giovedì 10 dicembre 2009

Oltre il Bosforo

A Dyarbakir, in viaggio con la solidarietà



I viaggi, soprattutto i veri viaggi, sono incontri: di volti, di luoghi, di parole, di attese….

La Turchia è lontana, il Kurdistan ancora di più.

Gli aeroporti sono veramente “non luoghi”: tutti uguali, le stesse luci, la stessa lontananza da ogni rapporto possibile. E, tra un “non luogo” e l’altro, il tempo non ha alcun rapporto con lo spazio.

Gli unici momenti di sapore e profumo di vita sono gli incontri con gli altri compagni: altri luoghi, altre storie, altre vite che sanno di pensieri e di azioni condivise in altri tempi e altre giovinezze.

E, improvvisamente, sei a Diyabakir: hotel, stanza, cena allegra e ricca di risate. Adesso, davvero, si può cominciare.

Giovedì, 19 novembre – Tribunale di Diyarbakir

Al mattino, con il sole, si entra in tribunale. Formalità e accoglienza inaspettata: ci fanno accomodare nella sala degli avvocati. Gentilissimo, il segretario dell’Ordine, ci offre ripetutamente cay. Si informa su di noi. Ci presenta una giovane avvocata responsabile dell’associazione dei “diritti umani”.

Veniamo a scoprire più processi a carico di minori e giovani.

La confusione nel tribunale è da mercato: il processo al bambino (per il quale siamo venuti) è spostato alle ore 14.00.

Chiacchiere, sorrisi, curiosità. Improvvisamente, in un giovedì qualunque, siamo entrati nella vita processata. Fuori dalla stanza degli avvocati siamo travolti da un fiume in piena di parenti e amici di giovani e studenti sotto processo e in carcere.

E così, ci confrontiamo con “propaganda sovversiva”, “attività sovversiva”, giovani in galera. “Sostegno al terrorismo”, “interruzione di pubblico ufficio” per gli studenti che hanno lottato.

Parenti, mamme, padri, occhi curiosi e appassionati.

Non sembra loro vero che siamo qui ad ascoltare. Un vero incontro con la vita, la protesta, l’affetto. Parole di tortura su ragazzi e ragazze in carcere.

A proposito di “ascolto” : la vita si presenta in storie che hanno parole, volti, relazioni, speranze. E storie assurde di ordinaria repressione.

Poi vengono liberati due ragazzi, e sono abbracci, baci, sorrisi e sguardi importanti come tutti gli attimi di vera vicinanza.

Le donne, apparentemente sempre in secondo piano, ma subito ricche di affetto e sorelle delle donne del nostro gruppo. E’ chiaro che rappresentiamo l’occasione per essere “riconosciuti” e vivi al di là delle porte di casa e della stessa Turchia. Così, succede di essere importanti per il solo fatto di esserci.

Poi il gruppo si riunisce per mettere insieme pensieri e parole.

E le nostre avvocate tentano di mettere un po’ d’ordine nei nostri pensieri e nelle nostre conoscenze.

Dopo un brevissimo intervallo, per tirarci su con un raggio di sole caldo, rientriamo nel bunker del tribunale.

Facce giovani e occhi puliti di studenti in lotta, e presenti al processo dei loro compagni.

Ci dicono che non hanno paura, che hanno già pagato, ma che continueranno……

E noi ascoltiamo …..questo orgoglio di vita e di futuro…

Entriamo nell’aula del processo: giudici, avvocati, uno schieramento di polizia, tanti parenti, tanti amici, padri, madri, sorelle. Sono contenti che siamo qui, e ci lasciano i pochi posti a disposizione. Vale davvero esserci, per una volta.

Poi, nel silenzio, la voce dell’imputato….e tanti volti seri in apprensione e affetto. Le donne con occhi profondi e pieni d’amore.

Sono presenti generazioni diverse….donne con il velo e senza velo: grandi famiglie, grandi contrasti, un mondo in movimento.

Tutto si svolge in un silenzio irreale: una sospensione della vita vera e, probabilmente, anche della verità.

La maggioranza degli avvocati sono donne: un senso suo ce l’ha!

Due giudici dormono, uno lotta con il sonno, l’altro conduce il processo con una rapidità degna di miglior causa.

Al termine, il desiderio si fa assoluzione: applausi, urla, pianti, abbracci. Noi ci sentiamo portafortuna.

Poi la tristezza: si è capito male. Tutti in galera.

E’ proprio vero!

Ci sono tante organizzazioni, gruppi, ma la vita continua a scorrere apparentemente casuale: un gruppo di stranieri in un tribunale diventa un’occasione per parole, incontri, impegni.

Una cosa è la politica, una cosa la vita, i volti, gli incontri, una stretta di mano.

E che impressione l’aula con soldati e poliziotti schierati.

Infine, entriamo per un ulteriore processo, sempre contro studenti universitari. Brevissimo. Tutto rinviato a gennaio, con gli studenti che restano in galera (perderanno, intanto, l’anno scolastico e la possibilità di studiare).

I ragazzi escono ammanettati, e sono teneri e commossi, i saluti silenziosi, con le mani che parlano di amicizia e condivisione, e di giovinezza orgogliosa.

La giornata si conclude all’ IHD, l’associazione per i diritti umani. Una sede bella, pulita, tutti loro molto gentili. Quindi l’incontro con Hatip Dicle , un deputato che ha passato dieci anni in galera.

Ascoltiamo parole di prudenza, impegno, indipendentismo, federalismo.

Ascoltiamo attenti e ci guadagniamo l’impegno per sabato a fianco delle famiglie degli “scomparsi”.

Poi, nel buio della sera, cerchiamo di mettere un po’ di distanza da questo turbine di vita, e si va al bazar: bellissimo, un pezzo di Lucca in terra di Turchia. Qualche compera, e il cuore e la mente pieni di volti, di storie, di nostalgia di futuro.

Piccole note:

1. Il 4 aprile 2009 molti giovani si sono radunati ad Amara, nel distretto di Urfa, per festeggiare il compleanno di Abdullah Ocalan, esternando la loro solidarietà con un lungo applauso. I militari hanno sciolto la manifestazione sparando sulla folla. Sono stati uccisi due ragazzi: uno di essi era studente dell’Università di Diyarbakir.

Due giorni dopo, all’Università, si è svolta una manifestazione di protesta, e la polizia, nuovamente, è intervenuta, con la scusa che i giovani portavano delle kefie; ne sono stati arrestati una trentina.

Oggi, molti di essi sono ancora detenuti.

2. Il Tribunale che giudicava questi giovani kurdi è la Corte d’ Assise, competente per i processi associativi contro lo Stato: è costituita da tre giudici che, diversamente dal passato, non sono dei militari.

L’accusa è, quindi, di associazione terroristica e propaganda sovversiva.

3. Mehmet Aydin, di venti anni, oggi è stato liberato, non cosi’ i suoi compagni, Talat Ucar,Yoldas Firat, Mahsum Akbas, Cihan Olmez, Oktay Olmez, Cihan Bahadir, che sono rimasti in carcere dopo che i loro processi sono stati rinviati.

La stessa Corte giudica anche i minorenni. Oggi erano in tre: Gengiz Gaysac, Kutbettin Yel, Vedat Demir. Di questi, solo Gengiz Gaysac era in libertà ed oggi ne è stato liberato anche un secondo. E’ rimasto in carcere Kutbettin Yel e il suo processo sarà definito il 31 dicembre.

Questi ragazzi erano in carcere dal febbraio scorso.

4. La condizione dei minori, in Turchia, è fuori da tutti i parametri europei, soprattutto per quelli accusati di reati politici: mentre per i detenuti comuni esiste un carcere separato, per i minori, accusati di sovversione, il carcere è lo stesso che per gli adulti; al limite, e in casi eccezionali, vengono messi in una cella unica. Attualmente occupano una cella in 32.

Il processo è svolto dagli stessi giudici dei maggiorenni e le pene sono applicate con i medesimi criteri, senza considerare le condizioni di vita e familiari.

Il rappresentante del coordinamento di diverse associazioni, una piattaforma che risponde al nome di “Appello per la giustizia minorile”, ha riferito che al vaglio del governo c’è ora una proposta di legge alla quale hanno chiesto di inserire delle modifiche sulla procedura del processo e sulle condizioni di detenzione. Oggi sono circa 3.000 i minori sotto processo e 270 sono quelli incarcerati. Questi dati li desume l’Associazione, poiché i dati del Ministero della Giustizia non distinguono i minorenni dai maggiorenni e fra i vari tipi di reato.

E’ necessario descrivere, per sommi capi, come viene affrontato il processo minorile in Europa.

Qui da noi, i tribunali dei minorenni hanno una composizione che implica la presenza di educatori, psicologi, esperti dell’infanzia, nonché l’ausilio di assistenti sociali che contribuiscono alla valutazione dei giudici per la concessione di riti alternativi e/o di pene alternative, quali la rieducazione con l’imposizione, al posto di una pena detentiva, di lavori socialmente utili, svolti dal minore presso Cooperative o Enti Locali. E’ anche previsto il cosiddetto “perdono giudiziale” per chi non ha mai commesso reati e pure la “messa alla prova” che prevede la possibilità di non subire alcuna condanna se per un periodo - deciso dai giudici - il minore lavorerà o studierà sotto il controllo del servizio sociale. Queste sono forme di tutela dei minori totalmente assenti in Turchia.

5. Hatip Dicle ha scontato dieci anni di carcere in Turchia, unitamente alla deputata kurda Leila Zana.

Ora è libero da 5 anni e alla domanda su quale differenza vede oggi rispetto all’epoca del suo arresto , ha risposto che prima eravamo solo all’inizio della lotta del popolo kurdo; oggi, dopo vent’anni, si può discutere liberamente di ipotetiche soluzioni con altri parlamentari; c’è solo un manipolo che cerca di osteggiarli quando parlano, mentre gli altri si sono adeguati alla loro presenza in Parlamento.

Ci dice che in Parlamento c’è tuttora una soglia di sbarramento del 10%.

Per andare oltre questo tetto, occorre avere 4.500 mila voti, per adesso ce ne sono solamente 2.500 mila.

Se la soglia di sbarramento fosse della metà - del 5% - il Dtp avrebbe portato in Parlamento 60 deputati!

Si è decisa la partecipazione con candidati “indipendenti”, ma, in questo caso, per avere un deputato occorrono 60 mila voti.

Per esempio, a Diyarbakir, c’era la possibilità di eleggere 10 deputati. Se non ci fosse stata la soglia di sbarramento, il Dtp avrebbe conquistato 8 deputati, non 4, come invece è capitato.

Pertanto, la proposta è quella di ridurre al 5% la soglia di sbarramento.

I detenuti in Turchia sono circa 115 mila, compresi i detenuti accusati di reati comuni. Circa 15 mila sono i “politici”, di cui il 95% sono kurdi; anche il restante 5% è molto vicino ai kurdi.

Tra questi, 39 detenuti politici kurdi sono malati gravi e prossimi alla morte.

I rapporti con il Sud Kurdistan – Nord Iraq - sono buoni. Barzani e Talabani hanno detto che non attaccheranno mai il Pkk e si sono offerti di fare da intermediari tra il governo turco e i kurdi di Turchia, per porre fine alla guerra.

Esiste una proposta di “autonomia” rispetto allo stato centralista di Turchia.

I kurdi sostengono che Ministero degli Esteri, della Difesa e degli Interni possono rimanere prerogativa dello stato centrale, mentre rivendicano piena autonomia per quanto riguarda le singole province e municipalità.

Venerdì, 20 novembre – Incontro con i “gruppi di pace” presso la sede dell’IHD di Diyarbakir

Sono presenti all’incontro Mehmet Serif Gensdal (portavoce), Ayse Kava (una ragazza proveniente dal campo profughi di Mahmura), Lutfi Tas (l’anziano), Aygul Biday (facente parte del primo gruppo di pace arrivato nel 1999).

Alle 10,00, puntuali come cronometri, siamo già nel salone dell’IHD. Di nuovo in cerchio, tra battute e parole in libertà: c’è tanta emozione, l’emozione di incontrare 4 guerriglieri in missione di pace verso Ankara ( due uomini e due donne ).

Hanno volti pieni di storia e sguardi lontani e intensi: sarà per la loro storia e le loro scelte. O, forse, un po’ per il nostro sguardo che sa di una attenzione carica di storia e di vicinanza ai combattenti. O forse, più semplicemente, perché sarà vero che “per vincere si corre da soli, per andare lontano bisogna essere in tanti e solidali”, senza lasciare nessuno indietro.

L’apertura da il segno di questo incontro: ci ringraziano. Ci ringraziano per essere lì e, con noi, il popolo italiano.

Poi, con una voce quieta, uno di loro ci spiega la loro lotta per la pace e per l’autonomia del popolo kurdo.

Le parole ci portano subito all’iniziativa dei “gruppi di pace”, due, che, nel 1999, sono partiti dai monti del Kurdistan e dall’Europa: sono stati condannati a svariati anni di carcere; due di loro sono ancora dietro le sbarre, uno è morto. Gli altri sono stati liberati e continuano il loro cammino.

