martedì 6 novembre 2012

Stati Uniti - Cinque cartoline da Sandy


Riflessioni da New York

di Angel Luis Lara

1. L'uragano Sandy è stato considerato soprattutto come un sintomo ed un risultato del cambiamento climatico. Lontano dall'essere un fenomeno naturale, questo cambiamento è una questione sociale, politica e culturale: riporta alla qualità delle relazioni sociali nelle quali viviamo, al tipo di politiche con le quali siamo governati e alle forme di vita nelle quali socializziamo. Quando il dato economico costituisce la chiave di spiegazione del sociale, del politico e del culturale, tutto deriva irrimediabilmente dall'economia: anche il cambiamento climatico. Anche se il famoso Rapporto Stern ha rivelato nel 2006 che questo cambiamento provocherà una caduta del PIL mondiale che può arrivare al 20% nei prossimi decenni, l'attuale imposizione dell'austerity e il sequestro dittatoriale della moneta rendono impossibile lo sviluppo degli investimenti necessari per impedire il disastro. Il capitalismo assomiglia sempre più ad un serpente che si morde la coda. Al Gore, paladino della coscientizzazione sul cambiamento climatico, è una buona prova di questo. Lui è padrone di tre ville e vive in una casa con decine di stanze e la piscina privata: si calcola che il modo di vivere della sua famiglia consuma venti volte più energia elettrica che un'abitazione media del suo paese. Anche se gli statunitensi costituiscono meno del 5% della popolazione del pianeta, consumano il 26% dell'energia mondiale. Inoltre generano da soli il 24% del totale delle emissioni di anidride di carbonio che si producono nel mondo.  Il Rapporto Stern sottolineava già 6 anni fa, che questo tipo di emissioni stava generando un incremento nella velocità del vento che minacciava di scatenare violenti uragani ed inondazioni negli Stati uniti. Dunque alla fine un serpente che si morde la coda.
2. Sandy ha messo sul tavolo i temi che il tempo elettorale aveva ignorato: tra questi il primo è proprio quello del cambiamento climatico. La recente campagna elettorale si è caratterizzata dai silenzi e dai vuoti generalizzati. La logica elettorale è solita a convertire la politica in retorica vacua o come si dice ora, in un semplice esercizio ideolessicale: mero gioco semantico e costruzione ideologica. Il fatto certo è che nella sua condizione ideolessicale, le elites del mondo si dividono tra quelle che negano il cambiamento climatico e quelle che lo ammettono però si impegnano con tutte le loro forze a che l'umanità non possa combatterlo. Romney fa parte della prima e Obama della seconda. Nel 2009 c'è stato a Copenhagen la XV Conferenza sul cambiamento climatico dell'ONU. Giorni prima Obama aveva firmato un accordo con le autorità cinesi per bloccare la conferenza ed impedire un accordo mondiale vincolante per permettere la riduzione delle emissioni di anidride carbonica. Come sappiamo, il Rapporto Stern ha collegato direttamente queste emissioni agli uragani negli Stati Uniti: qualcuno potrà pensare alla produzione politica di Sandy. Il fatto certo è che nelle recenti elezioni per la Casa Bianca gli statunitensi si sono visti costretti a scegliere tra un politico che nega la realtà ed un altro che si impegna non solo a far sì che questa realtà non cambi ma per certi versi peggiori.  Questo sarà il nostro destino fino a quando resteremo stretti nel cerchio concentrico delle elites e di quello che è istituito. Il capitalismo non solo è un serpente che si morde la coda, ma anche un labirinto.
3. La produzione politica delle cause di Sandy è simmetrica alla produzione politica delle conseguenze. Prima di Sandy, New York aveva sofferto dell'intensa gestione neoliberista degli ultimi quattro sindaci.  Giuliani e Bloomberg sono risultati particolarmente virulenti in questo senso: le loro politiche municipali hanno eroso considerevolmente le infrastrutture della città, creando un obsolescenza nei trasporti, moltiplicando le infrastrutture e estendendo la povertà. Nel suo libro Shock Economy, Naomi Klein ha definito questa ingegneria socio-economica come "capitalismo del disastro". A New York esisteva già un disastro prima dell'arrivo del disastro: l'abbandono neoliberista delle infrastrutture locali ha favorito non di poco l'invito per Sandy. I più di quaranta morti nella città, la sospensione del trasporto urbano, le case distrutte e la sospensione del servizio elettrico illustrano realmente la materialità di uno shock segnato da nomi e storie vere e reali.  