lunedì 8 febbraio 2016

Messico - San Andrés: 20 anni dopo


di Luis Hernández Navarro

Quasi venti anni fa, il 16 febbraio 1996, a San Andrés Sakam’chén de los Pobres si firmavano gli Accordi di San Andrés su Diritti e Cultura Indigena. Senza foto di rito, gli zapatisti ed il governo federale siglarono i loro primi impegni sostanziali sulle cause che avevano dato origine alla sollevazione armata degli indigeni chiapanechi.

Sebbene il governo federale ed i legislatori della Commissione di Concordia e Pacificazione (Cocopa) desiderassero una cerimonia con trombe e tamburi, i comandanti dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) si rifiutarono di suonare le campane. Con un discorso improvvisato, il comandante David spiegò le ragioni del loro rifiuto:"Vogliamo che sia un atto semplice. Noi siamo semplici, viviamo in semplicità e così vogliamo continuare a vivere".

Non vollero nemmeno farsi fotografare. Lo stesso comandante David disse: “Abbiamo raggiunto solo un piccolo accordo. Non ci lasciamo ingannare che si sia firmata la pace. Se non accettiamo di firmare apertamente e pubblicamente è perché abbiamo le nostre ragioni.”

E, dopo aver denunciato le aggressioni del governo di cui erano stati oggetto e ricordare che "hanno sempre pagato con il tradimento la nostra lotta", disse: "Per questo abbiamo firmato in privato. È un segnale che diamo al governo che ci ha feriti. E la ferita che ci ha inferto, ci ha feriti."

Gli accordi di San Andrés si firmarono in un momento di grande agitazione politica nel paese. Catalizzato dalla sollevazione dell’EZLN, emerse un belligerante movimento indigeno nazionale. La svalutazione del peso a dicembre del 1994 provocò un’enorme ondata di dissenso e la nascita di vigorosi movimenti di debitori con le banche. I conflitti post-elettorali in Tabasco e Chiapas si trasformarono in protesta nazionale a favore della democrazia. Il conflitto tra Carlos Salinas, presidente uscente, ed Ernesto Zedillo, l’aspirante, acquisì proporzioni enormi.

La sfiducia dei ribelli quel 16 febbraio fu premonitrice. Una volta neutralizzata l’ondata di scontento sociale, il governo federale ritrattò la parola. Lo Stato messicano nel suo insieme (cioè, i tre poteri) tradì gli zapatisti ed i popoli indigeni rifiutandosi di rispettare quanto pattuito. Il pagamento del debito storico dello Stato verso i popoli originari fu eluso. Invece di aprire le porte per stabilire un nuovo patto sociale includente e rispettoso del diritto alla differenza, lo Stato decise di mantenere il vecchio status quo. Invece di riconoscere i popoli indigeni come soggetti di diritto sociali e storici ed il loro diritto all'autonomia, si optò per proseguire con la politica di oblio ed abbandono.

La questione non finì lì. Con la decisione di non riconoscere i diritti indigeni, si chiusero le porte al cambiamento di regime. San Andrés aveva offerto l’opportunità di trasformare radicalmente le relazioni tra la società, i partiti politici e lo Stato. Invece di farlo, dal governo e dai partiti politici si spinse per una nuova riforma politica al margine del tavolo del Chiapas. 
Con il pretesto che vivevamo una normalizzazione democratica, si rafforzò il monopolio dei partiti a favore della rappresentanza politica, lasciando fuori dalla rappresentanza istituzionale molte forze politiche e sociali non identificate con questi partiti e si conservò, praticamente intatto, il potere dei leader delle organizzazioni corporative di massa.

Lungi dall'ammainare le loro bandiere di fronte al tradimento, lo zapatismo ed il movimento indigeno mantennero la loro lotta ed il loro programma. In ampie regioni del Chiapas ed in altri stati passarono a costruire l’autonomia di fatto e ad esercitare l’autodifesa indigena. 

