giovedì 29 ottobre 2009

'L'80% della popolazione della Striscia di Gaza vive sotto la soglia di povertà a causa dell'embargo'.

Un milione di palestinesi vive di aiuti

Il presidente del Comitato Popolare contro l'embargo, l'on. Jamal al-Khudari, ha affermato che l'embargo israeliano continua a distruggere i più importanti settori-chiave economici della Striscia di Gaza, e ha gravi conseguenze umanitarie sulla vita degli abitanti.

In un comunicato stampa diramato ieri in occasione del secondo anniversario della fondazione del "Comitato popolare contro l'embargo", al-Khudari ha affermato che "l'embargo si è relativamente attenuato, ma il popolo di Gaza continua a languire in una prigione chiusa, senza la libertà di godere del diritto di spostarsi e di viaggiare".

Egli ha aggiunto che "l'ultima guerra ha aumentato le sofferenze della popolazione: decine di migliaia di famiglie, le cui case sono state distrutte dalla guerra, oggi non hanno un’abitazione, a causa del divieto di importare materiali da costruzione".
E ha poi spiegato che "decine di migliaia di lavoratori sono ancora senza lavoro: un milione di palestinesi vive di aiuti, il reddito pro capite è di 2 dollari al giorno, e l'80% vive sotto la soglia di povertà".

Quanto al ruolo del Comitato nella sensibilizzazione sulla questione dell'embargo israeliano, ha dichiarato: "Noi del Comitato popolare siamo orgogliosi di aver ‘suonato la campana’. Abbiamo lanciato un progetto che ha mosso il mondo, e questo è diventato il problema di tutti all'interno della Palestina e a livello internazionale; siamo quindi lieti che tutti lavorino per il successo di un progetto contro l'embargo".

Ha poi sottolineato che il Comitato è riuscito a fornire un modello di successo per un attivismo popolare efficace, anche nei frangenti più difficili, come nel caso dell’assistenza per le partenze all’estero di malati e studenti, di possessori di permessi di soggiorno e altre categorie di persone bisognose, oltre al far entrare a Gaza medicine e carburante che hanno alleviato le sofferenze in queste difficili condizioni sotto embargo.

Al-Khudari ha rivolto un discorso agli attivisti stranieri e a coloro che sono solidali con il popolo palestinese nel mondo intero: "Siete stati dei veri resistenti e avete dimostrato un grande coraggio nel difendere una giusta causa. Avete avuto un ruolo importante nel sostenere e difendere gli oppressi, avete alleggerito la loro sofferenza e avete detto al popolo assediato a Gaza che nel mondo ci sono ancora persone che sostengono gli oppressi e possono asciugare le loro lacrime".

tratto da Infopal

Delirio Afpak

I talebani pachistani compiono un massacro nel bazar di Peshawar. Quelli afgani attaccano nel centro di Kabul. Intanto si scopre che la Cia paga da anni il più grande boss afgano della droga: il fratello del presidente di Karzai