Elisabeth, per esempio, vive a Long Island e ha perso il suo yacht. La sua casa lussuosa sulla spiaggia ha avuto danni alla struttura. Ha racconto la sua storia alla catena televisiva Fox. Era profondamente commossa e non poteva smettere di piangere. Maria viene filmata nella trasmissione al canale Univisión a Coney Island. Era molto seria e tranquilla. Così come suo marito, lei è una persona migrante senza documenti. Tutte e due abitano con i loro tre figli in un piano sottointerrato con poca luce e scarsa ventilazione. Mentre Maria raccoglie l'acqua, una reporter cerca senza esito di farle dare una testimonianza. Stanca della giornalista, infine le ha rilasciato questa dichiarazione: "guardi signorina, questa situazione non è di adesso, ci succede ogni volta che piove. Io soffro per Sandy tutta la mia vita".
4. Sandy non solo ha messo in luce a New York l'erosione neoliberale delle infrastrutture, ma anche ha reso evidente l'abbandono delle persone: migliaia di newyorchesii  sono ancora senza luce,  acqua,  riscaldamento,  accesso agli alimenti ancora a molti giorni dal passaggio dell'uragano. Poi è successo il miracolo: una marea di gente comune e anonima ha cominciato ad autorganizzarsi per tessere una fitta rete di cooperazione che ha portato migliaia di volontari, acqua, medicine, vestiti e tonnellate di alimenti nelle zone maggiormente colpite. Si tratta di una esperienza veramente bella e profonda spinta da due motori fondamentali. Il primo si basa su un carattere culturale e si connette con il comunitarismo che, a differenza del modello d'intervento europeo, ha caratterizzato la vita urbana nelle grandi città degli Stati Uniti: l'assenza di intervento pubblico ha favorito una cultura della community e dei tessuti locali attivi. E' un fenomeno contraddittorio e complesso del quale ha parlato dieci anni fa il sociologo francese Jacques Donzelot, in un interessantissimo libro che è stato oggetto di una critica spietata da parte della sinistra  (Faire société: la politique de la ville aux États-Unis et en France). Il secondo motore della potente esperienza di cooperazione che Sandy ha scatenato ha un carattere politico: Occupy Wall Street. Sono stati gli attivisti quelli che hanno mossi i primi passi, che hanno lanciato l'appello e che hanno organizzato le reti digitali sulle quali si è estesa la materialità dell'esperienza. Occupy Wall Street  è ora Occupy Sandy
5. Anche se dai suoi inizi il movimento Occupy  ha funzionato come uno spazio di incontro tra differenti, l'egemonia graduale di una componente attivista tradizionale, caricata di gesti e linguaggi che risultano generalmente escludenti, ha sottratto potenza all'esperienza sia svuotandola di persone comuni sia sconnettendola dai registri estetici e formali della sinistra. Lo scorso mese di settembre  abbiamo letto il rito della commemorazione dell'occupazione di  Zuccotti Park come una scena stessa del decesso irrimediabile della potenza del movimento. Ma ci sbagliavamo, come ci succede la maggior parte delle volte. Sandy ha generato la seconda resurrezione di Occupy. La prima si era prodotta all'inizio, quando la brutalità della polizia colpì a fondo l'opinione pubblica e mobilitò la sensibilità comune di gran parte della città a favore del movimento. La seconda è arrivata con l'uragano che è stata in grado momentaneamente di dislocare la terribile disfunzionalità che ci portiamo dietro in molti che veniamo dall'attivismo tradizionale: quando smettiamo di intendere l'azione politica come il progetto di costruzione di un soggetto e una identità, siamo capaci di articolare il movimento come infrastruttura e agenzia al servizio del comune, dell'intelligenza collettiva e delle forme di soggettivizzazione e di vita in rete. Ed allora torna la gente e il movimento di nuovo è fatto da ognuno e la politica è ancora una volta stare insieme intorno ai problemi che ci riguardano e il senso di questo naviga in una orbita costituente. Quello che abbiamo già conosciuto nella piazza. La politica di cui ha bisogno il presente. Occupy Sandy ha dimostrato che gli amici e le amiche dello spazio Making Worlds avevano ragione quando dicevano a quelli di noi più stanchi che la soluzione non era abbandonare la barca, ma stare, nonostante tutto ed in in qualche modo, nel movimento. Questo è quello che succede ora. Agli stanchi e ai profeti ci tocca ascoltare e imparare, come sempre.

