martedì 22 dicembre 2009

Da Seattle a Copenhagen: paradossi del mondo capovolto


di Giuliano Santoro

Sarebbe sbagliato leggere gli esiti del consesso globale di Copenhagen a cominciare dalle cinque paginette striminzite di “accordo” uscite dal vertice sul riscaldamento climatico.

C'è una verità parziale che circola e che unisce le lamentele di parte dei movimenti ambientalisti ai rimproveri ipocriti dei governi occidentali. Tutti concordi nel sottolineare come la montagna dell'allarme sulle condizioni dell'ambiente abbia partorito un topolino vago e non vincolante, dall'autocrazia di Dmitry Medved fino al post-populismo berlusconiano, eloquentemente rappresentato dal ministro Stefania Prestigiacomo. Passando per la destra nazionalista e sovranista di Nicholas Sarkozy.
Al di là della spiacevole compagnia, è un peccato abbandonarsi a una lettura binaria e semplicista perché si ometterebbero preziosi spunti di analisi che arrivano dal primo vertice dopo la Grande crisi. Proviamo ad isolarne alcuni.

Globalizzazione. Nei mesi scorsi sono successe cose che hanno confermato la tendenza verso un mondo globale, checché ne dicano i nostalgici dell'imperialismo e gli irremovibili oppositori dell'anti-imperialismo.
Il fallimento del colpo di Stato di George W. Bush ha aperto una fase in cui nessuno Stato-nazione eserciterà la sua egemonia, ha segnato la fine non solo dell'”unilateralismo statunitense”, ma “dell'unilateralismo tout-court”. Attenzione, però: mentre vecchie canaglie del golpismo americano come Henry Kissinger e pensatori neocon come Francis Fukuyama si convertono in tempi più che sospetti al “multilateralismo”, anche questa forma di governo e le istituzioni che sono nate dopo la Seconda guerra mondiale si mostrano inefficaci.
Il vertice del G8 ha dichiarato esplicitamente la sua inutilità. La politica internazionale pare pericolosamente sospesa: timide contromisure alla crisi finanziaria sono state prese nel corso di un G20, mentre si svolge nei fatti un inquietante vertice permanente G2 tra Cina e Stati uniti. Alcune potenze occidentali, soprattutto l'Europa, hanno lasciato spazio ai paesi che una volta si sarebbero ipocritamente definiti “in via di sviluppo”: Brasile e India guadagnano posizioni nel Fondo monetario internazionale. Come dicono molti analisti economici, i mega-eventi sono diventati il metro del potere e delle gerarchie, la rappresentazione dello spostamento dei capitali globali e la nuova forma di ri-produzione della ricchezza. Sono il cavallo di Troia di quella forma di produzione che si basa sulla costruzione di narrazioni a cavallo tra tradizione e innovazione, da divulgare sui grandi schermi del villaggio globale e sulla costruzione, compiuta a colpi di cemento e leggi speciali, di aree dominate dalle leggi dell'economia. Dovremmo trarre qualche lezione dal fatto che gli scorsi giochi olimpici si sono disputati in Cina, e sono serviti a celebrare la potenza del gigante economico asiatico. Tra qualche mese sarà il Sudafrica, altra potenza emergente, protagonista nel mancato accordo di Copenhagen, a ospitare i campionati mondiali di calcio. E le Olimpiadi del 2016 si terranno nel Brasile di Lula, il leader che nella rappresentazione mediatica del vertice danese ha giocato la parte del grande pontiere tra gli interessi del Sud rampante che rivendica libertà di sviluppo e del Sud alla deriva costituito dall'Africa abbandonata alla desertificazione e dai dodici atolli del Pacifico condannati dalle emissioni ad essere ingoiati dagli oceani. Cioè quelli che dovrebbero accontentarsi del fatto che cento miliardi di dollari verranno distribuiti alle élites economiche di quei paesi per portare avanti politiche di “sviluppo sostenibile”.