Spuntarono come funghi governi locali autonomi, polizie comunitarie, progetti produttivi autogestiti, esperienze di educazione alternativa, recupero della lingua.

Contemporaneamente, si rafforzò in tutti i loro territori la resistenza contro il saccheggio e la devastazione ambientale. Da due decenni i popoli indigeni sono stati i protagonisti principali nel rifiuto all'uso di semi transgenici e la difesa del mais, nell'opposizione al settore minerario a cielo aperto ed alla deforestazione, nell'attenzione per le risorse idriche ed il rifiuto della loro privatizzazione, così come nella rivendicazione della cosa comune. In condizioni molto avverse hanno promosso lotte esemplari.

Nei territori indigeni le riforme neoliberali ed il saccheggio delle risorse naturali hanno cozzato contro l’azione organizzata delle comunità originarie. Come risultato della lotta delle comunità indigene, in diverse regioni del paese molti progetti predatori sono stati sospesi o rimandati a tempi migliori.

La decisione statale di far fallire il tavolo di San Andrés e non applicare gli accordi su diritti e cultura indigeni ha ampliato l’estensione e la profondità dei conflitti politici e sociali al margine della sfera della rappresentanza istituzionale in tutto il paese. I protagonisti sono fuori o ai margini delle istituzioni.

Nel frattempo, l’accordo politico raggiunto tra il governo ed i partiti politici nel 1996 faceva acqua. La società messicana non sta nel regime politico realmente esistente. 

L’approvazione di candidature indipendenti (rivendicata al tavolo di San Andrés su democrazia dallo zapatismo ed i suoi convocati) e la crisi della partitocrazia come la conosciamo, hanno favorito la nascita di forze centripete dentro i meccanismi di rappresentanza politica.


In queste circostanze, non ci stupisce che, a venti anni dalla firma degli accordi di San Andrés, sorgano in seno ai movimenti indigeni e tra gli esclusi, nuovi modi di fare politica fino ad ora inediti. Modi e modalità nei quali non si scatteranno foto. 

http://www.jornada.unam.mx/2016/01/26/opinion/017a2pol

traduzione Maribel

giovedì 4 febbraio 2016

Tunisia - Tra le proteste dei disoccupati e quelle contro la Legge 52


A Kasserine continua la protesta. Dopo gli scontri in piazza con la polizia, alcuni disoccupati hanno iniziato lo sciopero della fame, dentro il Governatorato, con lo slogans "Faites-nous travailler ou bien tuez-nous (Fateci lavorare o ammazzateci".
"Non è il Governatorato al centro delle proteste. E’ lo Stato che noi chiamiamo in causa perché agisca per lo sviluppo delle nostre regioni marginalizzate", hanno dichiarato ai giornalisti.
Anche in altre regioni i giovani,i disoccupati continuano con sit-in e proteste. 
I motivi alla base dello scoppio delle proteste affondano nelle condizioni socio-economiche della Tunisia. Il governo di Ennahda prima, la coalizione attualmente al governo con Nidaa Tounes, diventata secondo partito dal punto di vista numerico dopo l’abbandono di un gruppo di deputati, non hanno mai, ovviamente, affrontato alla radice la necessità di costruire un diverso modello di sviluppo. 
Il mal utilizzo dei fondi pubblici, uniti con la devastante azione del terrorismo che ha portato alla calo totale del turismo creano un cocktail micidiale, che si accompagna dalla corruzione strutturale.
La Tunisia lo scorso 27 gennaio, ha visto aumentare la recrudescenza di pratiche fraudolenti, come confermato dal rapporto 2015 presentato dalla ONG Transparency International. Nel rapporto si afferma anche che "la corruzione politica in particolare, resta un’enorme sfida. La crescita dello Stato Islamico e la lotta contro il terrorismo che è seguita, sono stati utilizzati da molti governi come una scusa per reprimere le libertà civili e la società civile. Lontano dall'essere utile, un simile approccio significa che le reti corrotte ben impiantate incontestabilmente se ne servono ancora di più per alimentare il terrorismo".