Strage Pakistan

di Enrico Piovesana

L'autobomba che oggi ha ucciso quasi cento persone, ferendone e mutilandone altre duecento, ha distrutto il caratteristico bazar dei cereali e delle granaglie di Pipal Mandi, nel cuore della città vecchia di Peshawar. Si chiamava così perché sorgeva attorno a un antichissimo pipal, un fico sacro millenario: albero sacro per i buddisti. Non per i commercianti musulmani, che infatti avevano ingabbiato il suo grande tronco in una baracca circolare di legno che ospitava decine di venditori con le loro merci.
All'ombra del grande albero i mercanti chiacchieravano e prendevano il tè, i garzoni spingevano i carretti carichi di merci, talvolta inutilmente trainati da piccoli muli, facendo lo slalom tra i moto-risciò e le donne in burqa venute a fare la spesa.
Da questo ombelico sacro-profano si diramavano tortuosi i vicoli affollati e bui del bazar, su cui si affacciavano ininterrotti gli altri banchi del mercato e grandi portoni di legno da cui si accedeva ad antichi caravanserragli da mille e una notte: cortili ombreggiati da teli colorati e ingombri di casse, sacchi, bilance, carretti, animali e mercanti intenti a trattare, pesare e catalogare.
Tutto attorno a Pipal Mandi si snodavano, senza distinzioni nette tra l'uno e l'altro, il bazar delle spezie, quello delle pozioni magiche, quello degli ortaggi e quello delle donne, pieno di tessuti e accessori colorati ‘made in China'.
Ormai da anni nessun occidentale si spingeva da queste parti. Il personale straniero dell'Onu e della Croce Rossa Internazionale che lavora a Peshawar ha il divieto assoluto di avvicinarsi anche in auto alla città vecchia per il rischio attentati. Anche molti giornalisti preferiscono tenersi alla larga dai bazar. Chi, invece, decideva di tuffarsi in questo labirinto attirava gli sguardi di tutti, ma proprio tutti, come fosse un marziano. Sguardi curiosi, approcci amichevoli - "Hello sir! How are you sir? Where are you from sir?" - e in alcuni casi allarmati - "Don't stay here sir, it's dangerous! A lot of taliban here, sir".

Anche nel centro di Kabul ci sono tanti talebani. Oggi un piccolo commando di guerriglieri travestiti da poliziotti ha fatto irruzione nell'hotel Bakhtar di Shar-e-Naw, nel pieno centro di Kabul (a due passi dall'ospedale di Emergency), uccidendo dodici persone, tra cui sei dipendenti delle Nazioni Unite di cui non è ancora stata resa nota la nazionalità. Mentre la zona si trasformava in un campo di battaglia, con sparatorie, esplosioni, gente in fuga imbrattata di sangue, mentre centinaia di soldati circondavano la zona, altri talebani sparavano un colpo di mortaio contro l'Hotel Serena, il superblindato albergo cinque stelle che ospita gli stranieri a Kabul. Temendo anche qui un irruzione armata, gli ospiti sono stati rinchiusi nei bunker sotterranei, fino a quando l'allarme non è cessato.
Una dimostrazione di forza dei talebani alla vigilia del ballottaggio per le elezioni presidenziali, fissato per sabato 7 novembre: un voto illegittimo (poiché si svolge sotto occupazione militare) che confermerà al potere il sempre più debole e screditato Hamid Karzai.
E' di oggi la notizia che suo fratello Hamed Wali, il principale narcotrafficante del paese e l'organizzatore delle frodi elettorali nel sud a vantaggio di Hamid, è da otto anni sul libro paga della Cia. Qualcuno dice perché è suo l'ex residenza del Mullah Omar di Kandahar che oggi è diventato il quartier generale di migliaia di mercenari della Cia e delle forze speciali Usa - anni fa chi scrive ha avuto il piacere di venire fermato da questi ‘Rambo' vestiti da talebani davanti al cancello di Villa Omar: un calcio sul cofano della macchina e un fucile d'assalto puntato alla testa dell'autista accompagnato da un gentile "Get the fuck out of here!". Altri ricordano le accuse di coinvolgimento dell'intelligence Usa nel narcotraffico afgano: che il più grosso boss afgano della droga è stipendiato dalla Cia sarebbe solo una conferma.

Tratto da:

Honduras: Donne prigioniere politiche

A quattro mesi dal golpe.

Femministe in resistenza contro il golpe

Queste sono le condizioni giuridiche ed umane delle donne prigioniere politiche del governo dittatore di Roberto Micheletti. Video e comunicato.