L'Uomo di mezzo. Ma il vero “uomo di mezzo” di Copenhagen è stato Barack Obama, condannato al ruolo di garante degli equilibri e propugnatore della “governance”, parola che, come ricordano Michael Hardt e Toni Negri in “Commonwealth” rimanda sia alla gestione del management nelle corporation che all'analisi del potere aperto e flessibile di Michel Foucault. Questo tratto globale di Obama fino ad ora ha segnato le sue fortune, le ovazioni planetarie del discorso all'università del Cairo e la vittoria del premio Nobel per la pace preventiva. Adesso potrebbe decretarne i prossimi fallimenti.
Il presidente statunitense è arrivato a Copenhagen solo alla fine dei dodici giorni di trattative, prima dell'ultimo giro di spot pubblicitari, come il protagonista risolutivo della sceneggiatura di un serial televisivo è solito fare per sbrogliare la situazione. Reduce dalle mediazioni al ribasso del dibattito al senato sulla riforma sanitaria, ha cercato di giocare una mediazione ancora più improbabile. Obama si è mosso con imbarazzo evidente dentro lo spazio ristretto fissato dal Congresso statunitense, che, come è noto, è fortemente condizionato dai desiderata delle lobbies inquinanti. As usual, l'inquilino della Casa bianca ha cercato di manovrare le leve della comunicazione per presentarsi come “risolutore”. Ma il gioco di prestigio non gli è riuscito: era praticamente impossibile far incontrare le pretese “ambientaliste” un po' ipocrite della vecchia e sazia Europa con le ambizioni della Cina, l'Elefante obeso e sempre più affamato che possiede gran parte del debito americano. O con le rivendicazioni dell'India: perché mai un paese in cui 400 milioni di persone vivono senza corrente elettrica avrebbe dovuto accettare “vincoli alla crescita”? È facile comprendere come questo scenario unisca curiosamente [e anche tragicamente] discorsi all'apparenza contrapposti fino ad oggi. Forse per la prima volta nella storia, in maniera così spudorata ed esplicita, si mischiano le carte del discorso pubblico e si rovesciano i punti di riferimento cui eravamo abituati: il miope “diritto ad inquinare” si è miscelato con la sacrosanta retorica anticoloniale [“i sacrifici li facciano i paesi che crescono da duecento anni”]. Allo stesso modo, è evidente che la conversione sulla via di Damasco alle politiche ecologiche di Europa e Australia fa il paio con la loro difficoltà di ritrovare la via della crescita nel nuovo contesto economico globale. Ancora: il populismo anticapitalista di Chavez ha avuto buon gioco a schierarsi con i “dannati della terra” africani, nonostante il caudillo venezuelano giochi tutta la sua capacità di condizionamento e la sua centralità negli equilibri latinoamericani attorno al petrolio. Per non parlare del discorso dell'Iran di Ahmadinejad, che ha insistito sul ruolo dell'energia nucleare contro il monopolio del Nord del mondo e il riscaldamento globale.
Da questo scenario [a tratti delirante, a tratti inedito: di sicuro complesso] non poteva venire fuori un trattato. La conclusione obbligata è stata quella di un “accordo politico” non vincolante, diplomatico e beffardo, con il quale per la prima volta i tanti e diversi paesi che costituiscono i nodi della rete economica globale riconoscono l'emergenza ambientale ma non fanno niente di concreto per affrontarla.