sabato 23 gennaio 2016

Tunisia - Oltre il fumo dei copertoni in fiamme


Ultima ora: venerdì 22 gennaio è stato proclamato il coprifuoco dalle 20.00 di sera alle 5.00 della mattina in tutto il paese.
Dallo scorso fine settimana la Tunisia è teatro di forti proteste, che hanno come centro la regione di Kasserine, una delle più povere dell’intero paese e zona vicina ai monti Chambi base dei gruppi integralisti, ma che in breve si sono estese nel resto del paese.
Sabato scorso un giovane Ridha Yahyaoui è morto fulminato dopo essere salito su un palo durante un sit-in di protesta. Stava contestando la sua, come di altri ragazzi, esclusione dalle lista per l’occupazione, avvenuta arbitrariamente, come spesso succede.
Dopo la sua morte le proteste non si sono fermate. A Kassirine si è cominciato a scendere in piazza contro la "rete di corruzione e nepotismo istituzionalizzato dal potere", come racconta il portale Nawat.
Scontri con la polizia, intervenuta su ordine del governo, che ha anche imposto il coprifuoco. Ma la rabbia, l’esasperazione non si è fermata, lo slogan "Travail ! Liberté et dignité !", gridato nel sud della Tunisia ha iniziato a riecheggiare anche in altre città dal sud al nord.
In particolare il 19 gennaio ci sono state manifestazioni nella capitale e in altre zone. Una giornata in cui non sono scesi in piazza solo i "diplomeur chomeur" (disoccupati diplomati) organizzati nella rete UDC ma anche il sindacato UGT, reti ed organizzazioni della società civile, come racconta nel suo articolo la blogger Lina Ben Mhenni.
A quasi una settimana dall'inizio della protesta un ragazzo si è dato fuoco a Sfax, un poliziotto è morto nella regione di Kasserine, molti giovani sono finiti in ospedale ed il governo usa la strategia del "bastone e la carota": mentre continua con il coprifuoco ha dichiarato di voler offrire più di 5000 posti di lavoro ai disoccupati solo per la regione di Kasserine (mossa che di certo non risolve il problema strutturale ma anzi ha rafforzato peraltro la protesta in altre regioni).
Al di là di quel che succederà nei prossimi giorni qualcosa è già successo.
E’ il portato dell’esperienza vissuta in questi 5 anni dalla cacciata nel gennaio 2011 di Ben Ali. Già perchè proprio pochi giorni prima di Kasserine c’è stato il 14 gennaio, anniversario della rivoluzione. 
Due immagini racchiudono l’evento.
Da un lato l’anniversario ufficiale con il vecchio presidente, contornato da esponenti di Nidaa Tunes e di Ennadah che fa il suo discorso ufficiale. Dall'altro in piazza una manifestazione con UGTT ed altri, tra cui i parenti dei "martiri" della rivoluzione che non smettono di denunciare l’impunità delle forze dell’ordine, la criminalizzazione di chi è stato ed è protagonista delle proteste.
Quel che è successo in Tunisia è che in questi 5 anni, tra difficoltà, contraddizioni, speranze spezzate e alti e bassi, in ogni caso si è resistito.
Ci si è confrontati con la difficoltà di comprendere che non basta mandare via un dittatore per cambiare.Le aspirazioni profonde non solo di giustizia economica, ma di libertà vera, di diritti per tutti sono state al centro di una miriade di piccole e grandi iniziative.
Dalle proteste delle donne, alla contestazione delle politiche del governo di Ennadah, alle mobilitazioni per gli omicidi come quello di Chokri Belaid, alle costanti campagne per le libertà individuali, alla denuncia delle devastazioni ambientali fino alle iniziative contro il terrore integralista ed anche l’autoritarismo del governo con la legislazione d’emergenza, applicata dopo gli ultimi attentati.
Quello che si è mosso, in maniera certo a volte poco visibile, ma costante, a volte contraddittorio, come nel momento dei processi elettorali, ha mantenuta aperta una vitalità, una possibilità di azione e discussione pubblica.
E’ questo che ha fatto sì che le proteste di Kassirine finora non restassero solo come episodi di rabbia di giovani ed emarginati che a volte esplode, non solo in Tunisia, in "riot" che non disegnano un futuro, ma che anche altri ed altre, quella che viene chiamata per comodità "società civile" sia scesa in piazza.
E’ questa capacità, lo ripetiamo a volte caotica, contraddittoria, ma che cerca un comune spazio d’espressione di molti e diversi che rende ancora la Tunisia un paese vivo.
La ricerca dietro ogni singola vicenda che sale alle cronache di costruire un caleidoscopio possibile per intravedere una alternativa sociale complessiva, dalle proteste di questi giorni alle mobilitazioni contro le politiche securitarie, alle iniziative della scena culturale, al dibattito in rete, alle piccole ma puntuali campagne sui diritti civili, sulla libertà d’espressione, sui migranti morti nel mediterraneo.
Oltre il fumo dei copertoni, lo slogan "Travail ! Liberté et dignité !", l’interrogarsi e non accontentarsi, fa capire come il paese dei gelsomini, ancor più per la situazione geopolitica dell’intera area, sia un piccolo laboratorio che va sostenuto nella sua complessità d’espressione, sola strada possibile per intraprendere il cammino del cambiamento sociale.