Mali - Il prossimo Afghanistan?


di Immanuel Wallerstein
Fino a poco tempo fa ben pochi avevano sentito parlare del Mali, a parte i suoi vicini e la sua vecchia potenza coloniale (la Francia) ed ancor meno persone ne sapevano qualcosa della sua storia e della sua politica. Oggi, il nord del Mali è stato preso militarmente da gruppi "salafiti" che condividono il punto di vista di Al Qaeda e praticano le forme più dure della sharia – con lapidazioni e amputazioni come pena.
L'occupazione militare è stata condannata con voto unanime dal consiglio di sicurezza dell'ONU, che ha affermato che "costituisce una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale". La risoluzione cita "il rapido deterioramento della situazione umanitaria" e il "finanziamento sempre maggiore di elementi terroristici" e le loro "conseguenze per i paesi del Sahel e altri paesi". L'ONU ha dichiarato di essere preparata a considerare la costituzione di una "forza militare internazionale (...) per recuperare (...) le regioni occupate nel nord del  Malí".
La risoluzione è stata unanime, però non ha mosso niente. Oggi il Mali rappresenta il caso più chiaro di paralisi geopolitica. Tutti i poteri importanti e minori nella regione ed anche più in là sono genuinamente costernati; nonostante ciò nessuno pare disposto o capace di fare qualcosa per paura che fare qualcosa porti a quello che viene definito un processo di ""afghanizzazione" del Malí.
Ci sono per lo meno una dozzina di attori implicati e quasi tutti  sono divisi profondamente tra di loro.
Come è cominciato tutto questo?

lunedì 5 novembre 2012

Desinformémonos del lunedì


Reportajes

Entrevista de Marcela Salas Cassani
Manuel Fuentes Muñiz
Jaime Quintana Guerrero
Desinformémonos
Isaac Sánchez y Mónica Montalvo Méndez
Elvira Madrid Romero de la Brigada Callejera de Apoyo a la Mujer “Elisa Martínez”
Carlos M. Álvarez
Foto: Alejandro Ramírez Anderson
Atenecalling.
Traducción: Daniele Fini
Frente Nacional por la Defensa de los Derechos Económicos y Sociales
ELCOR

Imagina en Resistencia

Katerina Girich

Fotoreportaje

Fotos: Recopilación de páginas de movimientos
Música: "No morirá la flor de la palabra", Subcomandante Marcos
Texto: Desinformémonos
Producción: Desinformémonos

Audio


Realización: Sergio Adrián Castro Bibriesca

martedì 30 ottobre 2012

Siria - Soffiano venti di guerra

Qui, in Siria, la Primavera araba ha perso, più che mai, l’alone sociale e romantico del riscatto sociale, di lotta per le libertà, ed è stata trasfigurata in guerra per il potere interno e sull’intero quadrante medio orientale.

Le elezioni negli USA e il conflitto sociale in Europa possono essere discriminanti.