Poi, parole inaspettate per chi guarda da lontano: “Noi stiamo continuando, perché crediamo nella pace. Quando siamo arrivati, abbiamo visto la felicità del popolo per la pace. Ci hanno abbracciato e, con noi, hanno abbracciato la pace, la libertà e anche i loro figli”, parole inaspettate dalla bocca di “guerriglieri”. Ma forse siamo andati al di là dei luoghi comuni, della storia raccontata dai giornali, al di là delle semplificazioni che rendono il mondo inafferrabile a chi non ha altro potere che la propria intelligenza e la propria coscienza.

Poi, Gensdal ci spiega che il grande successo del DTP alle amministrative è una potente sfida e una nuova occasione per la pace. Anche se il governo turco non ha pubblicato, né risposto al documento della Road Map di Abdullah Ocalan.

Ci precisa che il PKK ha sospeso le azioni armate dal 13 aprile di quest’anno, ma il governo turco ha risposto con una grande azione di repressione e di distruzione dei villaggi, e continua a incarcerare i militanti del DTP.

Mentre parla di “apertura Kurda”…. poi di “apertura democratica”…. quindi di “apertura all’unità nazionale”, il governo, nella sostanza, continua le azioni contro i villaggi e ad utilizzare sistematicamente la tortura.

Ci sottolinea che la stessa Unione Europea è intervenuta contro l’utilizzo della tortura.

In sintesi, il governo turco, a partire dalle elezioni di 8 mesi fa, ha cambiato il linguaggio e il tono nei confronti dei Kurdi, ma la sostanza e la politica quotidiana verso i Kurdi non è cambiata.

E i fascisti, intanto, hanno preso l’iniziativa e organizzato le famiglie dei militari turchi caduti sulle montagne.

Un quadro forte e complesso che ci travolge e mette in discussione ogni linearità di pensieri semplici: e ci invita ad agire, ad essere concreti, vicini. Forse, paradossalmente, ci porta a pensare che , veramente, il fare è la vera politica e la vera poesia, e che è il fare a costruire la differenza ed il futuro.

Ci si perde anche un po’ nell’Europa delle autonomie e nelle sottolineature della lotta per l’identità culturale.

Poi una voce di donna che parla solo Kurdo, Ayse Kava, ed è improvvisa e inaspettata, una voce e un pensiero che si fa vita, fame, morte, diversità. Ed è emozione, e un’ altra dimensione della politica e dell’impegno.

A portarci in un’altra dimensione ulteriore è poi la voce del combattente più anziano, Lutfi Tas. Ed è una voce che sa di “lontananza”: che “distingue” e che colloca oggi il Kurdistan nel quadro e nelle falsificazioni internazionali e “capitalistiche”. Ed è la voce che sostiene il “dialogo” senza nessun “pentimento”.

Giunti al termine restano le fotografie, i sorrisi, gli abbracci finali a significare chissà: solidarietà, affetto, forza della militanza, o anche, semplicemente, la forza dell’incontro e dell’ascolto. Che rendono le storie di tutti i partecipanti ricche di senso e preziose. Per sé e per gli altri.

Poi un cammino nel sole, a sistemare pensieri e parole. E sorrisi.

20 novembre 2009 – Incontro con la municipalità di Sur

Poco dopo siamo nel municipio di Sur, una delle sei sottomunicipalità di Diyarbakir: incontro con il vicesindaco e assessore alla cultura. Un incontro simpatico: e siamo al terzo cay della giornata!

Ci tiene a sottolineare che la municipalità ha i bambini come interesse forte. E conquista subito la nostra simpatia. Poi ci tiene a precisare che non ci sono bambini di strada. Al mattino vanno a scuola, al pomeriggio qualcuno lavora o vende in strada. E’ aumentata anche la percentuale delle donne che frequentano la scuola: altra buona notizia.

Resta un problema di sfruttamento dei bambini per la prostituzione, la droga, la delinquenza… Insomma, c’è impegno, ma ancora una lunga strada da percorrere.

Poi, quasi per riportarci tutti alla cruda quotidianità, il vicesindaco riceve una telefonata: qualcuno lo informa che sua figlia, in galera, non potrà dare l’esame che aveva chiesto di poter sostenere. L’università ha risposto che “non è possibile”.

Il vicesindaco si ferma un attimo, serio. Noi non abbiamo parole, restiamo attoniti: è la differenza tra ascoltare parole e pensieri e imbattersi nella vita concreta e nelle ingiustizie che non fanno notizia, ma che segnano il respiro e la quotidianità.

Lui, respira profondo e riprende a parlare: ci dice che hanno un vasto intervento verso i bambini e i giovani. Ci parla delle “Case per donne” organizzate dalla municipalità, dove si svolgono corsi di diverso tipo e che, in queste strutture, c’è anche la “scuola materna” per i più piccini.

C’è, inoltre, un “Consiglio dei bambini”, tra i 9 e i 15 anni.

Stimolato da alcune nostre domande, ci mostra le immagini di un documento multimediale sui bambini e una serie di attività che hanno realizzato: si ritorna ai sorrisi.

Ci informa, inoltre, che la municipalità gestisce ambulatori medici assolutamente gratuiti; mentre gli ambulatori statali sono a pagamento e richiedono il possesso della “carta verde” per ricevere il servizio. Per non dimenticare dove siamo.

Quindi sono saluti, fotografie, sorrisi e mille pensieri. E noi rientriamo nel sole, verso nuovi incontri.

20 novembre 2009 – Incontro con le “Madri della pace”

E sono incontri che ci conducono, veramente, da un’altra parte: siamo nella sede delle “madri per la pace”, madri di detenuti. Un appartamento anonimo in un palazzo anonimo.

Portano vestiti tradizionali, velate da un elegante velo bianco, con occhi profondi, sguardi che sfuggono, con una vita a cui non sono sfuggite.

Siamo seduti in cerchio in una stanza piccola. Parla una per tutte.

Le parole dicono di carcere, dei criteri di precedenza per i sostegni economici. E sono pietre quando dicono di una famiglia con il padre in carcere da 17 anni.

La portavoce ha un parlare netto e deciso, la forza della vita e della resistenza. Nonostante storie inguaribili e una lotta quotidiana per la sopravvivenza che non si separa dalla fiducia nel futuro: sono molto fiduciose nella strategia di pace e nei “gruppi di pace”.

L’atmosfera è densa come tutto ciò che non si solleva con parole e pensieri di futuro ma che fa i conti, quotidianamente, con il respiro e il pane.

Sono sempre più crude nei racconti: ed è la prima voce che afferma che, dopo la vittoria alle amministrative di marzo, la situazione è peggiorata perché hanno incarcerato molti dirigenti del partito e di diverse associazioni.

E’ proprio vero che ciascuno narra la “sua” storia che si fa vita, respiro, lacrime, mentre la politica racconta una storia che non sempre sa di vita.

Chiudono, senza nessuna enfasi, dicendoci che hanno fatto, con le madri dei soldati turchi, una cena ed una conferenza stampa.

C’è proprio la storia e le storie.

Poi, proprio come nella vita, sono abbracci, sorrisi, foto; e le nostre compagne vengono velate e caricate di sorrisi e abbracci. Non c’è nulla di formale: è la vita che scorre e crea relazioni che sanno di condivisione.

Noi lasciamo loro tutto il materiale e vestiario che ci siamo portati dall’Italia: a proposito della vita e della quotidianità.

E siamo nuovamente sulla strada.

20 novembre 2009 – Incontro con Tuhad Fed

Alle 17.00 entriamo nei locali della “Associazione dei Famigliari dei detenuti politici”. Altre donne, altri volti, occhi forti e sorridenti. Altre storie di anni di carcere e di lotte. Nuove parole circa la repressione costante del governo turco. I dati: circa 4.000 detenuti del PKK e del DTP ( 700 nell’ultimo anno ).

Un po’ di discorsi tecnici sulla possibilità di intervento della Croce Rossa Internazionale per visitare i detenuti malati gravi.

Si ritorna anche ai bambini: più di 200 minori in carcere per “appoggio al terrorismo”. Mancano le parole.

Al termine Antonio distribuisce le somme raccolte dall’associazione “Verso il Kurdistan”, preciso come un bancario.

Siamo giunti alla fine della giornata e, nel buio, ci mettiamo in marcia verso l’albergo.

Ma, una volta entrati, non si esce mai da questa storia di mille storie: dopo una veloce cena, alle nove dobbiamo essere in albergo per un ulteriore incontro. Un padre e consigliere comunale di un paese vicino, ci tiene a parlarci della figlia, studentessa, in carcere da 26 mesi.

Ci parla di torture e di un timpano sfondato.

Ancora una volta, non ci sono parole. E la stanchezza ci sta piegando.

Poi è la volta di un altro padre con un figlio in carcere per 4 mesi – ora messo in libertà – dopo le manifestazioni del febbraio 2008. Ci tiene a dirci che, nel Kurdistan, ci sono imam democratici che sono per il progresso.

Che dire? Già ci mancavano le parole! Ora siamo travolti. Sarà meglio abbandonarci al sonno.

21 novembre – Manifestazione con le famiglie degli “scomparsi”

Al mattino, appuntamento all’associazione per i diritti umani ( IHD ). Per partecipare all’incontro settimanale dei famigliari degli “scomparsi”. Non vogliamo mancare.

C’è un po’ di confusione: non sanno come accompagnarci. Andremo autonomamente con un interminabile viaggio, attraverso l’intera città, sino al monumento ai caduti per l’attentato compiuto in quel luogo, nel 2006, dai “Lupi grigi”.

Arriviamo appena in tempo: un centinaio di persone soprattutto donne, madri, mogli, sorelle di persone scomparse.

Chi conduce la manifestazione sottolinea la presenza di un gruppo di italiani: uno sguardo collettivo ci avvolge. Vale la pena esserci.

Poi cala un profondo silenzio, tutti immobili, in piedi e seduti a terra. Quasi tutte hanno davanti a sé la foto di uno “scomparso”. A terra: due striscioni. In uno, un lungo elenco di nomi di persone scomparse, nell’altro i loro volti.

Siamo ai bordi di una grande strada, ma quello spazio, denso di memoria e di vite spezzate, sembra lontano da ogni rumore e da ogni distrazione: un vero urlo contro l’ingiustizia e il dolore che l’accompagna.

Poi si rompe il silenzio e l’immobilità, e sono strette di mano, sorrisi, ringraziamenti, abbracci e tante fotografie. Sì. E’ valsa proprio la pena esserci.

Prendiamo un autobus, si ritorna verso l’albergo: questa sera si parte per Istambul e ci sono le mille azioni che accompagnano la preparazione dei bagagli, la ricerca di ultimi oggetti, ricordi….

Arrivati sulla grande piazza però ….. c’è qualcosa di strano: un folto gruppo di donne. Giovani, anziane, qualcuna con abiti tradizionali. Siamo incuriositi, chiediamo: è un raduno e manifestazione per l’emancipazione e i diritti delle donne. Si chiacchiera tranquillamente, non c’è la minima tensione: un bella giornata di sole che illumina i volti e le parole. Si avvicina una giovinetta, vende braccialetti artigianali naturalmente con i colori della bandiera kurda, tanto per non dimenticare. Compriamo tutti i braccialetti e, in più, anche tutte le collanine che la ragazza ci offre. E’ chiaramente stupefatta e incredula: si allontana nella folla. Noi torniamo in albergo e lasciamo le donne a chiacchierare in piazza.

Si mangiucchia qualcosa, alcuni riposano e chiacchierano nella hall dell’albergo.

Poi, improvvisa, in un giorno di chiacchiere e shopping, una tempesta di sorrisi e di ritmi gridati: le donne per la loro emancipazione e la democrazia. Ci accorgiamo che è in atto un corteo: le donne sono partite con striscioni, centinaia di bandiere, slogan ritmati, a passo veloce, con tanti sorrisi e un evidente orgoglio di essere in piazza.

Ci precipitiamo fuori, armati di macchine fotografiche e telecamere. C’è una vera e propria aria di festa, nessun nervosismo. Ma , appena lasciata la piazza, e imboccata la strada del bazar, ecco la polizia che sbarra la strada e blocca la manifestazione. Una doppia fila di giovani poliziotti con casco, scudi, manganelli, alcuni con lancia lacrimogeni, un idrante: sembrano tranquilli però ,e non c’è aria di conflitto.

Il corteo si ferma contro il cordone dei poliziotti e continua imperterrito e tranquillo a scandire slogans. Due organizzatrici e una parlamentare del DTP, tra i poliziotti e le manifestanti, rilasciano una lunga intervista ad un gruppo di giornalisti.

Noi sembriamo un’ agenzia stampa e scattiamo centinaia di foto: volti sorridenti e ritmi allegri, i giovani poliziotti continuano a sembrare assolutamente tranquilli.

Poi le donne si siedono e, instancabili, continuano a lanciare slogan ritmati. Si chiacchiera con diverse persone, i giovani attaccano bottone: è chiaro che la nostra presenza è importante e fonte di curiosità e interesse da molti punti di vista. Chissà?! Forse è una apertura alla possibilità, all’altro, alla distanza, alla differenza, che seduce a diversi livelli soprattutto i giovani. E certo anche politica, quella più umana.

Poi, a sottolineare i ritmi cantati e urlati dalle donne, un gruppo di giovani uomini non resiste: e si lancia, in una danza allegra e gagliarda. Applausi.