lunedì 18 gennaio 2016

Messico - Le vene aperte del Messico e la borsa canadese



Nel 1971 Eduardo Galeano 
pubblico "Le vene aperte dell’America Latina" un indimenticabile libro, censurato dalle dittature degli anni settanta, che racconta come nei cinque secoli, dalla conquista al colonialismo, il saccheggio delle risorse abbia prosciugato le ricchezze di una terra ricca e rigogliosa, lasciandola in condizioni di estrema povertà. Oggi l’estrattivismo, legato ai perversi meccanismi finanziari ed intrecciato con 
forme "legali ed illegali" di potere, è la moderna forma in cui il saccheggio continua.
Raccontare il Messico contemporaneo è uno specchio di quel che accade non solo in questo pezzo di mondo.

DI COSA STIAMO PARLANDO?
Si calcola che il 70% del territorio messicano abbia potenziale minerario, disseminato nelle Sierre. In particolare il paese è secondo al mondo per produzione di argento, ai primi posti per il rame, quinto per il piombo, sesto per lo zinco, ottavo per oro e via dicendo fino ad arrivare alle "terras raras", ora tanto richieste per l’industria aerospaziale.

Siamo di fronte non più alle vecchie miniere, scavate nella rocce dai minatori raccontati dalle foto di Salgado, basate sullo sfruttamento della mano d’opera, destinate a chiudere quando il filone si esaurisce.
Le moderne e tecnologiche miniere a cielo aperto comportano un danno ambientale ampio ed esteso. Si tratta di attività industriali che consistono nel rimuovere grandi quantità di suolo e sottosuolo e processarle per estrarne il minerale. Da tonnellate di terra "lavorata" si estraggono poche "once" (oncia troy che si usa nel commercio dei metalli preziosi è circa 31 grammi). Per questo c’è bisogno di vaste quantità di terreno: ettari di ampiezza, metri di profondità. Crateri creati con esplosivi, macchine trituratrici al lavoro e poi si il cianuro, sostanza altamente inquinante, che permette di recuperare i metalli dal materiale rimosso. Nella lavorazione si usano ampie quantità d’acqua. L’inquinamento è garantito, con danni che arrivano a decine di chilometri dalla miniera, Nelle vicinanze e non solo non cresce niente. Senza dimenticare le tonnellate di terra "lavorata", che si trasformano in rifiuti inquinanti in molti casi abbandonati.


