martedì 29 settembre 2009

Precipita la situazione in Honduras

91° giorno di resistenza

Decreto esecutivo calpesta le libertà individuali e collettive Ultimatum al Brasile ed agli altri paesi che hanno rotto relazioni con il governo di fatto

di Giorgio Trucchi

L’appello fatto dal presidente legittimo dell’Honduras, Manuel Zelaya Rosales, affinché la popolazione si concentri a Tegucigalpa per celebrare tre mesi di lotta e resistenza contro il colpo di Stato, ha scatenato la reazione del governo di fatto e dei poteri politici, economici e militari che l’hanno orchestrato, diretto ed eseguito, conducendo il paese verso un abisso. Un vicolo cieco che mette la parola FINE alle aspettative di un dialogo nazionale e che trascina il popolo honduregno verso uno scenario molto pericoloso di violenza e morte.

“Il 28 settembre compiremo tre mesi di resistenza contro il colpo di Stato militare ed in tutto questo periodo il popolo honduregno ha dimostrato la sua grande capacità di lotta – ha detto il presidente Manuel Zelaya durante una conferenza stampa all’interno dall'ambasciata del Brasile dove si è rifugiato la scorsa settimana –.

Manifestiamo che persiste un atteggiamento negativo da parte del regime di fatto di non volere ascoltare il nostro appello al dialogo, che ha l’obiettivo di riportare la pace e la libert nel paese.
La risposta al nostro appello – ha continuato Zelaya – è stata la repressione contro il popolo, contro di me e le persone che mi accompagnano in questa sede diplomatica.
Chiedo a tutto il popolo honduregno ed in modo speciale alle organizzazioni della resistenza, che il 28 settembre si manifestino in modo pacifico in tutto il paese”.

Verso l'abisso
La reazione inconsulta del governo di fatto non si è fatta attendere ed in meno di 24 ore sono state prese una serie di misure che hanno messo il paese sull'orlo di un abisso.
É stato presentato al governo brasiliano un ultimatum affinché entro 10 giorni definisca lo status del presidente Zelaya. Trascorso questo termine verranno rotte le relazioni con il paese sudamericano e non verrà riconosciuto come territorio straniero l'edificio che ospita la sede diplomatica, aprendo in questo modo la porta ad un possibile intervento militare.
Immediata la risposta del presidente brasiliano Inacio Lula Da Silva che ha qualificato il presidente di fatto Roberto Micheletti come “un usurpatore nel potere" ed ha detto di non volere minimamente rispettare un ultimatum emesso da dei golpisti.
Il governo di fatto ha inoltre sollecitato il personale diplomatico dell'Argentina, Messico, Venezuela e Spagna, paesi che hanno rotto le relazioni con l’Honduras, di togliere gli emblemi dalle sedi e consegnare le credenziali che li identificano come tali.
Allo stesso modo ha proibito l'entrata in Honduras agli ambasciatori di questi paesi ed ha posto come condizione agli altri ambasciatori che avevano abbandonato il paese di presentare nuove credenziali per essere accettati.
Momenti di tensione si sono vissuti all'aeroporto internazionale di Toncontín, quando quattro funzionari dell'Organizzazione degli stati americani, Osa, sono stati prima trattenuti e poi fatti risalire sull’aereo, impedendo loro l’entrata in Honduras.
Solamente a uno di loro è stata concessa l’entrata e la permanenza per un periodo molto limitato di tempo.
"Ció a cui stiano assistendo è l'intenzione del governo di fatto di creare un vero e proprio isolamento mediatico, affinché non si sappia ciò che accadrà lunedì e martedì in Honduras – ha denunciato Andrés Pavón, Presidente del Comitato per la difesa dei diritti umani in Honduras, Codeh –.
Hanno pianificato una grande repressione contro i manifestanti, arrestare ed uccidere come hanno fatto fino ad adesso. Non vogliono che la Osa o la Commissione interamericana dei dirtti umani, Cidh, vedano cosa accade.
Abbiamo già 15 persone uccise per motivi politici e questi delitti sono classificabili come delitti di lesa umanità, come è il caso della ragazza morta per i gas lacrimogeni che la polizia ha sparato durante lo sgombero della zona adiacente all'ambasciata del Brasile – ha concluso Pavón.
Wendy Elizabeth Ávila, 24 anni, è deceduta la notte del 26 settembre a causa di complicazioni respiratorie dopo vari giorni di agonia. Il suo corpo è stato velato da migliaia di persone nelle installazioni del Sindacato dei Lavoratori dell'Industria delle Bevande e Simili, Stibys.