Movimenti. Il tema della “concretezza” delle misure da prendere contro il global warming rimanda direttamente al ruolo svolto dai movimenti nel corso delle quasi due settimane del vertice danese. Come spiega bene un analista “tecnico” e competente come Antonio Tricarico del Centro per la riforma della Banca mondiale sulle pagine dell'Almanacco di Carta in edicola dal prossimo 25 dicembre fino al 14 gennaio e dedicato allo stato dei movimenti globali nel decennale della rivolta contro il Wto di Seattle, lo stallo evidente del movimento che cominciò nel novembre del 1999 nella città dello Stato di Washington è dovuto, paradossalmente e come accade molto spesso, all'affermazione almeno parziale di alcune delle sue rivendicazioni. Non è la prima volta che succede: un movimento è spiazzato dalla contraddittoria emersione di fenomeni che aveva saputo anticipare e rimane imprigionato nel nuovo scenario. Nel caso specifico, il movimento che venne promosso a “seconda potenza mondiale” dal New York Times ai tempi della campagna contro la guerra in Iraq, non ha saputo adattare i propri equilibri e la propria azione concreta al dispiegarsi di quella globalizzazione che a parole dava per assodata, cioè alla concreta conquista di autonomia del Sud del mondo e della sua società, di una sua parte almeno, rispetto al Nord. È una dinamica epocale che crea uno spiazzamento perfino comprensibile. Quel movimento, che è stato sia l'ultimo del Novecento che il primo del Duemila, è per certi versi rimasto impigliato al secolo scorso, attaccato allo schema strutturalista centro-periferia che già le ultime edizioni dei Forum sociali mondiali, nei termini del superamento della “dipendenza” dei movimenti del Sud da quelli del Nord, in qualche modo davano già per morto e sepolto.

Sovranità. L'altro elemento di crisi, che serve sia a leggere le difficoltà “dal basso” che il fallimento della codificazione internazionale multilaterale “dall'alto”, è di natura squisitamente politica. La rivendicazione di un “limite” naturale allo sviluppo, portata avanti da molti dei movimenti ambientalisti giunti a Copenhagen, implica automaticamente la ricerca di una qualche forma di sovranità che questo limite determini, sancisca ufficialmente e faccia rispettare, con potere di sanzione e intervento. Si tratterebbe insomma, e questo è un problema aperto, di dover restaurare proprio quella sovranità che è in messa in crisi dal mosaico globale. È un tema, quello della governance planetaria, che già era rimasto senza soluzione al vertice di Londra, dove i venti grandi della terra avevano annunciato di voler porre regole al sistema finanziario internazionale. Sempre sull'Almanacco di Carta, Michael Hardt – raggiunto nel bel mezzo delle mobilitazioni di Copenhagen - sottolinea che questo “appellarsi agli Stati” da parte dei movimenti, perché stabiliscano i “limiti dello sviluppo”, si è tradotto in due fenomeni paralleli e per molti versi complementari: la “nostalgia per la sovranità”, appunto, e la scelta di una “vita etica” individuale [che ormai tutti i grandi quotidiani propagandano e che le grandi Organizzazioni non governative che siedono al tavolo della governance a Costituzione mista imperiale propugnano] che non si traduce in progetto collettivo ma nella ricerca di alibi e consolazioni solitarie.
Se, insomma, Copenhagen doveva essere un luogo in cui mettere a verifica e a valore la relazione tra la difesa e la conservazione dei “beni comuni” naturali e l'organizzazione e l'affermazione del “comune”, inteso come relazione continua e ricchezza immanente alle relazioni sociali, questi sono alcuni dei nodi da affrontare, per fare tesoro della vetrina globale del vertice e dei paradossi da essa innescati.

Tratto da:

lunedì 21 dicembre 2009

Countdown China

Il diario di bordo di Paolo Do - Shanghai (Cina)