Infine, dopo qualche ora, veramente donne: quando finiscono in realtà non finiscono. Il sit-in termina: saluti, ci regalano qualche bandiera, ancora sorrisi, si riavvolgono gli striscioni. Persino i poliziotti smobilitano. Le donne sembrano defluire verso la piazza. E invece no: un folto gruppo di donne, a ritmo quasi di corsa si ricompatta e vola verso un giardino vicino al tribunale.

La polizia capisce in ritardo, rincorre. Adesso riconosciamo un nugolo di poliziotti in borghese che fotografano e indicano questa o quella donna. Una donna parla ma non capiamo un accidente, poi ancora qualche ritmo/slogan lanciato al vento e alla città.

Adesso, tra le prime ombre della notte, è veramente finita: e sono saluti e ancora ringraziamenti.

E’ una cosa a cui non siamo abituati: essere ringraziati per il fatto di esserci. Ed essere solidali e testimoni.

Proprio un’altra storia.

22 novembre 2009 – incontro con Guler Zere, libera, nel quartiere di Armutlu

C’è poi il giorno che chiude la storia e l’avventura: ed è il tempo e l’emozione che non ti aspetti, come quando ti imbatti nel segreto di azioni, parole e pensieri che ti sembrano scontate.

Comincia con abbracci e sorrisi, parole di arrivederci, impegni a ritrovarsi e a non dimenticarsi: Alfonso, Manuel e le quattro ragazze di Roma prendono il volo e ci lasciano. Restano però ad accompagnarci la loro allegria e le loro parole sbarazzine, insieme all’entusiasmo da adolescenti in lotta permanente. Indimenticabili.

Poi ci imbarchiamo per l’ultimo impegno: andremo a incontrare e salutare Guler Zere, una compagna gravemente ammalata.

Un lungo percorso in tram e autobus: chiacchiere, stupore per una città immensa e bellissima, a metà tra il cielo e il mare, tra presente e futuro. Chiacchiere da fine viaggio, sorrisi e confidenze.

“Ricordiamoci di comprare dei fiori !” Ripetuto tante volte… che non l’abbiamo fatto: lassù, tra quelle case ai confini di un altro mondo, non ci sono fiorai. Siamo ad Armutlu, un quartiere rosso e militante e lo si capisce subito, dagli incontri e dai sorrisi, e dal modo con cui siamo accolti.

Per Guler, viriamo su frutta colorata e dolce.

Intanto si avvicinano compagni e curiosi: saluti, parole incomprensibili e… offerta di mandarini. Tra strette di mano e sorrisi si va. Tra case che non nascondono la loro origine di baracche, ma belle, pulite, e più che dignitose.

E sempre, e ancora, saluti, strette di mano, sorrisi: si ha proprio la sensazione netta di essere entrati in un territorio “altro”. Persino foto e saluti a due giovani sposi - e ad una coppia di suonatori di strada che li accoglie - che si avviano, strombazzando, verso una nuova avventura e un nuovo inizio.

Poi, finalmente, in una bella giornata di sole, arriviamo a casa di Guler Zere: una casetta con giardino, tra il verde. E’ un momento delicato: entriamo? non entriamo? Entra solo qualcuno?

Poi, tutti ci togliamo le scarpe: siamo dentro.

Dalla porta della sua stanza, la vediamo: bella, giovane, con un sorriso aperto. Ci saluta con affetto e ci travolge con il suo sorriso.

Non riusciamo a trovare parole. Vuole una foto: non esitiamo. Due di noi entrano ad abbracciarla: e sono ancora sorrisi, altre foto, e le mani che si fanno complicità, riconoscimento, promessa, impegno e desiderio di futuro.

E quella frase di Antonio: “Ti volevamo portare dei fiori, ma non li abbiamo trovati.”

E la sua risposta, accompagnata da un sorriso che entra profondo in ciascuno di noi: “ Voi non avete bisogno di portare i fiori; ho preso i fiori dal vostro cuore”.

E’ più di un atto di poesia! E’ un riportarci a ciò che siamo prima di ogni impegno politico: uomini e donne. Uomini e donne che si riconoscono come tali. E’ molto di più della solidarietà e della condivisione politica.

E’ ritrovarsi, improvvisamente, in quel punto in cui la tua vita, i tuoi pensieri, il tuo corpo, le tue parole, la tua emozione, il tuo impegno, i tuoi sogni si ritrovano in un sorriso.

Grazie Guler!!

Poi non ci resta che tornare a casa. Con il cuore e pensieri che sanno di futuro.

Nota

Guler Zere, 37 anni, era una guerrigliera del DHKC-P, una formazione della sinistra messa fuorilegge dallo Stato, che operava sulle montagne intorno a Dersim.
Arrestata, è stata condannata all’ergastolo ed è in carcere da 14 anni.

“Aveva un rigonfiamento ad un dente – ci dicono - e il dentista del carcere le ha diagnosticato un ascesso, per cui le ha prescritto un’aspirina e degli antibiotici”.

Prima di arrivare dal dentista, ci sono voluti sei mesi di richieste e di insistenze, in quanto la direzione del carcere non accordava l’autorizzazione!
In seguito, visto che il gonfiore permaneva, Guler ha chiesto di essere portata in ospedale. Anche qui, l’attesa è stata lunga, la direzione del carcere ha accampato molte scuse: non c’era il furgone disponibile, non si trovavano posti liberi… Alla fine, quando è arrivata in ospedale, le hanno diagnosticato un tumore!

Il procuratore ha autorizzato il padre ad incontrarla per quindici minuti a settimana e, solo recentemente, ha riottenuto la libertà.

martedì 8 dicembre 2009

Copenhagen - Al via il vertice sul clima


Tutti i riflettori della stampa internazionale sono puntati sull'apertura del Vertice dell'Onu sui cambiamenti climatici che si è svolta ieri nella città di Copenaghen. Un vertice che nasce nel solco delle contraddizioni della crisi climatica e energetica e si profila come un fallimento dal suo avvio. Nessun trattato verrà probabilmente siglato a conclusione del vertice, solo vaghe promesse che i diversi paesi faranno sulla riduzione delle emissioni di CO2.

La verà novità rappresentata da questo evento sono le energie che i movimenti in tutto il pianeta stanno sprigionando in partenza per la città della sirenetta. Per affermare che l'unica inversione di rotta possibile è quella che in basso i movimenti sociali stanno cercando di costruire giorno dopo giorno.

Decine di migliaia sono gli attivisti in marcia in queste ore per partecipare alla settimana di contestazioni, mobilitazioni e azioni dirette che si terranno dall'11 al 18 Dicembre. Diverse centinaia gli attivisti dei centri sociali italiani con gli zaini ormai pronti.

Intanto ieri si è svolta anche l'inaugurazione del Klima Forum, uno spazio di discussione e analisi costruito dal basso, con l'intervento di Naomi Klein.

Riportiamo l'articolo dal sito del Klima forum:

Last chance to save the world says Naomi Klein

Speaking at Klimaforum’s opening ceremony in Copenhagen Naomi Klein expressed her doubt whether an ambitious deal would be made at the Bella Centre. “The Bella Center is the biggest case of disaster capitalism. The deal we really need is not even on the table,” she said.

The Canadian author emphasized the importance of civil society to come together to take action on the climate crisis. “There is a difference between a deal and success and Klimaforum09 needs to be the lie detector when the politicians come out with a deal,” she added.

Naomi also had critical words to say about Hopenhagen and its branding extravaganza. “The globe has Siemens logo on the bottom and the whole event is sponsored by Coke. That is a capitalization of hope but Klimaforum09 is where the real hope lies,” she said.

“Klimaforum is not about giving charity to the developing world its about taking responsibility and the industrialized countries cleaning up our own mess,” she concluded.

Klimaforum09 the peoples conference is open from Tuesday 8th till Friday 18th December. The programme features close to 200 workshops, 70 exhibitions and a comprehensive film, theatre and musical events.

The Danish organizers expect up to 10,000 daily visitors and guest speakers include Vandana Shiva, George Monbiot, Bill McKibben, Tim Jackson and Wangari Maathai.

“We would like to tell you that climate change is already seriously impacting us. It brings floods, droughts and the outbreak of pests that are all causing harvest failures,” said Henry Saragih, general coordinator of the global peseants movement Via Campesina, also speaking at the opening cermony.

Nnimmo Bassy, Head of Friends of Earth International, stressed the importance of people getting together to take action.

"At Klimaforum09 we find the real people taking real action. Poluters must be hold accountable and policy makers must start listening to the people," he said.

lunedì 7 dicembre 2009

Studente kurdo ucciso dalla polizia a Diyarbakir

amed7dic
Aydin Erdem aveva 23 anni. E’ morto ieri quando un poliziotto lo avrebbe colpito alle spalle. Un singolo colpo, partito dalla pistola di ordinanza. Alla schiena, a distanza ravvicinata. Aydin come migliaia di altri giovani stava protestando nella città kurda di Diyarbakir contro le condizioni di detenzione del leader del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan) Abdullah Ocalan. In realtà la protesta che da dieci giorni ha invaso le città kurde, le metropoli turche e molte città europee, è rivolta al governo turco che di fatto ha fin qui respinto la richiesta di dialogo ripetuta dal Dtp (partito della società democratica), dalla società civile kurda, dallo stesso Pkk e da Ocalan.

Anche in queste ore in molte città kurde continuano le manifestazioni e gli scontri.
L’avvocato e presidente della sezione di Diyarbakir dell’associazione per i diritti umani (IHD), Muharrem Erbey ha assistito all’autopsia sul corpo del giovane Aydin Erdem. L’avvocato ha confermato che il ragazzo è stato colpito alle spalle, a distanza ravvicinata.

Abdullah Ocalan è dal 1999 unico detenuto nel carcere di massima sicurezza dell’isola di Imrali. Ma da un paio di settimane il governo ha trasferito il presidente del Pkk in un nuovo edificio realizzato sull’isola. Qui Ocalan è in ‘compagnia’ di altri sei detenuti. In realtà continua a rimanere in isolamento in una cella più piccola di quella precedente. E’ stato lo stesso Ocalan a denunciare, attraverso i suoi legali, di sentirsi “quasi morto. La cella – ha detto – è di sei metri quadrati. Non riesco a respirare. C’è una sola finestra sul soffitto e questo mi impedisce di ricevere ossigeno”.

di Orsola Casagrande

Grecia - La lotta continua ad un anno dall'omicidio di Alexandros

Mentre in tutta la Grecia si ricorda Alexandros Grigoropoulos, la repressione colpisce chi combatte le crisi


Di fronte a 50 dipartimenti universitari occupati la soluzione che il nuovo governo socialista riesce a dare è “tolleranza zero” per i manifestanti e l'annuncio di 13000 poliziotti a presidiare Atene durante le commemorazioni di Alexandros Grigoropoulos.Per comprendere meglio questo fine settimana ellenico bisogna ricordare che la crisi economica si è manifestata chiaramente ai greci. La disoccupazione non cessa a diminuire e trovare un part-time in un ristorante è tanto difficile quanto ottenere un posto fisso. Tra quella ufficiale e quella nascosta, la disoccupazione colpisce quasi una persona su cinque. Dati allarmanti a cui vanno aggiunti i problemi macroeconomici legati alla difficile situazione delle banche e quelli dovuti al titanico debito pubblico. Una situazione talmente chiara e tanto grave che non si può nascondere né all'opinione pubblica né, tanto meno, ai giovani e agli studenti; uno scenario tanto problematico per cui la classe politica non potrebbe più nascondersi dietro le colonne del parlamento. Eppure la storia si ripete con precisione visto che il potere politico sceglie la via più semplice e più ceca: la via della repressione. Il venerdì che ha preceduto le commemorazioni il Ministro per la Pubblica Sicurezza Chrisochoïdis ha affermato che “Atene non sarà consegnata alla violenza” e ha aggiunto “non tollereremo atti di terrore nella città”. Ma è passato troppo poco tempo per non ricordare cosa è successo in quel vicolo pedonale poco sopra la piazza di Exarchia. Il terrore è quello in cui si sveglia ogni giorno la generazione di Alexandros perchè alla disoccupazione e allo smantellamento dei beni comuni si aggiunge un altro pugno nello stomaco da sopportare. Nel tempo che scorrerà da un anniversario all'altro, la generazione di Alexandros dovrà trovare la forza per non dimenticare l'uccisione brutale di un proprio coetaneo. Un adolescente che a volto scoperto gridava il proprio dissenso. Tra sabato e domenica, ad un anno di distanza da quella tragica sera, sono scese in piazza migliaia di persone in tutta la Grecia: Lamia, Volos, Arta, Giannina, Salonicco, Preveza, Argo, Sparta, Karditsa, Kallithea, Patrasso, Xanthi, Corfù, Irakleio, Larisa, Mitilini e Atene sono state attraversate da cortei rabbiosi. E' con la sua memoria e con le ombre a mezzogiorno che i giovani non smettono di lottare e ricordare. Ma nel frattempo la repressione non si ferma e in riferimento alla giornata di domenica il partito Syriza ha parlato di violenza inaudita della polizia, mentre il Ministro Chrisochoïdis si è complimentato in serata per le operazioni delle forze dell'ordine: 41 arresti a Keratsini, quartiere a Nord-Ovest del Pireo, 33 arresti per gli episodi di domenica mattina ad Omonia, nel centro di Atene, ed 8 arresti nell'irruzione della polizia dentro l'Università Aristotele di Salonicco grazie all'autorizzazione del rettore.Intanto ad Exarchia e nei dintorni del Politecnico continuano i lanci di molotov e i fronteggamenti tra polizia e manifestanti. La lotta continua, l'eterno ritorna.