Zero diritti individuali e collettivi
Come un’ennesima azione repressiva, il governo di fatto ha firmato un Decreto Esecutivo con il quale sospende a tempo indefinito le principali garanzie costituzionali del popolo honduregno.
Secondo il decreto vengono sospesi vari articoli della Costituzione e in questo modo "Si proibisce qualsiasi riunione pubblica non autorizzata dalle autorità poliziesche o militari", dando la facoltà a tali forze repressive di dissolverlea con la forza.
Prevede anche la proibizione di “Emettere pubblicazioni attraverso qualsiasi mezzo di comuniocazione parlato, scritto o teletrasmesso che offendano la dignità umana, i funzionari pubblici o attentino contra la legge, le risoluzioni governative, la pace e l'ordine pubblico”.
Con un atto di grave violazione alla libertà di espressione, che punta ovviamente alla chiusura dei mezzi di comunicazione che continuano a denunciare il colpo di Stato, come Radio Globo, Canale 36, Radio Progresso e le radio comunitarie, il decreto ha dato alla Commissione Nazionale dellei Telecomunicazioni, CONATEL, e alle Forze Armate l'autorizzazione a “sospendere qualunque stazione radio, canale di televisione o sistema via cavo che non adatti la propria programmazione alle presenti disposizioni”.

Infine, il decreto ordina “lo sgombero di tutte quelle installazioni dello Stato che sono state occupate illegalmente”, mettendo in serio pericolo le organizzazioni contadine e il Sindacato dei Lavoratori dell'Istituto Nazionale Agrario (SITRAINA), affiliato alla UITA, che da tre mesi hanno occupato questa istituzione.

La Resistenza risponde
Con una massiccia assemblea, il Fronte nazionale contro il colpo di Stato ed uno dei suoi principali leader, il dirigente sindacale Juan Barahona, hanno chiesto alla gente di non avere paura e di continuare con la lotta.
“Continueremo sotto il fuoco delle pallottole, il fumo dei gas lacrimogeni e gli stivali militari. Ci alzeremo e ci libereremo di questa dittatura, perché bisogna sconfiggerla – ha detto Barahona davanti alla folla ed alla bara di Wendy Elizabeth Ávila –.

Non possono essere più forti di un popolo che lotta con coraggio e dignità. Per questo motivo non possiamo retrocedere in questa lotta, perché oggi è Patria o Morte. Perché è una lotta di dignità dove esponiamo la cosa più preziosa che abbiamo e cioè la vita. Perché oggi il sangue dei martiri si trasformerà in seme di libertà”, ha concluso.

Oggi, 28 settembre, il Fronte nazionale contro il colpo di Stato, sfidando il decreto si riunirà davanti all’Università Pedagogica per marciare nuovamente e celebrare in questo modo i tre mesi di resistenza contro il golpe.

© (Testo e Foto Giorgio Trucchi - Lista Informativa "Nicaragua y más" di Associazione Italia-Nicaragua

Guinea: manganellate all’opposizione

Dispersa manifestazione contro la giunta militare

Sono almeno 11 le persone ferite oggi dalla polizia a Conakry. Società civile, sindacati e alcuni partiti protestavano per la ventilata candidatura del capitano Camara, capo delle giunta, alle presidenziali del 31 gennaio 2010.


Manganellate e candelotti lacrimogeni hanno lasciato sul terreno undici feriti. È accaduto questa mattina a Konakry, capitale della Guinea, quando un corteo di oppositori alla giunta militare è stato disperso dalle forze dell'ordine. La manifestazione era stata indetta da partiti, sindacati e società civile.
I manifestanti protestavano in particolare contro un'eventuale candidatura alle presidenziali del 31 gennaio 2010 del capitano Moussa Dadis Camara (nella foto), capo della giunta militare che ha preso il potere nel paese dell'Africa Occidentale il 23 dicembre 2008. I militari si sono impadroniti delle leve di comando nove mesi fa, poco dopo l'annuncio della morte del presidente Lantana Conté, alla guida della Guinea per 24 anni. Oltre alle presidenziali, il 2010 vedrà svolgersi il 26 marzo le elezioni per il rinnovo del parlamento.
La manifestazione di oggi era stata vietata per non turbare l'ordine pubblico all'approssimarsi delle festa dell'indipendenza dalla Francia, che cade il 2 ottobre e che quest'anno compie cinquantuno anni.Solo giovedì scorso almeno 30mila persone avevano manifestato a Labé, seconda città del paese e feudo dell'opposizione, contro la prevista visita del capitano Camara. Si è trattato della più grande manifestazione ostile alla giunta militare da gennaio ad oggi.