Il Pearl River Delta è una delle regioni economicamente più dinamiche in Cina, dove si sta per costruire il ponte più lungo del mondo (che dovrebbe collegare Hong Kong con Macao e Shenzhen), e dove la metropoli di Guangzhou sta scavando in simultanea ben 8 linee di metropolitana in vista dei giochi Asiatici del 2010. Nell`arcipelago Cinese delle zone speciali composte da Hong Kong, Shenzhen, Macao e Guangzhog, una parola si sente ripetere spesso: Europa. Dobbiamo fare come in Europa. L`idea infatti è quella di sperimentare un dispositivo di controllo e di gestione in questa regione sul modello di quello europeo in modo tale da controllare al meglio la mobilità e i flussi della forza lavoro.
Ma di Europa in Cina se ne sente parlare anche altrove. Poco tempo fa migliaia di residenti si sono ritrovati sotto i palazzi del Partito a Canton in segno di protesta contro la costruzione di nuovi moderni inceneritori previsti a meno di un chilometro dal centro abitato della città. Di fronte a migliaia di persone che hanno sfidato le autorità con i loro corpi, i rappresentanti locali hanno cercato di rassicurare i manifestanti affermando che questo inceneritore è super sicuro, pensate un po’: interamente realizzato con tecnologie europee. Un vero e proprio pezzo di Europa in Cina, chiamato inceneritore.
Queste proteste (che richiamano davvero l`Europa, quella di Chiaiano o delle recenti azioni fatte in tuta bianca a Padova) e il coraggio di tanti che mettono in gioco la propria vita contro l`ennesimo disastro ambientale annunciato, sembrano aver ottenuto dal governo il posticipo di un anno della costruzione di questi moderni inceneritori, ovvero, dopo la chiusura dei prossimi giochi asiatici. In un paese come la Cina, il cui ritmo é scandito da incessanti conti alla rovescia, dalle olimpiadi di Pechino 2008 all’expo di Shanghai di maggio 2010 fino ai giochi Asiatici di Guangzhog, c`è forse ancora un attimo per tirare un respiro. Inquinamento permettendo.

Da Copenhagen a Gaza

Comunicato dell'Associazione Ya Basta


Ad un anno dai bombardamenti dal 28 dicembre inizia la Gaza Freedom March per entrare a Gaza dall'Egitto, portare la propria solidarietà alla popolazione civile palestinese, manifestare il 31 dicembre per dire che l'assedio e l'occupazione devono finire.
Alla Marcia partecipano più di 1400 persone provenienti da ogni parte del mondo, anche l'Associazione Ya Basta partecipa.


Da Copenhagen a Gaza
Siamo appena tornati dalle mobilitazioni durante il Cop15 a Copenhagen.
Giornate intense che hanno mostrato con chiarezza le nuove geometrie del potere nel pianeta, con l'accordo siglato da Cina, Stati Uniti, Brasile, India e Sudafrica e accettato da UE e dagli altri paesi.
Di fronte all'evidenza dell'impatto sulla vita di milioni di persone del progredire del cambio climatico non è stata presa nessuna soluzione.

Ma poteva esserci soluzione diversa dentro il vertice?
Insieme a molti altri abbiamo voluto segnare un altro cammino quello che ci ha portati ad affermare che la “giustizia climatica” va costruita dal basso, senza delegare, creando percorsi di indipendenza, di disobbedienza, di conflitto. Una strada non facile ma l'unica percorribile per non restare spettatori passivi. A Copenhagen abbiamo visto e subito un preventivo, assillante, assurdo dispositivo di repressione modellato per cercare di fermare il messaggio della mobilitazione.
Una repressione “moderna” e in stile nordico che però parla il messaggio di un monito globale: non bisogna distrurbare i manovratori.
E questo succede in tutto il pianeta. Ci vorrebbero spettatori passivi di disastri ambientali, di guerre locali, di sfruttamento selvaggio.
Dentro questo scenario complesso e a volte caotico di crisi globale la nostra ricerca guarda alla costruzione di sperimentazioni, laboratori, percorsi che provano a dar voce al protagonismo dal basso, alla costruzione di di indipendenza di pensiero, d'azione.

Per questo, proprio mentre ad Obama che aumenta il contingente in Afghanistan viene dato il Nobel per la Pace, vogliamo partecipare insieme ad altre centinaia di cittadini del mondo alla Gaza Freedom March. La Striscia di Gaza, questa enorme prigione a cielo aperto, continua ad essere uno dei simboli più inaccettabili delle forme del moderno apartheid, delle occupazioni militari.
Una popolazione civile ostaggio dell'impossibile “pace in Medio Oriente” che viene declinata come trattativa continua da rigiocare negli interessi globali, calpestando giorno dopo giorno un pezzo di umanità. Le porte sbarrate di Gaza in ogni parte dei suoi confini sono la rappresentazione inaccettabile di una violazione del diritto ad esistere per ogni essere umano.
Saremo con chi, giungendo da ogni parte del mondo vuole attraversare la chiusura della striscia, entrando a Gaza dall'Egitto, così come eravamo a Copenhagen, insieme a chi prova a partire da se, dal proprio collettivo, dal proprio territorio, dalla propria storia a disobbedire alle ingiustizie e per costruire un futuro diverso fatto di un presente diverso.