Il business della conoscenza

Speculazione immobiliare, speculazione formativa: l'economia della conoscenza cinese cambia le regole del valore



Il diario di viaggio di Paolo Do - Shanghai (Cina)

In Cina l’ammontare complessivo dei debiti non ripagati attraverso carte di credito è aumentato del 126.5% nel solo ultimo anno - secondo il portavoce di Bank of China. Beijing ha infatti incentivato le banche ad espandere il settore delle carte di credito con la speranza di far lievitare così anche i consumi. Il risultato di questa strategia è che nel giro di un solo anno il sistema bancario si è trovato di fronte agli stessi problemi dei paesi avanzati, seppure con le dovute proporzioni. La media di chi possiede una carta di credito in Cina é dello 0,13% a persona; tale dato è molto distante dai 300 milioni di americani e dalle loro 1.5 bilioni di carte di credito possedute (questo dato secondo l`ufficio statistico americano).

Mentre il credito al consumo sembra problematico, in Cina non lo é l`acquisto delle proprietà immobiliari, e questo grazie anche agli studenti. Se per i figli di migranti mandare un figlio all`università è un investimento, una chance per uscire dalla miseria, nella Cina di oggi per le famiglie ricche mandare un figlio a studiare a Pechino o a Shanghai rappresenta sì un investimento, ma di ben altra natura. Questi nuovi studenti hanno rotto di fatto le cinta del classico campus universitario con la speculazione immobiliare: secondo le agenzie immobiliari Zhongda Hengji e Zhujia, solamente nella città di Pechino il 10% delle transazioni delle proprietà immobiliari sono acquisti di case da parte di studenti che si trasferiscono per studiare.

Tuttavia non sempre è necessario andare all`università per poter dire di avere una laurea. Ad Hong Kong si e` scoperto che sono molte le agenzie finanziarie che chiedono ai propri dipendenti di “inflazionare il proprio curriculum” formativo e lavorativo con false esperienze per procurarsi quei visti di lavoro più facilmente ottenibili riservati agli High Skill e per poter richiedere parcelle notevolmente più alte ai propri clienti.

Ma la menzogna è un campo di liberi battitori. Accade così che in una company dove tira aria di licenziamenti, un gruppo di impiegati scopre e pubblicizza il fatto che il loro datore di lavoro, il CEO Tseng Jinsui della Neo Neon di Hong Kong, una company quotata sul listino della borsa, non ha mai ottenuto quel dottorato che il suo CV invece vanta. In un mercato fondato sulle informazioni e sulla fiducia, la pubblicizzazione di questa notizia da parte di alcuni attivisti ha di fatto ribaltato i rapporti di forza e costretto chi voleva licenziare...ad essere licenziato.

domenica 6 dicembre 2009

15 mila in piazza in Turchia per Ocalan, un morto



Notizie di Agenzie


Uno studente e' stato ucciso da un proiettile sparato dai poliziotti durante una manifestazione a favore di Abdullah Ocalan, co-fondatore del Pkk. Circa 15mila persone sono scese in strada a Diyarbakir nel Kurdistan turco per esprimere il loro sostegno al leader del Partito curdo del lavoratori.

Quando gli agenti hanno cercato di fermare la marcia, dalla folla e' partita una fitta sassaiola e la polizia ha reagito con gli idranti e sparando gas lacrimogeni. Qualcuno pero' si e' messo a sparare con proiettili veri: uno studente di 23 anni e stato colpito a morte a altre due persone - tra cui un agente - sono rimaste ferite.

Secondo fonti di sicurezza i feriti sono 3 e le persone arrestate 113. Nella citta' sudorientale di Yuksekova, durante un'altra manifestazione, un 19enne e' stato gravemente ferito alla testa da un candelotto di gas lacrimogeno.

La manifestazione era stata organizzata dal Partito della societa' democratica curda che lamenta le condizioni in cui Ocalan viene detenuto nel carcere sull'isola di Imrali dove si trova dal 1999.

Fino al mese scorso il leader del Pkk era l'unico detenuto a Imrali, ma dopo le critiche della Commissione del Consiglio d'Europa per la prevenzione delle torture, le autorita' giudiziarie turche hanno deciso di rompere l'isolamento e di trasferire nel penitenziario altri detenuti.

Alcune immagini

Ci sono stati scontri anche a Mersin (dove i commerciati hanno chiuso i negozi) a Semdinli(8 arresti e camion dato alle fiamme) Siirt(13 arresti)Batman(100 arresti)barricate stradali a Nusaybin

Valuta umana

Come il negoziato Shalit ha cambiato i rapporti di forza nei Territori Palestinesi

"Non trattiamo coi terroristi". Un mantra recitato a lungo dalle democrazie d'Occidente. In realtà, presto o tardi tutte le maggiori potenze hanno abdicato a discussioni coi militanti, dall'Irlanda del Nord all'Iraq. Oggi Israele sembra vicina a concedere ai nemici giurati di Hamas l'opportunità di fare un gran bel colpo, con la (ventilata) liberazione di un numero di prigionieri vicino al migliaio. Quali conseguenze trarre da tutto ciò?

Ovviamente Israele rimane in credito di circa 10 mila palestinesi ancora in carcere, ai quali se ne sommano settimana dopo settimana numerosi altri. Ciononostante, la liberazione massiccia di prigionieri 'irriducibili', una concessione mai fatta ad Abu Mazen e all'Anp, rappresenta un deciso cambio di rotta nella politica israeliana.

Nel 2007, Israele ha rilasciato 429 detenuti, una mossa vista da più parti come un aperta manifestazione di sostegno al leader dell'Anp. La maggioranza di questi prigionieri ha commesso piccoli reati. Alcuni erano probabilmente innocenti. Da allora, Abu Mazen non ha dimostrato alcuna intenzione di usare la mano forte. La sua credibilità è precipitata all'indomani della cattiva gestione del rapporto Goldstone e per l'incapacità di controllare l'espansione degli insediamenti, al punto da portarlo all'annuncio di dimissioni. Sotto la sua leadership l'Anp ha tenacemente perseguito una politica di negoziato, invece di usare la forza e le minacce, solo per scoprire che i loro partner nel 'processo di pace' non stavano mostrando serietà alcuna nell'adempimento dei loro obblighi.

I fallimenti di Abu Mazen, determinati da Obama, Netanyahu e i suoi predecessori, hanno rafforzato il sostegno popolare ad Hamas. Questi ultimi stanno rapidamente diventando l'unica fazione palestinese che Israele prende sul serio, non per scelta, ma per forza. Sotto il loro vessillo, Gaza è rimasta libera da check-point e insediamenti. Hamas governa senza rivali, una cosa che le autorità della Cisgiordania possono solo sognarsi di fare. Non fosse stato per la raffica di arresti israeliani, da loro incoraggiati, dei leader di Hamas in Cisgiordania, è altamente probabile che avrebbero preso il potere anche lì.

I massacri e l'assedio di Gaza hanno rafforzato la loro leadership, l'opposizione interna è stata polverizzata, e per la gente che ha votato per loro in maniera schiacciante, rappresentano la vera voce della resistenza. Con finanziamenti da altri Paesi musulmani come l'Arabia Saudita, sono stati capaci di forgiare uno stato a loro immagine e somiglianza, saldamente islamista, ben organizzato e intransigente. Hanno alleati potenti anche in Egitto, da dove traggono rifornimenti attraverso una rete di cunicoli sotterranei, e dove tengono nascosta la loro gallina dalle uova d'oro, Gilad Shalit.

Israele si trova progressivamente costretta a dare segnali di buona volontà, aprendo i confini per consentire l'ingresso a Gaza di 600 vitelli per l'Eid el-Fitr, la festa di fine Ramadan, o di libri e aiuti umanitari, precedentemente - e gli aiuti umanitari in maniera criminale - proibiti. Oggi ci sono linee di comunicazione permanenti tra Israele e quei 'terroristi' che - disse Olmert - "non potranno mai diventare un partner".

Che Ahmad Sadat e Marwan Barghouti siano materia di discussione all'interno dell'annunciato scambio, è il riconoscimento della ritrovata forza di Hamas. Barghouti avrebbe il cammino spianato verso la vittoria, in qualsiasi elezione presidenziale. E' lui la figura dotata del potere necessario a unire le fazioni belligeranti di Hamas e Fatah. Se Israele volesse davvero una Palestina unita come vicino di casa, avrebbe dovuto liberarlo tempo fa, a dispetto del crimine di omicidio per cui è stato condannato.

Naturalmente, l'annunciato rilascio di prigionieri di alto profilo, condannati all'ergastolo per reati gravi, sta alimentando un acceso dibattito in Israele. Consapevole di un potenziale disastro d'immagine, il governo israeliano non ha reso pubblica la lista dei prigionieri, innescando lo sdegno dei parenti delle vittime, nonché il loro ricorso all Corte Suprema per ribaltare tale decisione. Il portavoce dei familiari, Dan Sion, ha detto che "il governo lavora al negoziato in modo furtivo". Come dargli torto? Sebbene Netanyahu abbia promesso un dibattito pubblico, è del tutto verosimile che le scelte del governo rimangano le stesse.

L'esercito è determinato nell'assicurare con ogni mezzo il ritorno a casa di Shalit. Se questo significa trasformare Hamas in un eroe popolare, ebbene, è un prezzo che sono disposti a pagare. Per l'Autorità nazionale palestinese, che ha sprecato anni in colloqui sterili, si tratta di un boccone amaro. Per la comunità internazionale è un ulteriore monito che la forza è l'unica valuta con la quale tratta il governo israeliano.

Kieron Monks Giornalista di Electronic Intifada e Don't Panic
Traduzione di Luca Galassi
Scritto per
Peace reporter

Sahara Occidentale - Continua lo sciopero della fame di Aminetu Haidar

Peggiorano le condizioni di salute di Aminetu Haidar
in sciopero della fame ormai da più di venti giorni.


Haidar è la più famosa attivista del Sahara Occidentale e da anni lotta perchè sia riconosciuta l’indipendenza del suo paese, ex-colonia spagnola, ceduta al Marocco secondo gli accordi di Madrid del 1975.

Il governo marrocchino, su ordine del re Mohamed VI, ha rifiutato le richieste del governo spagnolo di concedere un passaporto marrocchino all’attivista sahariana Aminetu Haidar, espulsa dal suo paese il 14 novembre scorso, per questo la donna ha iniziato dal 16 novembre lo sciopero della fame nell’aeroporto di Lanzarote (Canarie).

Il caso è seguito con attenzione in Spagna.

Il governo marrocchino in un comunicato ha rifiutato “qualsiasi intervento straniero nel caso Haidar“, affermando, inoltre, di “non voler cedere al ricatto dell’attivista, il cui compartamento è una provocazione e una sfida alle autorità marrocchine”. Il ministro degli esteri spagnolo, Miguel Angel Moratinos, aveva offerto a Haidar la cittadinanza spagnola, ma la donna si è rifiutata perché “non vuole essere una straniera nel suo paese”.

Intanto crescono le prese di posizione a favore dell'attivista dei diritti umani.

Pubblichiamo un'intervista rilasciata da Aminetu Haidar

Ha appena ricevuto negli Stati Uniti il premio al valore civile della Fondazione John Train ed è ora nelle Canarie per parlare di violazione dei diritti umani nel Sahara Occidentale. Quale è la situazione attuale?

La situazione è realisticamente allarmante. Il Governo e le forze di occupazione marocchine hanno raddoppiato la repressione cambiando i metodi repressivi. Stanno trasformando i processi civili in militari, senza il rispetto di nessuna norma, facendoci praticamente ritornare all’epoca di Hassan II. Il regime marocchino sta rivelando il suo vero volto, che non ha proprio niente a che vedere con quello che cerca di trasmettere, in modo ingannevole, al mondo.

Attualmente, la maggioranza dei difensori dei diritti umani nel Sahara Occidentale è in prigione e coloro che non sono prigione sono praticamente agli arresti domiciliari, con i documenti requisiti e quindi sprovvisti di identità nella propria terra. Le scuole e le istituzioni educative sono sotto la vigilanza della polizia. Alcuni giorni fa, due studenti saharaui sono stati imprigionati senza avere diritto ad un avvocato o a qualcuno che li potesse difendere. Sono abbandonati.

A che cosa attribuisce l'aumento della repressione di cui lei parla?

Ci sono due ragioni. La prima è raggiungere l’obiettivo di far fallire in qualche modo il processo di pace già avviato dalle Nazioni Unite e le trattative che si stanno portando a termine tra il Fronte Polisario ed il Marocco per dare una soluzione al conflitto generato dall'occupazione del Sahara Occidentale.

Il Marocco si è accorto che questo processo non segue la strada desiderata, ma si indirizza verso il diritto del popolo saharaui all'autodeterminazione, con il riconoscimento della comunità internazionale.

L'altro motivo è che il Marocco si sta rendendo conto dell'attaccamento dei saharaui al loro legittimo diritto alla libertà e all'indipendenza. Questo si sta diffondendo nella popolazione e le nuove generazioni che stanno tenendo alta la loro bandiera in tutto il Sahara.