CHI COMANDA IL GIOCO: LA BORSA DI TORONTO E VANCOUVER
"Il 75% delle società minerarie mondiali (diamanti, oro, rame, cobalto, uranio…) sceglie il Canada come sede legale, e il 60% di quelle quotate in borsa è iscritta al Toronto Stock Exchange (Tsx). Oltre metà dei progetti minerari quotati in borsa al Tsx si trovano fuori dal Canada, e molte società registrate a Toronto non hanno alcuna concessione all'intero del paese. Il Canada si presenta come attento alle questioni ambientali a casa propria salvo poi offrire comodo approdo alle company che non esitano a perpetrare abusi, quando non crimini.
"L’industria mineraria, regina del Canada" da Le Monde Diplomatique

Il caso del Messico è emblematico.

Fin dall’inizio degli anni novanta si sono avviate profonde modificazioni legislative, volte a permettere una diversa gestione del territorio messicano: la modifica dell’articolo 27, frutto della Rivoluzione dell’inizio del novecento, che collegava la proprietà delle terra agli Ejidos comunali e degli articoli che riguardavano gli investimenti stranieri nel paese. A questo lungo percorso di cambiamenti legislativi si aggiunge nel 1994 il Nafta (North American Free Trade Agreement - Accordo nordamericano per il libero scambio).
Dal 1990 al 2000 si costruiscono le condizioni politiche ed economiche perché le corporation, scatole cinesi a marchio canadese, create con capitali americani (spostatesi dagli Usa dove le estrazioni con miniere a cielo aperto proprio in quegli anni vengono sottoposte a restrizioni), canadesi (un ruolo importante giocano nell'accumulo di capitali i fondi pensioni) ed anche messicani (non mancano all'appello i magnati come Slim) e non solo, possano spiccare il volo ed iniziare a acquisire i diritti di concessione per il territorio del Messico.
Dall’inizio del secolo ad oggi le concessioni, normalmente di circa 90 anni, crescono.
Ad oggi è concessionato il 19% del Messico, con stati come Colima e Sonora che arrivano a picchi di circa il 40%. Il governo di Pena Nieto non si tira indietro: negli ultimi tre anni sono state date più concessioni che nei sei anni del precedente governo Calderon.

Ma come vengono quotate in borsa e crescono le corporation dell’estrattivismo?

Il tuo "valore" non è dato da quanto estrai, ora, nella realtà. Ma la quotazione delle tue azioni è data dalle proiezioni di quello che potrai estrarre, al prezzo attuale dei metalli, dal territorio su cui hai le concessioni.
Siti specializzati come BNamericas, ovviamente a pagamento, prospettano miniera per miniera, concessione per concessione i futuribili guadagni indicando agli operatori dove investire.
E’ questo gioco perverso tra in situ ed ex situ, tra estrazione reale e speculazione, che è alla base della finanziarizzazione dell’estrattivismo. Chi ha più concessioni, al di là dell’operatività degli impianti, vince nel tavolo del "denaro che produce denaro" del capitalismo finanziario. E il Messico, ma l’America Latina tutta diventano il tavolo da gioco di chi opera nella borsa canadese. Stiamo parlando di giri enormi di capitali che ovviamente si intrecciano anche con gli interessi sia di investimento sia di riciclaggio di denaro del crimine organizzato. Due facce della stessa medaglia.