PER LA DIFESA DELLA DEMOCRAZIA IN HONDURAS

Centoventitreesimo giorno di resistenza contro il colpo di stato

Intervista ad Augustina Flores e Mabel lopèz - Prigioniere politiche
Noelia Nunez - Avvocata in resistenza
Scene dalle mobilitazioni di piazza

Dichiarazione delle femministe in resistenza

Davanti al popolo honduregno e alla comunità internazionale, dichiariamo:

Continuiamo chiedendo la condanna nazionale ed internazionale al Colpo di Stato perpetrato i 28 di giugno che si è concretizzatosi con l'espulsione brutale del Presidente Costituzionale, Manuel Zelaya, dal nostro paese e l'instaurazione della dittatura fascista guidata da Roberto Micheletti Baín.

Denunciamo che il Dialogo intrapreso per superare la crisi generale propiziata dal Golpe, è stato caratterizzato da una vecchia pratica della classe politica tradizionale: la dilazione ed ambiguità nelle sue dichiarazioni ed attuazioni.

A ciò si sono sommati le misure di repressione contro il nostro popolo, violentando - a parole e nei fatti - tutte garanzie costituzionali ed i diritti umani fondamentali. Come esempio, valga ricordare che hanno perso la vita più di venti hondureñas/os, più di un centinaio sono stati feriti/te, si contano decine di donne oggetto di abuso sessuale e più di 3000 -tra donne, uomini e minori di età - hanno subito detenzioni arbitrarie.

In tali condizioni, è evidente che la Commissione negoziatrice del Presidente Zelaya sta affrontando serie difficoltà per stimolare normalmente i suoi sforzi di consenso e conciliazione.

Sosteniamo che la restituzione di Manuel Zelaya come Presidente Costituzionale del Honduras sia condizione previa ed ineludibile per effettuare le elezioni nel paese. Tuttavia, il regime di facto respinge questo tema e sta preparando una gran frode elettorale al fine di dare un'apprenza di legittimità ad un futuro governo.

Reiteriamo il nostro rifiuto alle inumane condizioni di isolamento, fustigazione e tortura psicologica alle quali è stato sottomesso il Presidente Manuel Zelaya nella sede diplomatica del Brasile accreditata in Honduras.

Sosteniamo incondizionatamente la pronta definizione delle procedure per la convocazione di un'Assemblea Nazionale Costituente democratica, aperta e partecipativa.

Pertanto, oggi più che mai, chiediamo:

  1. Dalle organizzazioni di donne di tutto il mondo, il loro appoggio deciso affinché il nostro popolo riconquisti il diritto a vivere in pace ed in libertà con la restituzione di José Manuel Zelaya Rosales come legittimo Presidente della Repubblica fino al compimento del periodo costituzionale del suo governo.

  2. Dai Governi degli Stati Uniti e Comunità Europea, l'Organizzazione degli Stati Americani, l'Organizzazione delle Nazioni Unite, l'adozione di nuove misure per velocizzare il processo di restituzione del Presidente José Manuel Zelaya e, quindi, la pacificazione sociopolitica in Honduras.



Pluspetrol, il conflitto nel cuore dell'Amazzonia peruana

Intervista a Vladimir Pinto, avvocato del Programa de Defensa de Derechos Indígenas (PDDI)


L'Amazzonia costituisce ancora una area marginale del Peru, lontana, incomunicante, carente di infrastrutture. Uno spazio in cui lo Stato sembra assente, ma non lo è quando è il momento di promuovere progetti estrattivi - in mano di privati - e mettere a disposizione le forze di sicurezza per garantire il loro proseguimento.

Sebbene siano pochi i blocchi petroliferi sfruttati, le imprese del settore cercano di coprire il vuoto lasciato dallo Stato in materia di salute e trasporti, ma questa posizione di potere non ha impedito l'organizzazione di chi soffre l'inquinamento.

Negli ultimi anni kichwas e achuar hanno portato avanti forti lotte per porre rimedio all'impatto socio-ambientale derivante dallo scarico del crudo (nome che si da al greggio) e dalle acque contaminate ed hanno ottenuto alcune conquiste.