Quante persone calcola che stiano subendo direttamente questa repressione?

Ci sono più di 40 prigionieri politici saharaui nelle prigioni marocchine. Di questi, dieci sono difensori dei diritti umani, persone che semplicemente si battono per i diritti umani, come i sette rapiti l’8 ottobre all’aeroporto di Casablanca al loro ritorno dagli accampamenti dei rifugiati di Tinduf. Uno di questi rapiti è il vicepresidente della mia organizzazione, Alí Salem Tamek. Ci sono prigionieri politici sparsi in tutte le prigioni, compreso il Carcere Nero di El Aaiún.

Quella del Carcere Nero è una situazione molto dura in cui da un mese alcuni stanno facendo lo sciopero della fame.

Inoltre ci sono i 500 saharaui scomparsi dal 1974 ed altri 15 giovani scomparsi dal 2005. Un esempio lampante della repressione è quello che è successo alla sorella di uno dei compagni rapiti a Casablanca che solo per il fatto di essere andata a trovarlo, ora è in quella prigione da due mesi. Semplicemente per aver cercato di fare visita a suo fratello.

Come sta reagendo la comunità internazionale? Dà il proprio sostegno e supporto?

C'è una importante reazione di condanna, soprattutto dopo il sequestro dei sette attivisti difensori dei diritti umani. L'hanno denunciato Amnesty International, il centro Robert Kennedy, Human Rights Watcht o governi come quelli della Gran Bretagna, Svezia, Irlanda ed altri paesi.

E come vede la posizione della Spagna?

Con molto rammarico dobbiamo dire che il governo spagnolo rimane spettatore. Perfino sul tema della violazione dei diritti umani non abbiamo visto reazioni di alcun tipo, malgrado noi sperassimo e pensassimo che avrebbe dovuto essere il primo a reagire, perché gli scomparsi e gli imprigionati sono proprio spagnoli, figli o nipoti di spagnoli. Senza tener conto della responsabilità politica, storica e giuridica rispetto ad un territorio che fu una sua provincia.

Perché i partiti e le associazioni del Marocco non denunciano questa situazione?

C'è un partito marocchino, Via Democrática, che ha condannato duramente la repressione. Anche l'Associazione per i Diritti umani del Marocco ha chiesto la libertà incondizionata dei sette.

Gli USA hanno mediato in questo conflitto con poco successo. Crede che l'arrivo di Obama alla presidenza possa dare una svolta?

Nel discorso del signor Obama si notano i suoi desideri di cercare la pace e la stabilità nel mondo. Spero che il premio Nobel che gli hanno dato, lo porti anche a pensare e ad agire per una soluzione giusta e definitiva al conflitto. Il Fronte Polisario, di volta in volta mette in guardia e minaccia di ritornare alla lotta armata.

C’è questa possibilità o si è già scartata l'opzione della lotta armata?

Io sostengo i diritti umani nelle zone occupate, quello che mi domanda è una decisione che spetta al Fronte Polisario. Tutte le mie energie vanno verso la pace e la mia speranza è che regni la pace e che ciò non si trasformi in guerra. Ma desidero anche che la comunità internazionale cerchi una soluzione rapida e giusta per evitare che il Fronte Polisario possa prendere la decisione definitiva di ritornare alle armi. C'è una cosa che dal mio punto di vista è un'aberrazione ed è che la missione dell'ONU nel Sahara, la Minurso, è l'unica missione di pace nel mondo che non contempla la difesa dei diritti umani nel territorio sul quale agisce.

Teme di essere oggetto di rappresaglia quando ritornerà la prossima settimana nel Sahara, dopo questo periodo passato negli USA e nelle Canarie denunciando la violazione dei diritti umani?

Non ho paura, ma sono quasi sicura di due possibilità: una, che possano sequestrarmi all’aeroporto, come hanno fatto coi miei sette compagni. L’altra che mi requisiscano tutti i documenti affinché io non possa più uscire dal Sahara. Una di queste due cose accadrà. Sì, temo che subirò la repressione del Marocco, quando tornerò nel Sahara.


Femminicidi: a Ciudad Juárez non si muore per caso


di Chiara Calzolaio

A Ciudad Juárez non si muore per caso. Questo il primo, atroce, pensiero che passa per la testa a chiunque abbia conosciuto un po’ da vicino la realtà della città alla frontiera tra Messico e Stati Uniti.

A una settimana dall’omicidio di Jesús Alfredo Portillo Santos, ventisettenne studente di disegno grafico all’Università Autonoma di Ciudad Juárez, attivista, genero di Marisela Ortiz Rivera, militante di una delle associazioni più conosciute al mondo di familiari di vittime dei femminicidi di Ciudad Juárez, Nuestras Hijas de Regreso a Casa, sento l’urgenza di tracciare dei fili, di sottoporre ad una riflessione comune alcune questioni e dire che la verità ufficiale non mi convince.

Il 29 novembre scorso Jesús Alfredo Portillo Santos è stato ammazzato da un commando di sicari mentre si dirigeva ad un negozio di quartiere, non lontano da dove viveva. I giornali locali riportano la dinamica dei fatti: due giovani che stavano scappando da un commando si sono rifugiati in un alimentari, i sicari hanno sparato provocando la morte dei due ragazzi ma anche di Jesús Alfredo e di un altro passante. Loro, e centinaia di altri uomini e donne finiti negli ultimi due anni sotto il fuoco della guerra tra e contro il narcotraffico, sono “vittime dell’insicurezza”, di quell’aumento esponenziale di violenze e criminalità che la città ha vissuto dai primi mesi del 2008, quasi in coincidenza con l’arrivo dell’esercito a Ciudad Juárez.

Dello stesso parere il rettore dell’Università Autonoma di Ciudad Juárez che, in una conferenza stampa a poche ore dall’accaduto, ha rivolto un appello alle autorità perché risolvano i crimini e rendano giustizia a chi, come Alfredo, “si è trovato nel luogo sbagliato, nel momento sbagliato”. Dal dicembre 2008, otto tra studenti e professori della sua istituzione sono stati uccisi, senza dimenticare le due giovanissime studentesse (Lidia Ramos Mancha e Mónica Janeth Alanís Esparza, di 17 e 18 anni) che risultano ancora scomparse.

Sembra tutto chiaro. Semplice e atroce. In una città in cui tra gennaio e novembre 2009 sono state uccise 2300 persone, in cui gli omicidi in strade e luoghi pubblici sono quotidiani, in cui commandos armati hanno attaccato locali pubblici e centri di recupero per tossicodipendenti, bruciato negozi e attività, le “vittime collaterali”, il passante che muore per una “bala perdida”, per un proiettile vagante, sono drammaticamente frequenti.

Tutto questo è vero. Eppure c’è qualcosa che non torna. Tra queste “vittime collaterali” ci sono nomi come quelli di Gerardo González Guerrero, professore di psicologia, ammazzato nel dicembre 2008, e di Manuel Arroyo, professore di scienze sociali e fondatore della OPI, l’Organizzazione Popolare Indipendente, ucciso nel maggio scorso, che sono ben conosciuti tra i movimenti sociali che fervono, malgrado tutto, in una città che da lontano sembra solo violenza. E c’è anche Armando Rodríguez, giornalista del maggiore quotidiano locale, El Diario, ucciso dopo anni di minacce nel novembre 2008, per il suo lavoro scomodo e pericoloso: fare informazione onesta sui temi del crimine organizzato, dei femminicidi, della militarizzazione della città e delle violenze ad essa connesse.

E il pensiero che a Ciudad Juárez non si muore per caso fa capolino. Non si muore per caso (neanche) a Ciudad Juárez, soprattutto se sei attivista e se tu e i tuoi familiari avete ricevuto minacce. Marisela Ortíz vive sotto scorta da anni. Ma Nakar, sua figlia, e Jesús Alfredo, che era il compagno di vita e di lotte di Nakar, no.

Non si muore per caso (neanche) a Ciudad Juárez, soprattutto se il giorno prima dell’omicidio di Jesús Alfredo è stata rapita, stuprata e ammazzata Flor Alicia Gómez López, nipote di due attivisti di Chihuahua (capitale dell’omonimo stato di cui fa parte anche Ciudad Juárez), Eduardo Gómez e Alma Gómez Caballero, di un’altra importante ONG per la difesa dei diritti delle donne, impegnata da anni per avere giustizia per i femminicidi con Justicia para Nuestras Hijas.

Non si muore per caso (neanche) a Ciudad Juárez, tanto più se la stragrande maggioranza di questi crimini sono ancora oggi impuniti, dall’omicidio di Armando Rodríguez ai più di 500 femminicidi, dai migliaia di morti ammazzati nella guerra tra e contro il narcotraffico al femminicidio di Flor Alicia, che aveva 23 anni e lavorava in una piccola scuola materna nella selva di Temochi, nello stato di Guerrero.

È quello che denunciano da tempo le organizzazioni civili di Ciudad Juárez. È quello che gridavano gli studenti e i professori scesi in piazza dopo l’omicidio di Manuel Arroyo (nella foto). È quello che sostiene oggi María de la Luz Estrada, direttrice dell’ Osservatorio Cittadino Nazionale del Femminicidio. L’assassinio di Flor Alicia e di Jesús Alfredo, di Manuel Arroyo e di Armando Rodríguez, sono atti intimidatori. Farli passare come crimini legati all’insicurezza e alla violenza diffusa, leggerli separatamente l’uno dall’altro senza riconoscere il filo rosso che li lega significa impedirsi di riconoscere e denunciare quel processo di criminalizzazione della protesta sociale che è in corso da anni. Significa non avere più gli strumenti per comprendere le lotte e le repressioni che agitano il Messico sotto la coltre mortifera della guerra tra e contro il narcotraffico.

Non ho avuto la possibilità, o forse il coraggio, di chiamare Marisela e Nakar. Quando ci siamo salutate prima del mio ritorno in Italia, nel novembre 2008, Nakar e Jesús Alfredo si stavano per sposare. Dovevano scegliere il luogo per la loro festa, un giardino accogliente per i colorati e allegri balli messicani. Con che parole, un anno dopo, dall’altra parte dell’oceano, si può anche solo sfiorare un dolore che non riesco neanche a immaginare?

Forse, per quanto poco questo possa significare, condividendo spunti per un’informazione che si spinga al di là del senso comune.

Chiapas - Campagne di stampa per confondere.


Un articolo di Gloria Muñoz Ramírez ancora sul tentativo di provocazione contro gli zapatisti

Il 25 novembre un collega tedesco mi scriveva allarmato: “È vero che gli zapatisti si sono arresi?”. La falsa informazione che l’aveva portato alla tremenda conclusione era quella che pubblicata circa il fatto che le giunte di buon governo instaurate dall’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) in Chiapas, avevano chiesto il riconoscimento giuridico del Congresso locale, cosa che, in parole povere, significava, effettivamente, l’abdicazione del progetto più importante fino ad ora della lotta zapatista: l’autonomia dei suoi popoli. E questo, se fosse stato confermato, sarebbe stata una notizia da otto colonne sui media del Messico e di tutto il mondo. Ma nessuno si era preso il disturbo di domandarlo a loro.

L’informazione diffusa dal governo di Juan Sabines, che si è caratterizzato durante i suoi tre anni per la repressione, la corruzione e le bugie, ognuna di queste asseverazioni con innumerevoli esempi che le confermano, ha provocato l’immediata smentita delle giunte zapatiste, ma anche l’indignazione di settori della società nazionale ed internazionale per la divulgazione di una notizia che forniva false informazioni (avere una “fonte” non giustifica un’informazione, soprattutto se la notizia è di rilevanza tale da meritare maggiore approfondimento).

La notizia si riferiva ad un punto di accordo preso il 19 novembre scorso dal plenum della 63a Legislatura statale, mediante il quale si era approvata “la creazione della Commissione Speciale di fronte alla realtà delle giunte di buon governo, su proposta della Giunta di Coordinamento Politico”. Perché, trattandosi di un’informazione tanto importante, il governo la diffonde sei giorni dopo? E, d’altra parte, perché non è stata chiesta la versione dell’altra parte coinvolta, cioè, quella degli zapatisti? Se il governo annunciava la resa dell’EZLN, valeva forse almeno la pena di domandarglielo.

Al governo di Sabines perfino le montature vengono male. Diffonde un’informazione insostenibile paragonabile ai peggiori momenti di Roberto Albores Guillén, che a suo tempo montò ridicole sceneggiate con la “consegna di armi” da parte di elementi dell’EZLN. Il teatrino allora durò il tempo di un lampo e non andò oltre. E così succederà con questa nuova offensiva mediatica di Sabines.

A questo punto, dopo 16 anni di lotta pubblica, d’accordo o meno con i progetti politici dell’EZLN, qualcuno può immaginare gli zapatisti seduti nei loro uffici autonomi con una commissione di legislatori locali? Qualcuno se li immagina a riempire moduli per chiedere riconoscimento giuridico, coperte, polli e tetti di cartone? Questo significa non conoscerli. Ma in termini mediatici non importa, perché con questo tipo di campagne la cosa importante non è convincere, bensì confondere.