Campagna contro la Goldcorp
JPEG - 584.9 KbCOME IMPORRE L’ESTRATTIVISMO
Chiaramente prima di avere una concessione in Messico si deve presentare come prima mossa la richiesta e uno studio di impatto ambientale. Ma questa prima tappa, con il livello di "corruzione" e di infiltrazione della delinquenza organizzata, ovvero della forma strutturale della governance in Messico, non pare presentare grandi problemi.
Formalmente si passa poi alla seconda mossa: avere il parere positivo della comunità locale. E qui si procede con una duplice forma: o con le buone o con le cattive.
Con le buone: comunità, gia segnate dall'emigrazione e dall'allontanamento dal lavoro agricolo (dovuto alle politiche di agrobusiness globale che hanno portato il paese ad importare il 45% degli alimenti dagli Stati Uniti), cedono in cambio di pochi pesos il loro diritto sul territorio. E’ cosi che migliaia di ettari vengono affittati non comprati. Tra l’altro i contratti d’affito non hanno la stessa referenzialità legale delle compravendite, per cui questa realtà resta quanto mai opaca.


Quando la carota non funziona si usa il bastone.
La cronaca è ricca di episodi drammatici di repressione, di violenze perpetrate dalle "forze dell’ordine" e/o dalla criminalità organizzata, contro chi protesta o perché non vuole le miniere o perché dopo aver accettato si rende conto dell’imbroglio. 

La realtà è che per ora le concessioni stanno crescendo, accompagnate dove le miniere sono attive da un’incalcolabile devastazione ambientale.
Non è solo un problema messicano. Le lotte in Perù proprio negli ultimi mesi hanno portato anche nel paese andino a porre il tema nell’agenda politica a partire da casi emblematici come la miniera Tia Maria, peraltro gestita dalla Southern Copper del Grupo Mexico.

In Messico sono soprattutto le zone dei popoli indigeni a fare le spese di questa scelta devastante, che si accompagna in molti casi alle grandi opere, utili più a far circolare capitali leciti ed illeciti insieme all'industria del turismo.

LA DEVASTANTE AVANZATA DELL’ECONOMIA MESSICANA
Nel suo discorso alla nazione Pena Nieto all'inizio del 2016 si riferiva anche a questa forma di saccheggio quando in diretta televisiva, con lo sguardo fisso sul testo preparato, elencava le magnifiche e progressive sorti del paese che "sta crescendo e guidando l’economia dell’America Latina". Oltre a riferirsi al fatto che il Messico, sottoposto alle riforme strutturali, alla privatizzazione di risorse (vedi il caso Pemex e la lo sfruttamento delle fonti idriche), con le nuove forme di produzione stile maquilladoras (pezzi da assembleare oltreconfine) è in testa alla produzione di schermi digitali, quarto per auto (Mazda e Toyota). Dimenticandosi, però, di citare anche il fatto che il Messico è terzo al mondo per esportazioni di capitali illegali dopo la Russia e la Cina.

L’estrattivismo in Messico, si innerva, come in tutta l’America Latina con la forma della speculazione, potente motore del capitalismo finanziario nel mercato unico globale.
A questo si oppone chi resiste e combatte gridando "No alla mina, sì alla vida".

DATI DEGLI INVESTIMENTI STRANIERI IN MESSICO 

Secondo i dati presentati dalla Secretaría de Economía (SE) attualmente esistono in Messico 902 progetti minerari in mano a capitali stranieri. 97 sono in fase di produzione, 42 di sviluppo, 632 di esplorazione, 129 di rinvio e 2 di promozione. La maggioranza dei capitali provengono dal Canada, le cui imprese partecipano a più del 70 % dei progetti. Delle 293 imprese registrate 205 sono canadesi, 46 americane, 10 cinesi, 6 australiane, 6 guapponesi, 5 inglesi, 4 coreane, 2 cilene, 2 indianeed una a testa per Spagna, Italia, Belgio, Lussemburgo, Brasile, Argentina-Italia e Perú.
Lo stato del Messico in cui ci sono più progetti minerari è Sonora con 217, segue Chihuahua (120), Durango (99), Sinaloa (93), Zacatecas (69), Jalisco (60), Guerrero (37), Oaxaca (35), Michoacán (23), Colima (23), Nayarit (22), Guanajuato (20), San Luis Potosí (18), Coahuila (13), Baja California (12), Puebla (10), Estado de México (9), Baja California Sur (7), Chiapas (7), Querétaro (6), Hidalgo (4), Veracruz (4), Morelos (3), Tamaulipas (2), Nuevo León (1).
Tratto da Grieta Medio para armar