Associazione Ya Basta

Il governo egiziano non autorizza la Gaza Freedom March

Siamo determinati a rompere l'assedio
Continueremo a fare tutto il possibile perché si realizzi

Con il pretesto di un aumento delle tensioni sul confine tra Gaza ed Egitto, il Ministero degli Esteri egiziano ci ha informato ieri che il confine di Rafah sarà chiuso nelle prossime settimane. Abbiamo risposto che la tensione c'è sempre al confine a causa dell'assedio, che non ci sentiamo minacciati e che, se ci sono rischi, sono rischi che siamo disposti a correre. Abbiamo anche detto che ormai è troppo tardi per gli oltre 1.300 delegati provenienti da più di 42 paesi per cambiare i loro programmi. Abbiamo entrambi convenuto di proseguire i nostri scambi.
Anche se lo consideriamo un passo indietro, è comunque qualcosa che abbiamo incontrato - e superato - in passato. Nessuna delle delegazioni, grandi o piccole, che sono entrate a Gaza nel corso degli ultimi 12 mesi ha mai ricevuto un' autorizzazione finale prima di arrivare al confine di Rafah. La maggior parte delle delegazioni sono state scoraggiate persino da lasciare il Cairo per Rafah. Alcune hanno avuto i loro pullman bloccati lungo la strada. Ad alcune è stato detto chiaro e tondo che non potevano andare a Gaza. Ma a seguito di pressioni pubbliche e politiche, il governo egiziano ha cambiato la sua posizione e le ha lasciate passare.
I nostri sforzi e i nostri piani rimangono invariati, a questo punto. Abbiamo deciso di rompere l'assedio di Gaza e marciare il 31 dicembre contro l'assedio israeliano. Continuiamo nella stessa direzione.
Le ambasciate e missioni egiziane in tutto il mondo devono sentire la nostra voce e quella dei nostri sostenitori (per telefono, fax ed e-mail) nei prossimi decisivi giorni, con un messaggio chiaro: lasciate che la delegazione internazionale entri a Gaza e lasciate che la Gaza Freedom March faccia il suo cammino.
Avete aderito e vi sieti iscritti per partecipare alla Gaza Freedom March: è stato il primo passo. Adesso, chiamate e scrivete all'ambasciata egiziana a Roma e chiedete ai parlamentari da voi eletti di chiamare a vostro nome. Contattate i media locali per dire che state partendo per Gaza. Poi fate le valigie e venite al Cairo pronti a camminare insieme ai nostri fratelli e sorelle di Gaza.
Aspettiamo di vedervi tutti la settimana prossima.
Comitato organizzatore Gaza Freedom March

domenica 20 dicembre 2009

L'ipocrisia del "Yes, we can" sull'America Latina

Honduras laboratorio per la nuova politica nordamericana nel continente


di Giorgio Trucchi

Indipendentemente da ciò che accadrà durante le prossime settimane e fino al 27 di gennaio, data in cui Porfirio Lobo Sosa, vincitore delle discusse elezioni in Honduras, prenderà possesso di una carica che fino a questo momento quasi nessun paese riconosce, risulta sempre più evidente che quanto successo lo scorso 28 giugno segnerà un significativo passo indietro per il consolidamento della democrazia nel continente latinoamericano.
All'interno di questo contesto non si possono non prendere in considerazione le evidenti responsabilità del nuovo governo nordamericano e della sua offensiva per riposizionarsi all'interno del continente.

Con il colpo di Stato in Honduras, i poteri forti di questo paese che, insieme agli apparati repressivi e ai suoi alleati internazionali controllano l'economia e la politica honduregna, sono riusciti a frenare un processo emancipativo nel quale per la prima volta nella storia dell'Honduras,le forze vive del paese stavano collaborando con il potere Esecutivo per immaginare e programmare un futuro diverso, proiettandosi verso un progetto di Assemblea Nazionale Costituente includente e marcatamente popolare.