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

venerdì 4 dicembre 2009

Obama in war



La decisione di Obama di aumentare i militari presenti in Afghanistan di altre 30.000 unità e la richiesta agli alleati tra cui l'Italia di aumentare gli effettivi, accompagnata dalla "promessa" di andarsene entro il 2011 rappresenta l'immagine della debolezza del Presidente Usa.

Da quando Obama è Presidente le truppe americane sono triplicate in Afghanistan e l'affermazione che questa volta l'aumento sarà il "colpo definitivo" appare un escamotage con cui prendere tempo per cercare di dipanare una situazione che assomiglia sempre più ad un pantano, peraltro collegato alla complessa geopolitica asiatica e non solo.

Per approfondire cosa sta succedendo attorno alla "guerra di Obama" come titolava The Guardian vi proponiamo alcuni articoli.

- Da The Guardian: Commento di Malalai Joya attivista afghana

- Da Znet: Commento di Tom Hayden

- Da PeaceReporter: Ignobel per la pace articolo di Enrico Piovesana

giovedì 3 dicembre 2009

Chiapas - Ucciso attivista dei diritti umani

La denuncia del Centro dei diritti umani
Fray Bartolomé de Las Casas


Malgrado esistesse una denuncia di minacce di morte, la Procura Generale di Giustizia dello Stato non ha adottato sufficienti misure cautelari per salvaguardare la sua vita. Le organizzazioni civili, sociali, difensori dei diritti umani che si battono contro il settore minerario sono in imminente serio rischio.

Il Centro dei Diritti Umani Fray Bartolomé de Las Casas, A.C., condanna l’assassinio del difensore dei diritti umani Mariano Abarca Roblero e si unisce alla domanda di giustizia affinché si svolga un’indagine esaustiva, efficace ed obiettiva, punendo gli autori materiali ed intellettuali così come le autorità responsabili per omissione nell’obbligo di garantire la vita e l’integrità personale di Mariano Abarca.

Il giorno 27 novembre del presente anno alle ore 19:45 circa, nel capoluogo municipale di Chicomuselo, Chiapas, è stato assassinato Mariano Abarca Roblero, membro dell’organizzazione Dos Valles Valientes, movimento che si oppone allo sfruttamento minerario ed aderente alla Rete Messicana delle Vittime della Miniera (REMA)..

Secondo le testimonianze raccolte dal Centro dei Diritti Umani, Mariano Abarca si trovava in auto all’esterno della sua abitazione a conversare con Orlando Velásquez, quando un uomo a bordo di una motocicletta si è avvicinato al veicolo ed ha aperto il fuoco. Mariano Abarca è stato raggiunto da tre pallottole al collo ed al petto ed è morto sul colpo, mentre Orlando Velásquez è rimasto ferito. Dopo aver sparato l’uomo a bordo della motocicletta si è diretto all’angolo della strada dove un altro uomo era in attesa e i due sono fuggiti sempre sulla motocicletta.

Mariano Abarca Roblero si opponeva allo sfruttamento minerario nel municipio di Chicomuselo dove la compagnia canadese Blackfire Exploration Ltd da oltre un anno sta estraendo barite. Nei giorni scorsi Mariano Abarca aveva sporto denuncia al Pubblico Ministero per aver ricevuto minacce da parte di Ciro Roblero Pérez e Luis Antonio Flores Villatoro, il primo impiegato dell’impresa ed il secondo Direttore delle Pubbliche Relazioni della Blackfire Exploration Ltd. Le autorità della procura di giustizia non hanno garantito la protezione necessaria malgrado nella denuncia Mariano Abarca avesse specificato che le minacce erano di morte.

Sito del Centro dei diritti umani


mercoledì 2 dicembre 2009

Guerra d’inchiostro e Internet




Articolo di Luis Hernández Navarro su La Jornada – Martedì 1 dicembre 2009

Chiapas: l’altra guerra d’inchiostro e Internet

Nell’aprile del 1995 José Ángel Gurría, allora segretario agli Esteri, dichiarò che lo zapatismo era una guerra d’inchiostro e Internet. Ora, 14 anni dopo, sono i governi federale e del Chiapas ad aver lanciato un’offensiva di disinformazione contro i ribelli, i gruppi che difendono i diritti umani ed i movimenti sociali dissidenti in quello stato.

L’attuale strategia di comunicazione del governo si iscrive nell’arena della “guerra di reti” (netwar). Secondo gli analisti della RAND, Arquilla e Ronfeldt, “Netwar si riferisce al conflitto strettamente legato all’informazioni ad un alto livello tra nazioni o società. Intende tentare di disgregare o danneggiare quello che una popolazione obiettivo sa, o pensa di conoscere su sé stessa ed il mondo che la circonda. Una Netwar può concentrarsi sull’opinione pubblica o d’élite, o entrambe. Può comprendere diplomazia, propaganda e campagne psicologiche, sovversione politica e culturale, discredito o interferenza con media locali, intrusione in reti di computer e database, e attività di promozione di movimenti dissidenti o di opposizione attraverso reti di computer.”

Questo è esattamente ciò che lo Stato messicano ha fatto nelle scorse settimane nello stato meridionale. La lista delle provocazioni è molto lunga: detenzione ed assassinio di oppositori sociali, promozione di una campagna di voci che annunciano una nuova sollevazione armata, tentativo di diffamare lo zapatismo divulgando falsamente una richiesta di appoggio economico delle giunte di buon governo al Congresso locale, liberazione di paramilitari responsabili del massacro di Acteal ed incremento della presenza militare. Tutto questo montato con una campagna sui mezzi di comunicazione per occultare i fatti, nonostante le evidenze. Col governo di Juan Sabines i gruppi di potere tradizionali si sono ricomposti. Cacicchi, finqueros, allevatori e la più marcia nomenclatura politica priista occupano posizioni chiave nell’amministrazione pubblica, nel Congresso locale e a San Lázaro. Molti partecipano ai grandi affari locali associati a personaggi dell’ambito federale. Non importa che questo governatore abbia vinto la presidenza all’Esecutivo dello stato come candidato del Partito della Rivoluzione Democratica (PRD). Lui è uno dei governatori più vicini al Presidente della Repubblica. “Siamo con il Messico ed il suo presidente Felipe Calderón“, ha detto in più di un’occasione.

In Chiapas l’uomo di Los Pinos si trova più a suo agio che in molte altre entità governate dal Partito Azione Nazionale (PAN). Juan Sabines gestisce la vita interna di questa istituzione politica a suo piacimento: toglie e mette dirigenti e candidati. In questo stato il sole azteco è diventato il partito dei paramilitari. La strategia di comunicazione dell’amministrazione statale si muove su due fronti: uno è l’uso intensivo di radio e televisioni per “promuovere” il Chiapas; l’altro è la politica di contrainsurgencia informativa orchestrata a partire dal controllo della stampa locale e la diffusione sui media nazionali delle posizioni dell’amministrazione di Sabines su temi conflittuali presenti nell’entità. Nella versione chiapaneca contemporaneo di “panem et circenses“, quotidianamente si filmano puntate di telenovelas, musicisti devoti registrano dischi ed artisti di successo si pasciano tra siti archeologici, monumenti storici e bellezze naturali.

I visitatori famosi vengono intervistati sui mezzi di comunicazione locali. Anche se formalmente la guerra di carta contro lo zapatismo e contro tutto quello che non vuole sottomettersi alla politica di “concertazione” statale sia condotta dall’Esecutivo locale, parte della strategia è stata tracciata dal governo federale. Diego Cadenas, direttore del Centro dei Diritti Umani Fray Bartolomé de las Casas, assicura che, secondo informazioni fidate, nelle riunioni settimanali di gabinetto del governo di Juan Sabines sono sempre presenti i militari. Il più recente anello di questa offensiva informativa è la notizia che le giunte di buon governo abbiano chiesto il “riconoscimento” al Congresso locale ed al governo di Juan Sabines, fatto tanto insolito quanto irreale.

La menzogna governativa ha un obiettivo centrale: delegittimare la lotta zapatista, togliere credibilità alla sua proposta. La manovra è una grave offesa. Nonostante la precarietà in cui le comunità in resistenza vivono da molti anni, hanno respinto sistematicamente qualsiasi tipo di aiuto governativo. La loro dignità non ha prezzo, e l’hanno dimostrato al mondo.

Non è la prima volta nella storia del conflitto che le autorità ricorrono ad una simile montatura. Tra il 1999 ed il 2000, con Roberto Albores Guillén governatore provvisorio dello stato – stretto alleato di Juan Sabines – fu montato uno show teletrasmesso nel quale si annunciava la diserzione di 15.000 zapatisti che consegnavano armi e passamontagna. I disertori erano militanti del PRI, molti di loro paramilitari. Uno dei principali organizzatori di quell’opera buffa era Noé Castañón León, allora titolare del Tribunale Supremo di Giustizia dello Stato che, curiosamente, oggi è segretario del governo chiapaneco.

La guerra d’inchiostro e Internet contrainsurgente ha creato una situazione politica molto delicata in Chiapas. Vediamo quanto i governi continueranno a scherzare col fuoco.

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

Sistema idrico obsoleto: un'altra preoccupazione per Gaza.



di Rami Al-Meghari, Striscia di Gaza.

Lungo il confine del campo profughi Al-Shati, ad ovest della città di Gaza, tre siti sono attualmente considerati a rischio. Il pericolo non deriva tanto dalla continua ronda delle navi da guerra israeliane quanto dal fatto che gran parte delle acque sono state contaminate.

Municipalità locali ed autorità per l’ambiente hanno installato diversi cartelli in cui si legge: “E' proibito nuotare o pescare oltre 400 metri ad ovest e 500 metri ad est”. Simili cartelli si leggono in varie località lungo la costa della Striscia di Gaza.

Poiché le autorità municipali non sono state in grado di trattare le acque reflue per l’irrigazione, di modernizzare gli impianti esistenti per il trattamento delle stesse o di promuovere la costruzione di nuovi impianti nella regione, sono state costrette a versare milioni di metri cubi di rifiuti idrici nel mare. E questo ha largamente contribuito a creare il problema ambientale.

Impianti di trattamento obsoleti. “Sfortunatamente, contribuiamo all’inquinamento del nostro mare, principalmente perché siamo sempre più incapaci trattare o disfarci delle acque reflue, e questo un po’ ovunque nella Striscia di Gaza”, ha riferito ad IslamOnline.net (IOL) Monther Shoblak, Direttore generale delle Municipalità costiere per l’utilizzo dell’acqua di Gaza.

In Gaza esistono diversi impianti per il trattamento delle acque reflue ma tutti sono obsoleti e bisogna ristrutturarli. Le autorità locali vorrebbero costruirne di nuovi ma il blocco israeliano sul territorio costiero - che ormai dura da oltre due anni - ha impedito il vitale progetto.

Nel gennaio 2009, quando Israele ha scatenato la sua guerra totale sulla Striscia di Gaza, molte reti idriche - soprattutto nel nord della Striscia di Gaza - sono state del tutto o in parte distrutte. Contaminazione e taglio dei rifornimenti idrici sono state le conseguenze.

In base a quanto sostiene Shoblak, se non si permette l’ingresso di materie prime, necessarie per la costruzione di impianti, l’attuale problema di contaminazione delle acque peggiorerà creando ulteriori problemi per l’ambiente.

“L’assenza di sistemi adatti per il trattamento o lo scarico di acque reflue è causa diretta di contaminazione da nitrato delle acque”, ha affermato.

In base ad un recente rapporto di Amnesty International, le acque di Gaza non sono indicate per consumo umano, in quanto il 90% delle falde acquifere di Gaza è contaminato in più parti dell’enclave costiera.

Shoblak ha spiegato che solo il 70% dei residenti di Gaza hanno dei sistemi di scarico delle acque reflue nelle proprie abitazioni mentre il 30% dipende dall’assorbimento dei pozzi che comporta però l’infiltrazione di acque reflue e la contaminazione delle falde acquifere.

“Gli impianti di trattamento delle acque reflue non funzionano come dovrebbero e hanno una capacità di trattamento del 30%”, ha proseguito Shoblak, dando così una chiara idea di come i danni dell’assedio imposto su Gaza riguardino tutti gli aspetti.

L’avvertimento dell’OMS (WHO). L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha stimato al nord di Gaza la contaminazione di almeno mezzo milione di metri cubi di acqua.

La stessa organizzazione ha sottolineato il deterioramento della qualità della acque negli ultimi anni confermando due tipologie di contaminazione nelle falde acquifere di Gaza: biologica e chimica.

“La situazione è critica, sta colpendo la popolazione e bisogna risolverla. Stiamo analizzando la questione della contaminazione delle acque alla luce della guerra su Gaza”, ha affermato Mahmoud Daher, portavoce dell'Oms a Gaza.

Daher ha dichiarato a Islam online che il 70% delle acque analizzate lo scorso anno presentavano del nitrato ben oltre gli standard previsti dall'Oms. “Non possediamo statistiche precise sugli effetti immediati di contaminazione biologica o di malattie derivanti”.

“Tuttavia, molte cliniche dell'Unrwa (l'Agenzia Onu per i profughi palestinesi in Medio Oriente) hanno incontrato molti casi di epatite e di altri tipi di malattie causate dalle acque”, sostiene Daher.