Le elezioni negli USA e il conflitto sociale in Europa possono essere discriminanti.
La Siria, già da un anno, compare quotidianamente nei notiziari con un elenco di vittime, civili e militari, con distruzioni a catena, in questa o quella città. Le informazioni sulla carneficina che ci giungono sono viziate dalla propaganda delle parti in conflitto: oltre 25.000 vittime e 100.000 profughi in Turchia, Libano e Giordania secondo i ribelli; 7.000 morti e 20.000 sfollati a detta dei governativi. Aldilà dell’aspetto quantitativo sconcertante, in Siria è in corso una guerra civile su cui tutti gli Stati di peso glissano e tengono un profilo basso, all’ONU e nelle sedi istituzionali deputate gli schieramenti politici internazionali sono formali e altalenanti; in Siria gli Stati chiave dell’area medio orientale si sfidano per interposte fazioni di combattenti, dove, non è difficile immaginare, sono all’opera i top gun  dei servizi di intelligence di mezzo mondo.
Per districarci nel ginepraio siriano, dobbiamo, quantomeno, fare una carrellata su quanto è avvenuto nell’area mediterranea e medio orientale, in questi ultimi tempi. La Primavera Araba ha determinato un ricambio nella gestione delle Istituzioni dall’Egitto al Marocco, in alcuni Stati in maniera significativa e sostanziale [Libia], altrove superficialmente [Tunisia], in altri solo di facciata [Marocco]. Questo a livello istituzionale, nella gestione del potere economico-politico, se si esclude – per alcuni versi – la Libia, tutto è rimasto nelle mani delle lobby locali e internazionali consolidate. Un cambiamento, profondo invece, è  avvenuto a livello sociale, in particolare negli strati urbani, acculturati, giovanili, femminili della popolazione, dove l’aspetto insurrezionale, di piazza, comunicativo - con o senza social network -, del vogliamo tutto e subito, ha connotato i comportamenti politici dei moti in tutto il bacino mediterraneo e non solo. Una mutazione sociale antropologica, nel dna di quelle popolazioni urbane, che non ha avuto – per ora – sbocco, ne politico ne istituzionale ma che cova sotto la cenere e il sale che i vincitori stanno spargendo su quelle società, che è capace di riemergere quando il Potere prova – spudoratamente - a mettere il burka alle conquiste sociali [diritti civili] date per acquisite.
Quello che è mancato alle giovani generazioni ribelli arabe, non è tanto diverso da quello che si fa sentire anche nei movimenti occidentali, è un orizzonte ideale chiaro e condiviso. Una spinta alla rivolta che non ha uno skyline definito, a cui tendere, a cui ispirarsi, se non la sperimentazione, qui e ora, di una modello di vita, spesso, ha la durata effimera di una rivolta, è destinata ad afflosciarsi su se stessa.
Di fronte a questo buco nero e disperato ecco che riemergono tutti i dogmatismi, che, in quanto tali, per definizione, non abbisognano di concretezza quotidiana e sociale: la grande presa del fondamentalismo coranico nei paesi della Primavera araba trova qui la sua ripartenza, così come le varie sfaccettature religiose, mistiche o settarie, la trovano in Occidente.
In Siria la Primavera araba ha fatto capolino in ritardo e si ha la netta impressione che vi sia stata importata e/o sospinta da forze, da orientamenti esterni che hanno fatto leva su quelle latenti problematiche etnico-religiose, sempre controllate o soffocate, dal potere familistico, tribale, religioso degli Assad. A chi dava e da fastidio un solido e stabile Regime bahatista [di ispirazione socialista e panarabo, simile a quello realizzato nell’IRAQ di Saddam] siriano, che esercita, da sempre una sorta di protettorato sul Libano e, di conseguenza, anche una forte influenza nelle vicende palestinesi? Certamente ad Israele, agli Emirati Arabi, ma anche alla Turchia per una questione di acque e di Kurdi: dietro a questi attori di prima linea, ritroviamo tutto lo schieramento occidentale, implicato più o meno intensamente. A sostegno del Regime degli Assad apertamente si sono schierati l’IRAN, la Russia e, in maniera un po’ defilata, la stessa Cina. Nella geopolitica internazionale, tanto più in Medio Oriente, ciascuno fa il suo sporco gioco di interessi palesi e nascosti, diretti o incrociati, senza badare a spese e, soprattutto, incurante del numero delle vittime civili [sicuramente oltre 20 mila] e militari. Qui, in Siria, la Primavera araba ha perso, più che mai, l’alone sociale e romantico del riscatto sociale, di lotta per le libertà, ed è stata trasfigurata in guerra per il potere interno e sull’intero quadrante medio orientale.
Lo possiamo  evincere da episodi riportati marginalmente dalle cronache: un drone iraniano intercettato ed abbattuto, forniture militari russe bloccate, responsabili dei servizi di sicurezza siriani e libanesi saltati per aria, attentati ed uccisioni nei quartieri wahabiti, cristiani e drusi nelle città siriane e, ora, anche in Libano, cannoneggiamenti oltre confine in Libano e, ripetutamente, in Turchia: sono tutti episodi - quest’ultimo di gran lunga quello più significativo - che ci segnalano la possibilità, dietro l’angolo, di una internazionalizzazione del conflitto siriano, nato come appendice della Primavera Araba.
Erdogan, infatti, subitamente, ha fatto votare, dal suo Parlamento, il via libera per una risposta anche offensiva agli sconfinamenti e ai bombardamenti dell’esercito siriano, ma soprattutto ha invocato l’art. 4 dello Statuto della NATO, di cui la Turchia è parte integrante, quale bastione orientale nei confronti della Russia e dei nemici asiatici; articolo 4 che implica una solidarietà attiva per tutti gli Stati membri dell’Alleanza Atlantica, a cui è connesso il 5, che obbliga gli Alleati, in solido, alla partecipazione diretta alla difesa/offesa del Paese soggetto ad un attacco[quello usato per la missione in Afghanistan, tanto per capirci]. È di questi giorni il giro di ricognizione per le capitali arabo-mediterranee della Clinton che si concluderà nei Balkani.
Purtroppo le premesse per un allargamento del conflitto ci sono tutte; probabilmente, sono solo questioni di opportunità politiche ed economiche, che frenano o rallentano il precipitare della guerra civile siriana in una resa dei conti medio orientale.
La prossima rielezione di Obama o quella di Romney, in questo contesto, non è indifferente:  Obama ha sempre dichiarato di aver subito, mai di aver condiviso, l’impegno bellico USA, deciso da Bush, ma che ne avrebbe e ne ha onorato gli impegni; altra cosa è l’esposizione muscolare di Romney, espressione, anche, dell’apparato militare e del gotha degli armamenti. Così come non è indifferente il dipanarsi  della crisi economico-finanziaria e del conflitto sociale che attanagliano gli Stati europei: l’essere, attraverso la Nato, impegnanti in un nuovo conflitto, con il corollario di dispendio economico, con una lotta sociale montante, può essere un ulteriore motivo di instabilità politica e di perdita potere contrattuale tra Istituzioni internazionali.