Parallelamente, l'Honduras aveva iniziato un percorso per rafforzare l'unità centroamericana e latinoamericana, aderendo al Sistema d'integrazione centroamericano, Sica, a Petrocaribe e all'Alba.

Sicuramente troppo per le forze retrograde del paese e del continente che vedevano minacciati i loro interessi storici e lo status quo mantenuto per decadi grazie alla violenza e alla repressione di apparati militari al servizio dei gruppi di potere e dei loro alleati internazionali.

In questo contesto non devono quindi sorprendere, ma sicuramente sì indignare, le recenti dichiarazioni della titolare della politica estera del governo nordamericano, Hillary Clinton, durante la sua relazione sui rapporti tra gli Stati Uniti e l'America Latina.

"Ci preoccupano i leader che vengono eletti in modo libero e legittimo, ma che poi iniziano a scalfire l'ordine costituzionale e democratico dopo essere stato scelti, il settore privato, il diritto dei cittadini a vivere liberi dalla persecuzione, repressione e di potere partecipare liberamente all'interno delle loro società", ha detto Clinton volgendo il dito accusatore contro il Venezuela, il Nicaragua e, pur senza menzionarli, tutti quei governi che non seguono fedelmente i "consigli" di Washington.

Sarebbe interessante potere domandare alla signora Clinton ed al fiammante Premio Nobel per la Pace, che cosa si è voluto dire con queste parole. O per caso non si sono accorti che in Honduras c'è stato un colpo di Stato e che il Presidente legittimo di questo paese continua a rimanere rinchiuso in un'ambasciata, subendo una costante persecuzione?

"Ciò che mi preoccupa è capire come riprendere la strada giusta (per chi?), in cui si riconosca che la democrazia non è un tema di singoli leader, ma di esistenza di istituzioni forti", ha sentenziato Clinton nel suo discorso.

Come classificherebbe l'amministrazione Obama, che immediatamente ha riconosciuto la legittimità di un processo elettorale spurio, senza osservatori, svolto in un clima di repressione, paura e violenza, in un contesto di rottura costituzionale della quale è stato parte lo stesso Tribunale supremo elettorale, lo stato di terrore in cui vive buona parte della popolazione honduregna che non riconosce l'attuale governo di fatto e che non ha voluto essere complice di questa farsa elettorale, che aveva l'unico obiettivo di legittimare e stabilizzare il colpo di Stato?

Sull'Honduras, la titolare del Dipartimento di Stato ha detto che il suo paese ha lavorato in funzione di "un avvicinamento pragmatico, di principi, multilaterale, che si prefiggeva la ricostruzione della democrazia". Di sicuro nessuno l'ha notato e l'unico risultato cercato ed ottenuto con questo "avvicinamento pragmatico" è stato l'annichilamento di tutti i processi di trasformazione avviati ed i risultati raggiunti negli ultimi anni, posizionando strategicamente le proprie pedine, prima su tutte il presidente del Costa Rica, Oscar Arias, per prendere il controllo della situazione a scapito degli sforzi fatti dal primo momento dalla Oea, Onu, i paesi del Sica, dell'Alba e dalle altre istanze del continente latinoamericano.

Per completare la farsa montata dal governo di fatto, ora gli Stati Uniti stanno chiedendo che venga messo in pratica il fumoso Accordo Tegucigalpa-San José, installando un governo di unità e riconciliazione che non prevede la presenza di Manuel Zelaya e nemmeno quella dei suoi ministri e consulenti, la maggior parte dei quali costretti a vivere in esilio. Allo stesso tempo, il governo di fatto di Roberto Micheletti ha inviato al Congresso Nazionale un disegno di legge di amnistia, per "ripulire" l'immagine di chi ha violato sistematicamente i diritti umani durante gli ultimi cinque mesi.