Queste mobilitazioni sono state l'antecedente delle massicce mobilitazioni del giugno scorso che hanno raggruppato più di 1000 comunità, coordinate nella Asociación Interétnica de Desarrollo de la Selva Peruana (Aidesep), per porre freno alla privatizzazione del territorio e all'avanzamento dei progetti espansivi.

Il levantamiento è stato colpito dal sangue di Bagua e le organizzazioni indigene duramente colpite. Il Governo di Alan García non ha potuto avanzare con la sua politica però la minaccia continua, il 75% di questa regione è stato dato in concessione mineraria.

L'Avvocato peruano Vladimir Pinto conosce in profondità la situazione dei popoli amazzonici, patrocina con il Programa de Defensa de Derechos Indígenas le organizzazioni indigene in Tribunale.

Nell'intervista realizzata da Observatorio Petrolero Sur parla del post-Bagua, della criminalizzazione delle lotte socio-ambientali e il ruolo che gioca la Pluspetrol.

-En recientes conflictos suscitados en la Amazonía por los impactos de la actividad hidrocarburífera aparece citada a Pluspetrol. ¿Cuál es su relevancia en la región?
Pluspetrol es una empresa que, si bien no es una gran transnacional, en Perú tiene una relevancia muy importante. Opera el lote 1AB, en la frontera con Ecuador, que es el más antiguo de la Amazonía peruana -en producción desde hace más o menos 40 años, con estándares ambientales muy malos. Ellos llegaron hace 10 años, lo heredaron de la empresa Occidental Petroleum (Oxy). Operan también el lote 8, que es contiguo a este y antes explotaba la nacional Petroperú. Además Pluspetrol en Camisea tiene el monopolio de la operación del lote de gas: extracción, refinación y venta. En Perú es la empresa petrolera más importante, sin duda alguna.

En el caso del lote 1AB han heredado una situación ambiental desastrosa, es un caso muy similar a lo que sucede en Ecuador con Texaco: 40 años de vertimiento de aguas contaminantes directamente a los ríos. Heredan esa operación en el año ’89 y no modifican los estándares sino hasta el año 2008, que en algunas zonas de ese lote han terminado de reinyectar las aguas que antes vertían a los ríos. Aún ahora hay una situación de vertimiento en otras cuencas con el consecuente daño ambiental y para la salud humana.

En la zona del lote 8 también tienen problemas. Ese lote está dentro de áreas de territorio de pueblos indígenas en aislamiento voluntario, si bien es cierto que el Estado es el responsable de crearlo y darlo a concesión, ellos operan en esas condiciones. Entonces, en todas sus operaciones tienen una situación de vulneración de derechos de los pueblos originarios.

-Hay un documental, Una muerte en Sión, que refiere a la presencia de Pluspetrol en territorio achuar.

Si, es sobre el lote 1AB. Hay esta situación de contaminación de tantos años y Pluspetrol opera allí afectando a pueblos indígenas, fundamentalmente a los achuar y a los kichwas, aunque también hay una pequeña presencia de urainas. Una muerte en Sión es justamente sobre las comunidades achaur del río Corrientes, que son afectadas por estas actividades de contaminación. Esto ya es materia de un proceso judicial que no se pudo realizar en Estados Unidos y que ahora está en elaboración para iniciarse en Perú.

Pluspetrol, en ese caso, es co-responsable porque opera allí en los últimos 10 años pero ha mantenido los mismos estándares que se han utilizado, que son inhumanos, inaceptables simplemente.

-Durante las movilizaciones amazónicas se mencionó la presencia de militares en instalaciones de Pluspetrol para reprimir a los indígenas. ¿En efecto fue así?
Ha habido movilizaciones indígenas muy fuertes para que se modifiquen estos estándares ambientales tan desastrosos. En el año 2006 el campamento de producción de Pluspetrol estuvo tomado dos semanas por el Pueblo Achuar y fruto de esa movilización lograron un acta donde la empresa reconoce en parte su responsabilidad: en materia de salud crea un fondo, se compromete a reinyectar [las aguas de formación] en un plazo más o menos inmediato; y el Estado asume algunas obligaciones como garante. Ese es el antecedente de movilización amazónica más importante antes de Bagua.