Informazioni in:
M4 Movimiento Mesoamericano contro el Modelo neo extractivo Minero
REMA - Red Mexicana de Afectados por la Minería

sabato 9 gennaio 2016

Messico - La Sindaca, El Chapo, il Mando Unico: dietro la trama


In Messico nelle telenovela i colpi di scena vanno per la maggiore. 
Ed ecco che a pochi giorni dalla notizia che aveva fatto il giro del mondo della sindaca Gisela Mota, uccisa a Temixco in Morelos, di nuovo i riflettori mondiali sono puntati sul paese o meglio sul mix delle immagini della ricattura a Sinaloa di El Chapo Guzman, vecchio capo dei narcos, sei mesi dopo l’incredibile evasione, accompagnate dalla gongolante conferenza stampa del presidente Peña Nieto.
Forse spostarsi dai riflettori, che a volte più che illuminare accecano, è la cosa migliore.
Facciamo un rewind e torniamo allo Stato del Morelos, da cui siamo passati in questi giorni con la Carovana Mexico Querido e dove è stata uccisa la sindaca, ex deputata, appartenente ad una corrente interna al PRD. Lo stesso partito che ha fatto eleggere con una coalizione, come governatore Graco Ramírez, personaggio non esente dall’accusa di essere poco pulito. Dopo l’uccisione della sindaca avvenuta a Temixco, una delle tante città cresciute a dismisura negli ultimi anni nella zona corridoio di transito della droga dal Guerrero verso il nord e dove è in atto uno scontro per il controllo del territorio, si è riacceso il dibattito sul "Mando Unico". Tema che a livello internazionale non si è minimamente trattato. 
Di cosa si tratta? 
Già provato, con scarsi risultati, negli anni ottanta ed ora di nuovo in auge il "Mando Unico" significa l’accentramento della gestione della sicurezza e dell’ordine, accorpando e mettendo sotto un unico comando i vari livelli di polizia (municipale, statale e federale) in una zona. La motivazione: i poliziotti locali possono essere maggiormente infiltrati o corrotti e dunque accentrare la gestione della sicurezza permette una maggiore impermeabilità degli apparati. La proposta all'inizio spinta dal PRI ora è sostenuta anche dal PRD. La stessa sindaca uccisa l’appoggiava. 
Peccato che, come hanno denunciato molte ONG dei diritti umani in tutte le zone in cui agisce il "Mando Unico" aumentano i casi di esecuzioni e detenzioni arbitrarie, le denunce di tortura e violazione dei diritti umani. I detrattori del "Mando Unico" dicono che così facendo si espropriano, inoltre, le comunità locali del controllo sulla "loro" polizia. Altri commentano che il "Mando Unico" favorisce la criminalità organizzata: basta controllare un solo apparato invece che tanti. Non secondaria in tutta la questione è la gestione dei fondi per finanziare il "Mando Unico", che vede i governi statali risparmiare i soldi da inviare alle polizie locali e incamerare i soldi federali.
Il Morelos è considerato tra i primi stati per violenza nel Messico (sesto per presenza di fosse comuni). Gli esperti dello scontro tra bande organizzate dicono che oltre ai Guerreros Unidos e a Los Rojos sono altri 6, 7 i gruppi si contendono in controllo di Guerrero e Morelos, dopo l’uccisione nel 2009 di Arturo Beltran Leyva, il cui cartello controllava l’intera area.
Il governatore Graco Ramírez appena eletto ha varato il "Mando Unico" ma 15 Municipi si sono opposti, ritenendo lesa la loro autorità (ed anche i loro bilanci ..). Ora approfittando della situazione il Governatore ha emanato un decreto d’urgenza per istituire il "Mando Unico" anche sui Municipi recalcitranti. 