Una nuova pantomima che si prefigge l'obiettivo di legittimare in modo definitivo il colpo di stato, e che pretende di creare un precedente che sia esempio per il resto del continente. Un manuale del perfetto colpo di Stato stile "ventunesimo secolo", che invia un messaggio molto chiaro su quale sarà la politica dell'amministrazione Obama per l'America Centrale e per il Sud America.

Non una guerra aperta e diretta come in Iraq ed Afghanistan, e nemmeno attraverso minacce come la riattivazione dopo 50 anni della famigerata IV Flotta nell'Oceano Atlantico e nei Caraibi, l'installazione delle basi militari in Colombia o con parole dirette come quelle che Hillary Clinton ha rivolto contro chi oserà iniziare o mantenere relazioni d'amicizia con l'Iran. In questo caso si tratta di una guerra subdola, di "bassa intensità", muovendo i fili più infimi della diplomazia e delle catene di agenzie preparate per infiltrare paesi, governi, processi elettorali e movimenti.

Una "guerra necessaria e giustificabile", direbbe il presidente Obama.

La Resistenza: un bastione necessario

Se c'è una cosa che i poteri forti e gli stessi Stati Uniti non avevano calcolato è stata sicuramente la grande capacità di reazione e resistenza del popolo honduregno.

Dopo il 27 di gennaio, l'Honduras dovrà necessariamente voltare pagina, entrando in una nuova tappa della sua tormentata storia. Concluso il periodo presidenziale di Manuel Zelaya, sarà il turno di Porfirio Lobo.

Un governo molto debole, in mezzo ad una violenta crisi economica, con uno scarso riconoscimento a livello internazionale e ostaggio dei principali autori del golpe del 28 giugno, Stati Uniti inclusi. Proprio in questi giorni Lobo sta disperatamente cercando di convincere Roberto Micheletti - e più di lui chi davvero manovra i fili dietro il Presidente fantoccio - ad abbandonare la carica prima del suo insediamento. Spera così di essere un po' più presentabile agli occhi della comunità internazionale.

Di fronte a questo scenario, quella che è stata la Resistenza contro il colpo di Stato, oggi convertitasi nel Fronte nazionale di resistenza popolare, Fnrp, dovrà prepararsi per entrare in questa nuova tappa della lotta e le difficoltà sono già evidenti. La costante e selettiva repressione denunciata a livello internazionale dalle organizzazioni dei diritti umani è un chiaro segnale di quanto i settori retrogradi tradizionali temano questo processo.

Lo scorso 4 e 5 dicembre 2009, delegati e delegate di organizzazioni provenienti da tutto il paese hanno iniziato una storica seconda fase della lotta, per rafforzare il processo organizzativo in vista della creazione di una forza politica alternativa ai partiti tradizionali, capace di condurre il paese verso una Assemblea Costituente.

Durante queste due giornate di lavoro sono state create varie commissioni e gruppi tematici che hanno iniziato a preparare il lavoro per i prossimi mesi. Al termine dell'attività, il dirigente sindacale e coordinatore del Blocco Popolare, Juan Barahona ha spiegato che "la prima fase della lotta è finita ed ora dobbiamo lavorare su un progetto ideologico e politico, affinché tutti i settori organizzati conoscano a fondo la strada da percorrere insieme.

Dobbiamo conoscere a fondo questo percorso ed abbiamo bisogno di una metodologia che ci permetta di arrivare a tutti i settori che si sono schierati contro il colpo di Stato. Una strategia come quella della lumaca (caracol), dal basso verso l'alto, e creare un movimento che faccia tremare i settori golpisti. Dobbiamo approfondire questa nuova strategia - ha continuato Barahona - e proporci di prendere il potere pacificamente prima o durante il prossimo processo elettorale.

Per fare ciò dobbiamo lavorare e con molto impegno. Non possiamo dormire sugli allori, ma al contrario dobbiamo mettere questo progetto al primo posto delle nostre priorità", ha concluso.

Una nuova tappa della lotta del popolo honduregno è iniziata.

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!