Luego, en marzo de 2008, hubo una toma del aeropuerto que tiene Pluspetrol en la comunidad de Andoas, donde están también sus oficinas operativas del lote 1AB. Por esa toma se ha iniciado un proceso penal contra muchísimos dirigentes kichwas de la zona del Tigre y del Pastaza, que son ríos afectados por el lote. La movilización de los pueblos indígenas estaba vinculada a la presencia de industrias extractivas -sobre todo petróleo- en territorios donde no las aceptan y toman como referencia la tragedia ambiental del lote 1AB.

En la movilización de los achuar [de 2006] la empresa adoptó la política de militarizar la zona en contubernio con el Estado, obviamente, y en marzo de 2008, cuando reprimieron a la población que tomó el aeropuerto, dentro de la instalaciones de Pluspetrol se produjeron torturas a dirigentes indígenas. Es decir, personal de la DINOES [Dirección Nacional de Operaciones Especiales de la Policía Nacional] torturó en las instalaciones de la empresa. Eso es algo que recientemente se hizo público en el juicio penal que se les está siguiendo a los compañeros achuar.

En la zona la DINOES cumple el papel casi de policía al servicio de la empresa, no defiende el orden público sino la seguridad de la empresa.

foto5 ANDOAS

-¿La DINOES es una policía común?
Es policía para operaciones especiales, es como el SWAT. Es un cuerpo especializado que estaba destinado a operaciones de seguridad en áreas urbanas pero que, en los últimos años, se le ha trasladado a las zonas donde hay conflictos socio-ambientales. [Interviene] cuando hay grandes movilizaciones de la población.

-¿Se inició alguna causa judicial por la aplicación de torturas dentro de instalaciones de Pluspetrol?
Lo vamos a hacer. La tortura contra los dirigentes indígenas no se había evidenciado todavía, salvo por las declaraciones de ellos, pero recientemente se ha hecho presente al juicio un misionero católico que también fue torturado y que ha denunciado estos hechos de manera pública. Entonces, teniendo otros elementos, se va a iniciar una causa contra la policía y estamos evaluando ver el nivel de responsabilidad de la empresa -como tercero civilmente responsable- y de los funcionarios de la empresa -como co-responsables de la tortura.

-En Argentina Pluspetrol realiza campañas de RSE para dar una imagen de buen diálogo con la sociedad. Las demandas que se hicieron en la Amazonía peruana, ¿modificaron las políticas de la empresa?
Hay algunas cosas que cambiaron a la fuerza, es decir, las comunidades exigieron que se modifiquen algunas prácticas empresariales y, a raíz de que Pluspetrol notó el nivel de organización y de decisión que tenían, modificó algunas de las prácticas más duras. El tema es que luego de esta situación forzada de cambio, ellos han convertido el conflicto en una propaganda: “Miren cómo nosotros tenemos este programa de Salud en la Amazonía y cómo estamos reinyectando lo que nunca reinyectó la otra empresa…”. No lo plantean como el resultado de una larguísima confrontación sino como una decisión corporativa.

Ahora, esto ha cambiado en una de las partes del lote, donde la población se organizó y protestó, pero no en las otras. Yo diría que más que una empresa que tiene responsabilidad corporativa imbuida como una filosofía, un espíritu, lo que hace es reaccionar frente a la presión que le impone la gente.

En la zona de Camisea, en el sur, operan en condiciones menos adversas. Es una operación más nueva pero no exenta de complicaciones. El tubo de líquidos derivados -porque mueve gas pero también líquidos derivados- se ha roto por lo menos 6 veces en 4 años de operación. Entonces es una situación también es compleja, donde, por supuesto, dicen que mantienen una buena relación con la población. No se sabe de un conflicto muy abierto pero en términos ambientales sí hay bastante que evaluar allí.