lunedì 29 ottobre 2012

Desinformémonos del lunedì


Reportajes México 

SOFÍA SÁNCHEZ
                     
AMARANTA CORNEJO HERNÁNDEZ Y SERGIO CASTRO BIBRIESCA

GLORIA MUÑOZ RAMÍREZ

JAIME QUINTANA GUERRERO
FOTO: IVÁN CASTANEIRA Y PROMETEO LUCERO

Reportajes Internacional 

SPENSY PIMENTEL
TRADUCCIÓN: WALDO LAO

SOFÍA SÁNCHEZ

SERGIO ADRIÁN CASTRO BIBRIESCA

JAIME QUINTANA GUERRERO

Los Nadies

TESTIMONIO RECOGIDO POR ADAZAHIRA CHÁVEZ EN LA CIUDAD DE MÉXICO

Imagina en Resistencia

ELIANA COSTA, GABRIEL CALVO, PABLO SIZMAN, SERGIO SIZMAN Y GABRIEL SERULNICOFF

Fotoreportaje

FOTOS: SARAIRUA, LAURA TÁRRAGA, PERIODISMO HUMANO, COORDINADORA 25S
MÚSICA: “LA DANZA DE LOS NADIE”, DE HECHOS CONTRA EL DECORO
TEXTO Y PRODUCCIÓN: DESINFORMÉMONOS

Video

REALIZACIÓN Y ENTREVISTAS: SERGIO ADRIÁN CASTRO BIBRIESCA

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!