Traduzione per Infopal di Elisa Gennaro

La resistenza prevede che si aggraverà la crisi

Sui risultati elettorali

Porfirio Lobo dice che questo giovedì strapperà la discussione per un gran accordo nazionale Continua l'incoerenza nell'indice di astensionismo in Honduras; va da 37 al 65%. Ex candidato: ai golpisti non interessa l'elezione; volevano solo una cifra da esibire al mondo.

Benché il presidente virtuale eletto del Honduras, Porfirio Pepe Lobo, dica che Manuel Zelaya è già storia, non lo sono i suoi rumorosi seguaci. Bandita la sua presenza per le strade la domenica (quelli che hanno osato uscire sono stati minacciati o direttamente bastonati), gli zelayisti escono a mostrare il dito, in una carovana veicolare enorme, che per varie ore ha girato per le strade della capitale . Non siamo golpisti, neanche terroristi!, gridano, mentre mostrano il dito medio, libero dell'inchiostro usato per segnare gli elettori.

Non votiamo, non votiamo!, gridano dalla carovana, strettamente controllati dalla polizia e l'esercito, molto vicini al hotel dove Pepe Lobo si riunisce per molto tempo con un paio di centinaia di giornalisti nazionali e stranieri per fare quello che meglio sa: ribattere a domande senza perdere il suo sorriso Colgate.

La crisi politica del paese è tema del passato, o meglio, un tema di Roberto Micheletti, Manuel Zelaya ed il Congresso. Non è problema del presidente che prenderà la carica tra 58 giorni. Così più o meno continua Lobo a tessere le sue risposte, benché non respinga nessuna domanda e perfino scherzi con i giornalisti, sia che gli facciano domande dure, sia che gli servano da tappeto, come la maggioranza dei colleghi honduregni.

Il riconoscimento si determinerà a poco a poco

Il riconoscimento della comunità internazionale? A poco a poco l'andiamo risolvendo. La restituzione del presidente Zelaya? "È un tema che i due, Micheletti e Zelaya, hanno accettato, firmato, che lo decida il Congresso ... Per me è un caso risolto. Non ho niente a che vedere.”

Un collega brasiliano chiede risposta ad una domanda semplice:

-E' stato un colpo di stato, si o no?

-Preferisco non dirlo. Non farò niente che divida ancora di più l'Honduras.

Ore prima, Manuel Zelaya si riferisce a lui, senza nominarlo, sulla risposta negata nel definire se, per lui, quello successo il 28 di giugno è stato un colpo di Stato: Non risponde perché ha paura dei militari, gli manca il coraggio per esprimersi.

Benché risponda misuratamente alle domande di spagnoli, brasiliani, cileni e dominicani sulle relazioni con i loro rispettivi paesi, fra le righe Lobo esprime qual'è l'unico riconoscimento che gli importa. Ci sono negli Stati Uniti un milione di honduregni i cui invii di denaro sono la principale entrata nazionale, senza contare che 40% delle esportazioni honduregne è al paese del nord, (l'alleanza militare, l'altra parte della relazione più importante del Honduras, non è menzionata dal vincitore delle elezioni).

Per questo motivo è strano che risponda con le stesse superficialità, e gettando la pallina ai liberali, quando La Jornada gli ricorda che questa mattina il sottosegretario del Dipartimento di Stato, Arturo Valenzuela, ha detto che i seggi sono stati solo un passo avanti, ma non sufficiente nella soluzione del conflitto honduregno.

Una Assemblea Nazionale Costituente? Non è prioritaria ed inoltre è stata posta solo per rispondere all'aspirazione personale di una rielezione. Il virtuale presidente eletto evita di dire che lui stesso ha presentato una proposta di Assemblea Costituente quando Zelaya promuoveva la sua.

Benché dica di avere parlato con molti presidenti che gli hanno promesso riconoscimento, si rifiuta di dire chi sono.

In linea con lo sport nazionale di convocare dialoghi che non conducono a nessun parte, come ha fatto Micheletti durante cinque mesi, Lobo annuncia che questo giovedì spingerà la discussione di un grande accordo, un documento che sarà il piano della nazione. Il punto di partenza, afferma, saranno documenti elaborati in anni passati dalla Conferenza Episcopale, la Confraternita Evangelica ed altro fatti durante la conduzione di Victor Meza, ministro del Governo di Zelaya.

Un altro collega spagnolo gli chiede di definire l'umanesimo cristiano che proclama: rispetto alla persona umana, solidarietà, sussidiarietà e bene comune, appunta, accompagnati da libero mercato con responsabilità sociale, non quello che predica il neoliberalismo.

Lobo si congeda, che dopo la notte del suo trionfo ha avuto, come prima attività mattiniera, una riunione con il comando unito delle forze armate, guidato dal generale Romeo Vásquez, esecutore del colpo di Stato.

Il mistero della partecipazione

Assemblea mattiniera del Fronte di Resistenza. Facciamo un appello ai governi e movimenti sociali democratici ed onesti del mondo a respingere i risultati della farsa elettorale ed ad ignorare il preteso governo che si stabilirà a partire dal 27 di gennaio del 2010.

La presenza è maggiore che nelle ultime settimane, e l'ambiente, di festa.

Il fronte ripete che la farsa elettorale montata dall'oligarchia è stata un fallimento totale ed indica l'astensionismo nel 65%.

La domenica, chiusi i tavoli di votazione, e dopo di una lunga attesa derivata da un difetto tecnico, la Corte Suprema Elettorale, TSE, ha terminato dando due cifre sulla partecipazione ai seggi. Una, basata nei suoi dati preliminari, ha fissato l'astensionismo al 37%. Un'altra, del Consorzio Facciamo Democrazia, composto da organismi civili e religiosi, ha dato il 53% all'astensionismo, qualcosa di coerente con la tendenza al ribasso che si registra ogni quattro anni.

Hanno dovuto leggere la lettera perché li hanno finanziati i gringo, ma l'hanno letta con vergogna, dice Carlos H. Re magi, il sindacalista che ha ritirato la sua candidatura indipendente alla presidenza.

Facciamo Democrazia tra i cui membri si trovano organismi cattolici ed evangelici, riceve consulta tecnica dell'Istituto Nazionale Democratico, NDI, ed appoggio finanziario dell'Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID).

Queste disparità non impediscono che il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti dica che i seggi sono stati negli standard internazionali e si congratuli con il vincitore.

Porfirio Lobo la fa ancora più grande, nonostante che il parere tra i giornalisti stranieri nella sua conferenza sia che la partecipazione sia stata squallida. Lobo dice che ha votato il 72% degli elettori, e inoltre: se si tolgono gli honduregni che vivono negli Stati Uniti che sono nella lista elettorale, la partecipazione supererebbe la barriera dell'80%, il doppio di quattro anni fa, quando egli ha perso nelle urne contro Zelaya.

Non c'è maniera di sapere il dato reale, semplicemente perché nessun organismo internazionale qualificato ha accettato di osservare le elezioni. Pertanto bisogna rimanere col dato di curati e pastori (53% di astensione), o con quello di Pepe Lobo, (28%). Questa disparità (28 -53), deve essere quello che il Dipartimento di Stato considera standard internazionali.

Di questi discorsi ne abbiamo fin sopra i capelli; abbiamo perso cinque mesi senza ottenere assolutamente niente, dice Carlos Humberto Reyes, il candidato presidenziale indipendente che si è ritirato prima delle elezioni, sulla convocazione a tutti gli onduregni del politico nazionalista.

Reyes, la cui fotografia è stata ghigliottinata della scheda elettorale quando ha annunciato il suo ritiro, dice che ai golpisti non importava chi vinceva questa elezione, bensì avere una cifra per esibirla al mondo.

Reyes sa che la comunità internazionale non avrà unanimità rispetto al Honduras. Questo, in ogni caso, non importa ai golpisti. A quella gente l'unica cosa che interessa è il governo degli Stati Uniti, le altre nazioni non li preoccupano molto.

Il leader della resistenza vede avanzare l'aggravamento dalla crisi, perché il governo che seguirà, dice, vuole incrementare le imposte e svalutare la moneta. E lì seguirà la guerra.

La resistenza continua, dicono i suoi leader, ora anche preoccupati di organizzare il loro braccio elettorale, sicuri come sono che quelli che hanno fatto il golpe lo hanno fatto per rimanere al potere.

Durante l'assemblea, il dirigente campesino Rafael Alegría fa un elenco degli abusi della dittatura: interferenze al Canale 36 di Televisione e Radio Globo, presidio militare a Radio Uno e minacci a Radio Progresso. Parla anche di 48 detenuti in San Pedro Sula, quando la polizia ha disperso una marcia la domenica.

Nella stessa linea, Amnesty International, AI, denuncia il caso di Jensys Mario Umanzor Gutiérrez, visto per ultima volta l'alba della domenica a bordo di una pattuglia ed il cui destino si ignora. AI ha accompagnato domenica agli avvocati che hanno tentato di interporre un ricorso di habeas corpus, si sono trovati con tutti gli uffici giudiziali chiusi.

A mezzogiorno di questo lunedì, un'organizzazione locale di diritti umani ha trovato 14 minorenni di età detenuti nel comando metropolitano numero 3, in questa città. I giovani sono stati catturati perché si trovavano a conversare, in gruppi maggiore di quattro, vicino ai centri di votazione della domenica.

Oggi la giustizia è stata assente in Honduras, ha detto a La Jornada, la domenica, Javier Zúñiga, che guidava una delegazione di Amnesty International. Un ingrediente in più dentro gli standard internazionali, è da supporsi.

La carovana continua quando cala la notte. Arrampicata nella parte posteriore di una pick up, viaggia Olga Marina, una signora cinquantenne, robusta, che non si perde una sola attività della resistenza. E non solo perché è zelayista, bensì perché porta sempre con sé la sua scatolina di gomme da masticare e sigarette da vendere. Di quello vive. "Qui stiamo ... con le mani pulite!", grida Olga Marina, e mostra le mani, lasciando vedere anche, nell'avambraccio destro, le cicatrici del giorno di agosto in cui un poliziotto, la lanciò contro un filo spinato. Adesso mi rimarranno per sempre, dice con una risata e si perde verso il centro, al grido di “che ha Mel che la borghesia non può con lui".


Gaza Freedom March


Da tutto il mondo per rompere l'assedio

Ad un anno dalla aggresione a Gaza, la striscia continua ad essere chiusa in ognuno dei suoi lati: Egitto e Israele.

E' stato lanciato un appello internazionale per costruire una grande iniziativa per rompere il blocco di Gaza.

L'Associazione Ya Basta partecipa alla: GAZA FREEDOM MARCH Sito ufficiale

Traduzione in italiano e info Vai al Sito

La Marcia sarà una grande occasione per affermare il diritto della popolazione civile di Gaza ad essere libera.

Segui gli aggiornamenti sul sito di GlobalProject e su Ya Basta Napoli.

Appello Internazionale per la Gaza Freedom March

L'assedio israeliano di Gaza è una flagrante violazione del diritto internazionale che ha portato alla sofferenza di massa. Gli Stati Uniti, l'Unione Europea, e il resto della comunità internazionale sono complici.

La legge è chiara. La coscienza dell'umanità è scossa. Eppure, l'assedio di Gaza continua. È giunto il momento di agire! Il 31 dicembre 2009 concluderemo l'anno marciando al fianco del popolo palestinese di Gaza in una manifestazione nonviolenta per rompere il blocco illegale.

Il nostro scopo in questa marcia è rompere l'assedio di Gaza. Chiediamo che Israele ponga fine al blocco. Chiediamo anche all'Egitto di aprire la frontiera di Gaza a Rafah. I palestinesi devono avere la libertà di viaggiare per motivi di studio, di lavoro, e di cura e anche di ricevere visitatori provenienti dall'estero.

Essendo noi una coalizione internazionale, non spetta a noi sostenere una soluzione politica specifica a questo conflitto. Eppure la fiducia nella nostra comune umanità ci spinge a chiedere a tutte le parti di rispettare e sostenere il diritto internazionale e i diritti umani fondamentali per porre fine all'occupazione militare israeliana dei territori palestinesi del 1967 e per perseguire una pace giusta e duratura.

La marcia potrà avere successo soltanto se risveglierà la coscienza dell'umanità.

Vi invitiamo tutti ad unirsi a noi.

La Coalizione internazionale per la fine dell'assedio illegale di Gaza

Freedom March
Dichiarazione di Contesto

Amnesty International ha descritto il blocco di Gaza come una "forma di punizione collettiva di tutta la popolazione di Gaza, una flagrante violazione di obblighi di Israele nel quadro della quarta convenzione di Ginevra." Human Rights Watch ha chiamato il blocco una "grave violazione del diritto internazionale". Il Relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei territori occupati palestinesi, Richard Falk, ha condannato l'assedio israeliano di Gaza che rappresenta un "crimine contro l'umanità".

L'ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter ha detto che la gente di Gaza viene trattata "come animali", e ha chiesto di "porre fine all'assedio di Gaza" che sta privando "un milione e mezzo di persone delle necessità della vita."

Uno dei principali esperti a livello mondiale di Gaza, Sara Roy dell'Università di Harvard, ha detto che le conseguenze dell'assedio "provocano innegabilmente una situazione di sofferenza di massa, che è creata in gran parte da Israele, ma con la complicità attiva della comunità internazionale, in particolare gli Stati Uniti e l'Unione Europea".