La operación es muy complicada porque, además de la explotación del gas de Camisea -que afecta a pueblos en aislamiento-, implica un gasoducto que cruza la región andina hasta la costa. Si no me equivoco son 450km y la construcción del gasoducto implicó diversos impactos en la región andina, sobre todo en algunas comunidades de Ayacucho, que protestaron por eso.

-Casualmente años atrás Pluspetrol auspició una muestra fotográfica en el Centro Cultural Jorge Luis Borges sobre culturas andinas.
Es curioso que se trabaje en este asunto de promover la identidad andina y demás, porque es una empresa que más bien ha sido vista siempre como problemática en el balance general, porque está metida realmente en operaciones complicadas.

-¿La Amazonía es una de las regiones peruanas que más se ha concesionado para la actividad hidrocarburífera?
Sí, tenemos el 75% de la Amazonía peruana concesionada para hidrocarburos, aunque explotación todavía tenemos poco. Básicamente Pluspetrol es la única que está explotando, hay una pequeña [compañía], la norteamericana Maple Gas, que opera en lotes muy antiguos y marginales -tanto en tamaño como en producción.

Hay algunas zonas donde las comunidades que no conocen bien la dinámica del petróleo, que no tienen ninguna expectativa más para encontrar alguna alternativa económica, aceptan el ingreso de estas empresas; hay otras donde hay resistencia. Donde hay resistencia se produce inmediatamente un fenómeno de estigmatización, complicaciones. Nosotros estamos evaluando esto en función de una visión más amplia de la Amazonía -porque es un problema que se empieza a generalizar en los países vecinos- para demandar un freno a las concesiones, ya que es un área tremendamente frágil.

-¿En estas nuevas concesiones de lotes Pluspetrol tiene alguna posición ventajosa?
Bueno, de acuerdo a la ley no la puede tener. Pluspetrol está compitiendo por uno o dos lotes más, no más tampoco, porque creo que de hecho excedería su capacidad operativa.

P1010887

-Hablabas de la estigmatización de quienes se paran frente al avance de las concesiones petroleras o de quienes protestan por los impactos. Antes de comenzar la entrevista comentabas que la criminalización del conflicto socio-ambiental en Perú es una tendencia ascendente.
Si, según la Defensoría del Pueblo, que podríamos considerar que son datos conservadores -no son radicales ni mucho menos-, más de la mitad de los conflictos sociales en el Perú son de carácter socio-ambiental, y, en la mayoría de estos casos, no hay una solución inmediata -el 88% se mantienen activos. Es un escenario creciente donde la respuesta del Estado no es el diálogo o la búsqueda de soluciones de mediano plazo sino la represión y la criminalización.

Tenemos, lamentablemente, un marco legislativo penal muy laxo, complicado. Desde la reforma de los ’90 se empezó a ampliar este marco legal, primero, contra el terrorismo; luego, contra el crimen organizado; y esas mismo marco normativo se utiliza ahora para enjuiciar a dirigentes populares o a activistas que están organizando protestas socio-ambientales. Incluso con este gobierno tenemos asilados, dirigentes indígenas han tenido que salir del país [luego de la masacre de Bagua]; el presidente del Poder Judicial confesó que al juez que ve el caso de Alberto Pisango [presidente de la Aidesep] lo llamaron los ministros para decirle que rápidamente vean su detención, una intromisión del poder político evidente; prácticas de persecución a las organizaciones sociales.

Estamos en un escenario muy complicado y, lamentablemente, [tenemos] un aparato policial coludido con intereses empresariales. La policía interviene en reuniones de las comunidades, cuando alguna ONG quiere hacer alguna capacitación la policía intimida. En el caso de Pluspetrol es evidente, por ejemplo, la empresa maneja el único aeropuerto de Andoas y el abogado penal que lleva el caso [de los achuar imputados] tenía que aterrizar allí con una avioneta alquilada. Cuando ya estaba por aterrizar la empresa se lo impidió, le dijo al piloto que no cuando se enteró que estaba yendo un abogado. Tuvieron que regresar, con riesgo de que la gasolina no alcance.