Tratto da:
Nigrizia

Clima, la Cina ci salverà?

Pechino annuncia obiettivi ambiziosi per il contenimento delle sue emissioni nocive. Ma i numeri raccontano un'altra realtà

di Alessandro Ursic

Ci siamo persi qualcosa? Fino a poco tempo fa, se si parlava di riscaldamento del pianeta, la Cina aveva il ruolo del cattivo: sempre più inquinata, senza intenzione di porre freni al suo sviluppo. Gli Usa di Obama, invece, promettevano di prendere l'iniziativa globale contro i cambiamenti del clima, rovesciando la voluta inenzia dell'amministrazione Bush. Ora, specie dopo il discorso del presidente Hu Jintao all'Onu, sulla Cina vengono riposte improvvisamente buona parte delle speranze per arrivare a un accordo sulla riduzione delle emissioni nel vertice di Copenaghen, che a dicembre avrà il compito di rimpiazzare il protocollo di Kyoto.
Che è successo? Non molto, e le descrizioni erano esagerate anche prima. La Cina è inquinata e lo sanno anche le autorità di Pechino, che devono fronteggiare un numero crescente di proteste locali contro fabbriche e centrali; le falde acquifere di vaste regioni del Paese sono contaminate, con ripercussioni sull'agricoltura e la salute dei cittadini. Il Paese ottiene l'80 percento della sua energia elettrica dal carbone, economico ma il più inquinante tra gli idrocarburi, e sta costruendo una nuova centrale termoelettrica ogni 10 giorni.
Per non parlare degli Usa in prima linea sul fronte ambientale. E' vero che nella Silicon Valley c'è la più alta concentrazione di aziende della new energy, e che Obama ha costantemente messo la lotta all'effetto serra tra le sue priorità. Ma si parte da lontano. Il carbone non lo usano solo i cinesi: metà dell'elettricità prodotta negli Usa è generata grazie a esso. E i consumi dei veicoli americani - che si "mangiano" il 70 percento del fabbisogno petrolifero nazionale - sono più elevati in media rispetto a quelli europei e... cinesi, grazie a restrittive leggi introdotte negli ultimi anni.Nell'ultimo anno, la Cina aveva già annunciato una serie di obiettivi per limitare le sue emissioni: il discorso di Hu a New York riprende molti di questi target (come il 15 percento di energia "verde" entro il 2020), ed è stato lodato perché per la prima volta un leader cinese li ha enunciati pubblicamente, per di più in una cornice così significativa. Da qui alla conclusione "la Cina prende l'iniziativa nella lotta al cambiamento climatico", il passo è stato breve.
Il potere centralizzato nelle mani del Partito comunista consente a Pechino di agire molto più velocemente di Washington, dove il Congresso - con tutti i suoi interessi locali e le lobby - annacqua spesso le linee guida date dal presidente. In un certo senso, la Cina ha le mani più libere. Ma come ha specificato più volte, non intende vedersele legate dai vincoli fissati da un trattato internazionale.Il nodo da risolvere per arrivare a un accordo sul clima è proprio questo. Il protocollo di Kyoto esentava la Cina (lo stesso discorso vale per l'India) dall'obbligo di ridurre le emissioni, in quanto Paese in via di sviluppo.
Oggi, gli Usa e l'Europa non firmerebbero nessun accordo se ciò non includesse limiti anche per la Cina, diventata l'anno scorso il primo Paese per quantità di emissioni nocive. Ma Pechino non vuole frenare la sua galoppante economia (il Pil crescerà di oltre il 7 percento anche in questo anno di crisi), temendo squilibri sociali e possibili rivolte in caso di rallentamento. Il concetto su cui puntano le autorità cinesi - e che lascia loro ampia scelta sul come e quando arrivarci - è quindi quello della "carbon intensity", ossia il consumo energetico per ogni unità di Pil.
Nel 2006, per ogni mille dollari di Pil, la Cina ha emesso 2,85 tonnellate di biossido di carbonio, oltre cinque volte la quantità degli Usa (0,52 tonnellate). E' evidente che il Paese può fare enormi progressi in tal senso, e Hu ha annunciato la volontà di ridurre quella cifra "di un margine notevole". Ma è naturale che i consumi pro-capite sono destinati ad aumentare man mano che i cinesi diventano più benestanti: al momento, ogni cinese "produce" 6 tonnellate di anidride carbonica l'anno, contro le 24 tonnellate di un americano.
Il problema è che - come ha calcolato lo studio "China's green revolution" del gruppo McKinsey - da qualunque parte la si guardi, le emissioni cinesi sono destinate ad aumentare comunque. Secondo il rapporto, se il Pil cinese continua a crescere del 7,8 percento annuo, il Paese raggiunge i suoi obiettivi di riduzione della carbon intensity, rispetta i target per la produzione di energia da fonti rinnovabili e allo stesso tempo migliora la sua efficienza energetica del 4,8 percento annuo... entro il 2030 avrà comunque raddoppiato le sue emissioni nocive rispetto al 2005.
Il pianeta può permetterselo? E' quello che si cercherà di stabilire da qui al vertice di Copenaghen.