La legge è chiara. La coscienza dell'umanità è scossa.

I palestinesi di Gaza hanno esortato la comunità internazionale ad andare oltre le parole di condanna.

Eppure, l'assedio di Gaza continua.

La difesa del diritto internazionale

L'assedio illegale di Gaza non avviene nel vuoto. E 'uno dei tanti atti illeciti commessi da Israele nei territori palestinesi occupati militarmente nel 1967.

Il muro e gli insediamenti sono illegali, secondo la Corte internazionale di giustizia dell'Aia.

La demolizione di case e la distruzione indiscriminata delle terre agricole sono illegali.

La chiusura e il coprifuoco sono illegali.

I blocchi stradali e i checkpoint sono illegali.

La detenzione e la tortura sono illegali.

L'occupazione stessa è illegale.

La verità è che se il diritto internazionale fosse applicato l'occupazione finerebbe.

La fine della occupazione militare iniziata nel 1967 è una condizione fondamentale per instaurare una pace giusta e duratura. Per oltre sei decenni, al popolo palestinese sono stati negati il diritto alla libertà, all’ autodeterminazione e all’ uguaglianza. Alle centinaia di migliaia di palestinesi costretti ad abbandonare le loro case con la creazione di Israele nel 1947-48 sono ancora negati i diritti riconosciuti loro dalla risoluzione ONU 194.

Fonti d'ispirazione

La Gaza Freedom March trae ispirazione da decenni di anni di resistenza non violenta palestinese, dalla sollevazione popolare di massa della prima Intifada agli abitanti dei villaggi in Cisgiordania che attualmente resistono al furto di terre attuato con la costruzione dal muro annessionista di Israele.

Trae ispirazione dalla stessa gente di Gaza, che ha formato una catena umana da Rafah a Erez, ha demolito la barriera di confine che separa Gaza dall'Egitto, e ha marciato verso i sei posti di blocco che separa la Striscia di Gaza occupata da Israele.

La Gaza Freedom March trae ispirazione anche dai volontari internazionali che hanno difeso gli agricoltori palestinesi durante durante il periodo raccolta nei campi, dagli equipaggi delle navi che hanno sfidato il blocco di Gaza via mare, e dai conducenti dei convogli che hanno consegnato gli aiuti umanitari a Gaza.

Ed è ispirato da Nelson Mandela che ha detto: "Ho camminato nella lunga strada verso la libertà. Ho cercato di non vacillare; ho fatto passi falsi lungo il percorso. Ma ho scoperto che, dopo aver scalato una grande collina, ci sono ancora molte altre colline da scalare. Non oso indugiare, per il mio lungo cammino non è finita. "

Si da ascolto alle parole del Mahatma Gandhi, che chiamò il suo movimento “Satyagraha “cioè “aggrapparsi alla verità”. Noi ci aggrappiamo alla verità che l'assedio israeliano di Gaza è illegale e disumano.

Gandhi ha detto che lo scopo dell'azione nonviolenta è quello di "accelerare" la coscienza dell'umanità. Attraverso la Gaza Freedom March, l'umanità non solo deplorerà la brutalità israeliana, ma interverrà per fermarla.

La società civile palestinese ha seguito i passi di Gandhi e Mandela. Proprio come i due leader, ha invitato la società civile internazionale a boicottare i prodotti e le istituzioni dei propri oppressori. Associazioni, sindacati e movimenti di massa palestinesi nel 2005 hanno lanciato un appello che invita tutte le persone di coscienza a sostenere una campagna nonviolenta di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni fino a quando Israele non rispetterà pienamente i suoi obblighi di diritto internazionale.

La Gaza Freedom March trae anche ispirazione dal movimento dei diritti civili negli Stati Uniti.

Se Israele svaluta la vita dei palestinesi allora noi internazionali dobbiamo sia interporre i nostri corpi per proteggere i palestinesi dalla brutalità israeliana che testimoniare personalmente la disumanità con la quale i palestinesi si confrontano ogni giorno.

Se Israele sfida il diritto internazionale allora le persone di coscienza devono inviare corpi civili nonviolenti da tutto il mondo per applicare la legge della comunità internazionale a Gaza. La Coalizione internazionale, per porre fine all'assedio illegale di Gaza, invierà contingenti provenienti da tutto il mondo a Gaza per ricordare l'anniversario del sanguinoso assalto israeliano durato 22 giorni dal dicembre 2008 al gennaio 2009.

La Gaza Freedom March non vuole assumere alcuna posizione rispetto alla politica interna palestinese. Si schiera solo con il diritto internazionale e il primato dei diritti umani.

La marcia è un altro anello nella catena di resistenza nonviolenta e di opposizione al totale disprezzo di Israele nei confronti del diritto internazionale.

I cittadini del mondo sono chiamati ad unirsi ai palestinesi il 31 gennaio per rompere l'assedio disumano di Gaza.

Conoscenza pulita

Il taglio di CO2 e la questione del lavoro cognitivo transnazionale


Il diario di bordo di Paolo Do - Shanghai (Cina)

Dopo la recente visita di Obama in Asia e la ratifica del mancato taglio delle emissioni di CO2, quale futuro si prospetta per il vertice di Copenhagen e per il successo delle energie verdi e rinnovabili?

La questione climatica dopo i recenti accordi tra Usa e Cina, mette di fatto al centro la questione dei saperi, della cooperazione e della ricerca a livello transazionale, sottolineando la importanza del cosiddetto ‘transfer tecnologico’ legato a conoscenze e tecnologie.

Nei protocolli d'intesa di questo inedito G2, l'elemento chiave della discussione riguarda proprio le risorse necessarie alla ricerca per la produzione di energia pulita: a ben guardare non si tratta d'altro che di costruire un mercato per saperi legati alle energie rinnovabili tra le due sponde del Pacifico.

Cosa vuol dire aprire un tale spazio in Cina? Cosa vuol dire usare lo strumento del mercato per tagliare le emissioni di CO2?

Innanzitutto, significa partire dalla questione della proprietà intellettuale, come condizione di possibilità, e della salvaguardia dei diritti di copyright e brevetti, come base per la cooperazione tra Cina e America: oggi è questa la pre-condizione per poter parlare di rivoluzione verde e di sviluppo tecnologico.

Green revolution vuol dire investire sulla conoscenza, l'innovazione, la gestione di nuova forza lavoro ‘qualificata’ e, quindi, sulla cooperazione transnazionale.
Da un lato, il problema in Cina consiste nella sostenibilità ambientale della sua crescita che può causare una seria destabilizzazione politica interna, dall`altro il bisogno di nuove fonti energetiche in grado di nutrire una domanda crescente. Questo la Cina lo sa bene, gli Usa anche. Dentro questo spazio si é aperto un nuovo terreno strategico, un nuovo fronte laddove, dentro la questione delle energie rinnovabili e della svolta verde, l`elemento cognitivo diviene il vero campo di battaglia.

“Presidente del pacifico”, come si è autoproclamanto Obama, non è una dichiarazione neutra: è piuttosto l'affermazione del rafforzamento di quei dispositivi di proprietà, anzitutto intellettuale, e di governance del lavoro cognitivo a livello globale. Il presidente del pacifico diventerà anche quello di Copenhagen?
Da questo punto di vista il meeting europeo di dicembre assume uno spessore ancora più complesso, e la partita in gioco diventa ancora più grande.

lunedì 30 novembre 2009

Vince la popolazione, vince la resistenza

Le elezioni

Nelle elezioni in Honduras in testa il candidato della destra nazionalista, in mezzo alla repressione e all’astensionismo

Secondo i primi dati preliminari forniti dal Tribunale supremo elettorale, Tse, il vincitore delle elezioni in Honduras sarebbe il candidato del Partido Nacional, Porfirio “Pepe” Lobo. Ma il risultato che davvero conta oggi è quello espresso dalla maggioranza della popolazione, che ha raccolto l’invito della Resistenza a non andare a votare per non avallare un risultato elettorale spurio, frutto del colpo di Stato del 28 giugno.

Nonostante le percentuali molto probabilmente falsate che diffonderà tra poche ore il Tse, durante l’intera giornata è stata più che evidente la poca affluenze alle urne, l’asfissiante presenza dell’esercito e della polizia in tutto il paese e i numerosi episodi di repressione e violazione ai diritti umani degli honduregni.

Inesistente anche l’osservazione internazionale, dopo che nei giorni scorsi le principali organizzazioni specializzate in questo tipo d’intervento hanno declinato l’invito fatto loro dal Tse, non riscontrando le condizioni minime per garantire un processo elettorale democratico.

Durante una conferenza stampa che si è svolta all’interno della sede del Comitato dei famigliari dei detenuti scomparsi in Honduras, Cofadeh, il Fronte nazionale contro il colpo di Stato ha dichiarato che “abbiamo constatato il fallimento della farsa elettorale attraverso la bassa affluenza alle urne e questo nonostante le evidente minacce da parte dell’impresa privata nei confronti dei loro lavoratori che non fossero andati a votare”.

Il Cofadeh e il Fronte nazionale contro il colpo di Stato hanno inoltre denunciato che le forze repressive hanno continuato la campagna di terrore contro la popolazione in resistenza.

Secondo dati aggiornati al pomeriggio di domenica 29 novembre, sono numerosi i casi di detenzioni e perquisizioni illegali, costanti minaccie da parte dell’esercito e della polizia, violazione della legge elettorale che proibisce ai militari di avvicinarsi a meno di cento metri dai locali in cui si vota.

Durante l’osservazione svolta da numerosi giornalisti è risultata evidente la costante presenza di militari fortemente armati a pochi metri dalle urne.

Particolarmente preoccupante la situazione a Zacate Grande, nel sud del paese, dove le comunità sono state letteralmente presidiate e circondate dall’esercito ed a Santa Barbara, ovest dell’Honduras, dove circa 20 giovani hanno dovuto abbandonare il paese per timore di essere arrestati.

A San Pedro Sula la marcia della Resistenza è stata selvaggiamente repressa dall’esercito e dalla polizia e si contano a decine gli arresti ed i feriti, tra cui un giornalista dell’agenzia Reuters che è stata curato in ospedale per una profonda ferita alla testa.

Stando così le cose e vedendo ciò che è successo oggi, possiamo annunciare che ci sono tutti gli elementi per dire che non è stato possibile svolgere questo atto pubblico, perché non le consideriamo elezioni, convocato in un clima di terrore dai golpisti per legalizzare il colpo di Stato e sè stessi. Sono tutti elementi – ha detto Bertha Oliva del Cofadeh – che ci servono per giustificare un’azione legale che inizieremo nei prossimi giorni per impugnare questo processo”.

Secondo Rafael Alegría, membro della direttiva del Fronte nazionale contro il colpo di Stato, “stanno per chiudere i centri di votazione e la partecipazione al voto è stata scarsissima. Il popolo ha risposto al nostro appello ed ha capito che non può esistere un processo elettorale democratico e trasparente in un paese che vive in uno stato permanente di repressione e di mancanza di istituzionalità.

La presenza militare è stata continua e nella capitale c’erano elicotteri della polizia sorvolando i centri di votazione. Questa non è altro che intimidazione contro la Resistenza, ma per il governo di fatto è stato un boomerang, perché hanno spaventato anche chi pensava di andare a votare”, ha concluso.

Nella guerra di sondaggi e risultati preliminari, secondo il Tse la partecipazione s’aggirerebbe intorno al 62 per cento (da confermare durante la nottata), dato inverosimile per chi ha osservato per tutta la giornata i centri di votazione. Come unico elemento esterno di verifica, il Tse ha portato un comunicato dell’organismo Hagamos Democracia, già conosciuto a livello internazionale per agire nei paesi latinoamericani che avversano la politica esterna degli Stati Uniti in America Latina,come punta di lancia per penetrare i processi elettorali con finanziamenti di agenzie governative nordamericane come la Ned, Iri e Usaid.

Nonostante ciò, Hagamos Democracia riconosce una partecipazione del 47 per cento.

Secondo gli exit-poll del Centro de Defensa de los Derechos Humanos de Honduras, Codeh, con un margine di errore del 4,5 per cento, i votanti non sarebbero superiori al 22 per cento. Per il presidente legittimo dell’Honduras, Manuel Zelaya, i votanti sarebbero circa il 35 per cento, con un astensionismo che raddoppia rispetto alle elezioni in cui vinse nel 2004.

Difficile pensare comunque che i votanti siano stati superiori al 30-35 per cento, rendendo così totalmente insignificante il ruolo di un presidente della Repubblica che conterà con il sostegno di una quantità insignificante di cittadini.

Indipendentemente da quali saranni i risultati finali, il vero vincitore di queste elezioni illegittime sarà il popolo honduregno. Quel popolo che ha castigato il mondo politico che ha avallato il colpo di Stato ed è rimasto in silenzio di fronte ai morti e feriti, alla repressione che per cinque mesi ha sconvolto il cammino democratico del paese.

Sarà ora compito della comunità internazionale prendere una decisione finale: al lato della gente che resiste e che dice ‘no’ alla dittatura o rendendosi complice di un processo involutivo che mette a rischio il futuro della regione centro e sud americana.

(Testo e foto Giorgio Trucchi - Lista Informativa "Nicaragua y más" di Associazione Italia-Nicaragua)

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