipazione della nostra parte di mondo alla carneficina diretta contro i civili, ciò che la guerra è nelle sue materiali conseguenze.

Ma appunto non è solo questo, anche se l’orrore deve bastare a motivarci. La guerra è oggi, come ogni azione strutturata a livello del comando globale, anche un enorme catalizzatore della crisi. A meno che non pensiamo che in fondo tutto cambia ma in realtà tutto resta sempre uguale, la crisi di sistema che da un anno e mezzo investe le strutture del capitalismo, ha modificato anche la guerra, la sua possibilità di utilizzo intensivo e progressivo nel governo del mercato e del pianeta. Se vogliamo forse è proprio negli apici di guerra, lì dove la sua geometria variabile mostra il massiccio impegno della macchina economico militare e il conto delle vittime è a sei zeri, che la crisi è stata anticipata, e se non provocata, di sicuro acuita e velocizzata.

Il fallimento dell’avventura iraquena di Bush, quanto ha inciso sul crollo delle banche d’affari di Wall Street? E viceversa, i sentori dell’imminente crollo della finanza, come hanno pesato sulle scelte politico militari? Sono domande che è legittimo porsi, vista anche la stretta connessione temporale degli accadimenti. E la risposta, al di là dei necessari approfondimenti, non può che portarci ad una stretta connessione tra guerra e crisi.

Se così è, lottare contro la guerra significa oggi anche impedire che le impotesi di exit strategy, dalla crisi e non dall’Afghanistan, propendano verso un utilizzo maggiore della guerra come elemento di stabilizzazione, o di riequilibrio, dell’economia globale. Lì dove non può il sistema finanziario, i cannoni sono sempre a disposizione. Non è certo passato inosservato, ad esempio, il comportamento bifronte di Obama nell’affrontare l’Iraq da una parte e l’Afghanistan dall’altra. Via armi e bagagli dal primo teatro, e aumento dei soldati, e due su tre oggi sono americani, nel secondo. Semplice furbizia del governante, oppure qualcosa di più complesso, legato proprio all’ipotesi che l’intensificazione dell’impegno militare in Afghanistan potesse essere volano di ripresa per l’economia americana, e soprattutto per le quotazioni americane nel borsino dei potenti del mondo? In ogni caso l’idea che l’aumento del tasso di guerra generale possa contribuire alla rimessa in sesto del ciclo finanziario globale, non è certo una novità.

La teorizzavano i neocon di Bush, ma anche molti esponenti di spicco democratici, giocando proprio sull’aspetto dell’aumento, tramite la guerra, del tasso di democrazia reale e subordinata ad un governo multipolare del pianeta. Ne abbiamo anche esempi nostrani, e non c’è qui bisogno di ricordarli. Vi è poi un secondo aspetto che interessa il binomio guerra/crisi, e che non è meno importante: il caos.

Pur essendo questa una crisi strutturale globale, non è catastrofica. Chi pensa che bisogna solo aspettare il crollo imminente del capitalismo, aspetti. In realtà questa crisi che è globale, profondamente annidata nei gangli più profondi del sistema, ma non è catastrofica, e non ha ancora conosciuto nessuna ipotesi di superamento capace di affermarsi senza entrare in crisi essa stessa, definisce una situazione di caos in cui tutto e tutti siamo immersi. Anche l’andamento della guerra, la sua crisi nell’affermarsi come strategia vincente e la sua impossibilità di produrre uno sviluppo, un’uscita, un avanzamento, è il caos. In questa situazione grandi sono le possibilità di affermare un altro mondo e modo possibile di vivere, ma grandi sono i rischi, perché tutte le opzioni sono in campo. Quella che tenta di uscire dalla guerra dispiegata, e quella che invece vorrà rilanciare, con nuovi scenari da aprire anche a noi geograficamente molto vicini. E’ meglio per tutti, e in primis per coloro che rischiano di essere bombardati, che vinca la prima ipotesi. E noi dobbiamo costringerla a vincere, e dobbiamo distruggere l’altra.

Abbiamo bisogno di tornare a costruire, a produrre lo spazio pubblico dell’opinione contro la guerra. Dobbiamo usarlo come motore e terreno di consenso, di egemonia, per poter esercitare la nostra azione contro la guerra. Per essere legittimati a delegittimare. E’ per questo che nei prossimi giorni e mesi è necessario esserci. Partecipare a tutto ciò che si muoverà contro la guerra, e determinare un nuovo inizio. Il tempo è una risorsa scarsa, e in questo caso è ancor più vero. Prima che si richiuda lo spazio che esiste tra un gruppo di bare in mostra sull’altare della patria e l’altro, dovremmo agire.

Luca Casarini

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!