Tratto da:
Peace Reporter

Il lavoro minorile a Gaza, tra povertà e assedio.

Mentre milioni di bambini nel mondo godono di un ambiente salutare, tra i loro famiglie e i loro compagni, trascorrendo una vita normale, centinaia di altri, nella Striscia di Gaza assediata vivono in condizioni tragiche, lavorando come ambulanti nelle strade.
La loro unica preoccupazione è vendere alcuni prodotti per aiutare le loro famiglie in gravi difficoltà, perché rimaste senza padre o perché questi è disoccupato o invalido a causa dell'assedio e delle bombe israeliane.

Shadi Mabruk, un bambino di dodici anni, abita nella città di Gaza. L’abbiamo incontrato mentre se ne stava sotto il sole cocente, con una scatola di gomme da masticare, all'incrocio di al-Saraya nel centro di Gaza. Gridava "gomma da masticare!" per attirare l'attenzione dei passanti: appena il semaforo diventa rosso, Shadi corre verso le auto per vendere le gomme agli automobilisti.
Ci siamo avvicinati a lui proprio con la scusa di comprarne un po’. Durante la nostra conversazione ci ha detto che egli esercita quest'attività da due anni e mezzo, dopo che il padre era rimasto disoccupato, poiché l'assedio israeliano imposto sulla Striscia di Gaza ha provocato la chiusura dello stabilimento dove lavorava. Shadi ci ha raccontato che si sveglia dalle prime ore del mattino, per uscire con la scatola delle gomme e cercare di vendere qualcosa per le strade e i vicoli della città di Gaza. Il suo posto preferito è l'incrocio di al-Saraya, perché è sempre affollato.
Il ragazzino ha raccontato di essere stato costretto ad abbandonare la scuola per cercare, con i suoi fratelli, di garantirsi il cibo, dato che in famiglia non vi è alcun’altra fonte di sostentamento oltre a ciò che essi guadagnano.
Il lavoro minorile si è incrementato notevolmente, negli ultimi tre anni, a seguito dello stretto assedio israeliano imposto da terra, mare e cielo, e che ha causato un incremento esponenziale del livello di povertà e di disoccupazione nella Striscia.

Cifre incredibili.
L'avvocato Sabiha ar-Rantisi, attiva nel campo dei diritti umani, ha spiegato che il numero di bambini che lavorano nella Striscia di Gaza ha raggiunto cifre incredibili, nonostante le convenzioni internazionali abbiano limitato l'età lavorativa nell'infanzia.
L'Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) ha fissato l'età lavorativa in almeno quindici anni nei Paesi “sviluppati” e in quattordici anni per quelli “in via di sviluppo”.
Essa ha poi aggiunto: "La legge palestinese fissa il limite lavorativa a quindici anni, ma ci dovrebbe essere un controllo sull'età, sulle ore lavorative (4 al giorno, con una pausa) e sulle condizioni idonee; ma tutto questo vale veramente nella Striscia di Gaza?"