-Por el panorama que das se deduce que la tensión de Bagua no quedó disipada.

Evidentemente hubo un retroceso del Estado, se derogaron las dos normas más graves, que eran parte de la agenda indígena: las que tienen que ver con la protección del bosque -para que no se convierta en una propiedad privada- y con las garantías a la propiedad indígena -que se quería eliminar. En ese sentido el Estado retrocede en su estrategia de despojo directo, pero no cede en cuanto a su pretensión. Ahora hay una campaña enorme de prensa, coludida con intelectuales orgánicos al Fondo Monetario Internacional y al Banco Mundial, para seguir promoviendo la titulación individual y la parcelación de las comunidades.

Los indígenas ganaron en varios ámbitos, también en el sentido de demostrarle a la opinión pública que tenían razón en muchas de las cosas que estaban planteando. Quedó clarísimo, por ejemplo, que el Estado tiene que cumplir el Convenio 169 [de la OIT] en cuanto a la consulta [previa, libre e informada antes de implementar políticas que los afecten], y que no lo había hecho. De algún modo hubo una victoria, también mediática, en el sentido que “no eran locos” ni estaban “yendo por fuera del derecho” sino que su demanda era justificada. Sin embargo los medios de comunicación mayores promueven constantemente la idea de que hay intereses políticos detrás de la organización indígena, incluso intereses políticos externos -el gobierno quiere involucrar al presidente [venezolano Hugo] Chávez, a las FARC, etc. Es una situación que se mantiene y se reproduce constantemente, y es una batalla del día a día donde los medios de comunicación, sobre todo la televisión, cumplen un papel a favor del gobierno.

El Estado ha sido derrotado en esta batalla [de Bagua], pero la decisión política de fondo me parece que subsiste. La organización indígena quedó muy golpeada después de esto, mucha gente con procesos judiciales, muchos recursos agotados, persecución de los proyectos que le dan sostenimiento a la organización, intervención administrativa de la Aidesep. La tensión como tal se ha transformado, quizás es más velada. La actuación del Estado es menos represiva, en el sentido directo, pero hay todo un sistema represivo, acompañado por los medios de comunicación, que empieza a reverdecer y que, quizás, va a esperar un momento para volver a intentarlo.

Mobilitazione a Temuko contro la brutalità dello stato del Cile

Violenze in Wallmapu

Ancora sulle strade per protestare contro l'ultimo 'Piano operativo statale di Repressione al Popolo Mapuche'

Circa duemila persone provenienti dalle comunità Mapuche di tutto il Wallmapu, hanno marciato per le strade di Temuko in ripudio alla politica di criminalizazione e repressione implementata dallo stato del Cile in risposta alle loro richieste sociali per stabilire il pieno esercizio dei diritti collettivi del Popolo Mapuche, specialmente dei diritti territoriali, sanciti da trattati internazionali sottoscritti dallo stesso governo cileno. Irruzioni nelle comunità e nelle terre ancestrali recuperate, accompagnate da intimidazioni, fermi e arresti, ferimento di adulti e bambini in un escalation di violenza con utilizzo di armi che non ha lasciato indifferenti neppure gli organismi internazionali.

Durante la mobilitazione guidata dall'Alleanza Territoriale Mapuche, quando sono arrivati all'edificio del governo regionale, hanno lasciato una gran quantità di resti di approvvigionamenti lasciati dai carabinieri durante i molteplici operativi ed irruzioni effettuati nelle comunità.

"Con questo hanno fatto irruzione nella scuola di Temukuikui e lasciato feriti dei bambini di noi i Mapuche", hanno denunciato dei bambini partecipanti alla marcia mentre sostenevano e mostravano cartucce di bombe lacrimogene, cartucce da fucile e bossoli di pallottole.


BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!