A lui si è contrapposto, in particolare, Cuauhtémoc Blanco, ex calciatore, sindaco di Curnavaca, eletto anche in questo caso da una coalizione con al centro il PSD (Partito Social Democrata) e varie parti (quelle lasciate fuori dalla torta statale). Tanto di proclami dell’ex calciatore contro il governatore, strali infuocati accusandolo di connivenza con i narcos locali a cui il Governatore risponde dicendo che è il sindaco ad essere colluso con i Guerreros Unidos attraverso la famiglia Figueroa, accusata di riciclaggio di denaro.
Poi oggi la notizia che anche Cuernavaca accetterà il "Mando Unico", Ma ... vigilerà.
Morale di questa questione: nessuno che occupa cariche pubbliche è esente dai trasversali rapporti "ambigui" che caratterizzano la vita politica e sociale messicana.
Si vuol rappresentare come nelle migliori telenovelas una trama in cui i buoni combattono contro i cattivi. Ognuno si dichiara dalla parte onesta e pulita. Ma è una puntata. Nella puntata successiva si scopre che non è così. Tra colpi di scena, alleanze, divorzi, tradimenti e relazioni nascoste che poi vengono a volte svelate, la telenovela continua.
Ma non si tratta di una fiction.
Se si guarda oltre ai riflettori abbaglianti si vede la realtà. 
Se viviamo nel tempo del mercato unico del capitalismo finanziario globale, lo scenario messicano ne è una parte a tutto titolo. 
In questo senso parlare di narco stato può essere insufficente e per certi versi limitativo: non c’è un sistema buono che si oppone ad un altro malvagio. C’è semplicemente una interazione tra piani trasversali politici, economici, imprenditoriali, corporativi che innervano le moderne poliedriche forme dello sfruttamento sociale. 
Dagli affari formalmente illeciti come la produzione ed il transito di droga, la tratta di esseri umani, i sequestri, le estorsioni, la prostituzione, gestiti da vecchi cartelli e nuove forme della criminalità organizzata agli affari considerati leciti come le grandi opere, lo sfruttamento dell’ambiente e delle risorse, la gestione di rami imprenditoriali. Ambedue settori quanto mai in auge visto che con il calo del prezzo del petrolio, la riduzione delle rimesse dei migranti (a proposito è di questi giorni il dato di 190.000 rimpatri forzati dagli States ..) , lo spostamento delle maquilladoras in Asia, c’è bisogno di nuove forme di guadagno. 
Denaro che scorre ed alimenta i flussi finanziari.
Di fronte alla violenza drammatica che si accompagna a questo scenario la soluzione che si propone, come nel caso del "Mando Unico" o dei Centri di Comando (C4, C5), peraltro attivi anche in Guerrero quando sono spariti i 43 studenti di Ayotzinapa, è portatrice di ulteriore militarizzazione dei territori e repressione generalizzata di chi si oppone, accompagnata da violazioni dei diritti umani.
Un clima generalizzato di terrore che porta la gente a rinchiudersi, ad aver paura di protestare, a difendere il "proprio", anche costituendo forme di autodifesa che a volte finiscono per essere usate da questo o quel potere locale o nazionale. Una perversa spirale. 
Uno scenario inquietante che non riguarda solo questo paese, ma è semplicemente specchio di una condizione globale. 
I colpi di scena messicani di questi giorni non devono impedire di guardare alla radice. Non bisogna guardare il dito ma la luna. E’ questo quello che vogliamo fare con MexQue.
Per questo, più che appassionarci alla puntata in onda della telenovela ci sentiamo vicini a chi vuole un cambiamento sociale radicale di fronte alle molteplici forme dell"idra capitalista". 

Carovana Mexico Querido
(Foto di copertina: murales a Tepotzlan - Morelos)

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!