L’avv. ar-Rantisi ritiene che la responsabilità ricade sulle istituzioni pubbliche e sulla società civile: "Quando diciamo che esistono delle leggi, le parti competenti sono obbligate a controllare e a perseguire chi le viola, poiché i bambini sono quelli che rischiano di più".

La vittima è il bambino.
Da parte sua, il dottor Fadl Abu Hein, professore di psicologia presso l'Università di al-Aqsa, ha osservato che il tasso di disoccupazione nella Striscia di Gaza ha prodotto due tipi di persone nella comunità: il primo, negativo, si disinteressa a quello che succede intorno a lui; l'altro, preferisce rimanere a casa perché dal lavoro si ricava poco. I bambinim, invece, accettano gli impieghi che i grandi rifiutano.
Ha poi aggiunto che la crescita del lavoro minorile è dovuta al fatto che il minore fa mestieri che il padre non riesce a svolgere, riuscendo a coprire una parte dei bisogni della famiglia.
Ce ne sono alcune che preferiscono mandare al lavoro i loro figli: i piccoli sono dunque le vere vittime, in quanto deprivati dell'istruzione, delle cure e di un sostegno psicologico. I bambini finiscono così per fare dei lavori pericolosi che pregiudicano il loro futuro.
Invece, per quanto riguarda i problemi che derivano dal lavoro minorile, sia nell'immediato sia a lungo termine, il dott. Abu Hein ha affermato che il minore, durante il tragitto verso il posto di lavoro, apprende cattive abitudini, di conseguenza cambia la sua personalità; inoltre, quando il bambino si allontana dalla scuola, perde molte fonti di apprendimento che servirebbero per arricchire la sua personalità.
Egli ha sottolineato che il lavoro minorile può trasformarsi anche in una richiesta d'elemosina, e ciò ne danneggia la personalità, che, indebolendosi, può trasformarlo in un piccolo criminale. Abu Hein ha infine aggiunto che i ragazzini subiscono la povertà, lavorando sin dall'infanzia per guadagnare soldi: il loro obiettivo principale diventa perciò portare a casa denaro con qualsiasi mezzo, anche illegale. E ha concluso che tale dramma non deve essere gestito soltanto dalle famiglie, ma dalle istituzioni e dalla tutta la società.

tratto da Infopal

domenica 27 settembre 2009

“A 90 DÍAS DE LUCHA AQUÍ NADIE SE RINDE”


Comunicato n.24 del Frente Nacional de Resistencia Contra el Golpe de Estado

Alla comunità nazionale e internazionale:

  1. Denunciamo l'azione repressiva del regime 'di fatto' che in violazione dei diritti umani più elementari continua con l'imposizione di coprifuoco illegali, irruzioni nelle case, detenzione arbitraria di persone, compresi minori, torture fisiche e psicologiche, utilizzo di armi da fuoco per disperdere manifestazioni pacifiche, e continue provocazioni e sabotaggi ai media indipendenti.

  2. Chiediamo la libertà immediata delle 13 persone che stanno per essere processate illegalmente dagli organi di giustizia del paese, con l'intento di intimidire i membri della Resistenza.

  3. Denunciamo che durante lo sgombero violento dei e delle militanti della Resistenza che si trovavano nei dintorni dell'ambasciata del Brasile nella mattina del 22 settembre, militari e polizia hanno distrutto beni pubblici e privati. Atti che sono stati attribuiti ai militanti della Resistenza.

  4. Chiediamo che finiscano le provocazioni e gli attacchi alle persone che si trovano nell'ambasciata del Brasile, contro le quali sono state usate diverse armi da guerra, compresi dispositivi ad alta tecnologia per l'emissione di ultrasuoni e agenti tossici che potrebbero contenere particelle radioattive, come il cesio 132.

  5. Riconosciamo le iniziative dei nostri compagni e compagne in tutto il paese, che sfidano ogni giorno la repressione e i coprifuoco, con atti di disobbedienza civile che dimostrano la dignità irrefrenabile del popolo.

  6. Ribadiamo la posizione del Frente Nacional de Resistencia Contra el Golpe de Estado, di voler ristabilire il Presidente legittimo Manuel Zelaya Rosales, condannare i violatori dei diritti umani e istallare l'Assemblea Nazionale Costituente democratica e popolare.

A 90 DÍAS DE LUCHA AQUÍ NADIE SE RINDE”

Tegucigalpa, M.D.C. 25 de septiembre de 2009

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!