martedì 27 febbraio 2018

Bolivia - Cochabamba. L’acqua è la comunità

Le vittorie dei popoli, anche quelle entrate nella storia, non sono eterne. A Cochabamba, quasi vent’anni dopo la rivolta che ha insegnato a difendere la proprietà collettiva dell’acqua al mondo intero, l’accesso alla fonte primaria della vita è tornato a essere non un diritto ma un privilegio per pochi, la causa di profonde ingiustizie sociali. Ci sono i planes maestros ma, racconta Oscar Olivera, sono stati progettati da tecnocrati e politici con lo stesso fine che aveva la Bechtel nel Duemila: espropriare la gestione comunitaria, questa volta per conto dello Stato boliviano. La sola via resta auto-organizzarsi. Non si tratta di un’opzione necessariamente “minoritaria”: in undici paesi dell’América Latina sono stati censiti oltre 50 mila sistemi comunitari, molto diversi tra loro, che provvedono all’accesso per oltre 30 milioni di persone. L’acqua, come suggeriscono a Cochabamba le voci del passato che parlano al futuro, è la prima materia di cui abbiamo bisogno, per fortuna la più abbondante che c’è nel pianeta, una materia viva che possiamo desiderare ma non possedere. E men che mai vendere. L’acqua è la comunità, la vita insieme


foto tratta da mashable.com
di Marco Calabria


Tu hai la sorte
di portare l’aquilone del mattino

alla terra dei pesci
e alla guerra degli uomini.
Ti prego
acqua benedetta ombra di nuvole
anche se l’avido secolo ti fa infuriare
corri leggera sulla mia mano
non farmi mai naufragare.
(Roberto Roversi)

Ci sono voci del passato che parlano al futuro, ha scritto una volta Eduardo Galeano a proposito della prima grande rivolta contro le multinazionali del terzo millennio. Nelle migliaia di occasioni in cui gli è stato chiesto di raccontarla, Oscar Olivera, il più noto dei portavoce di quella rivolta, la Guerra dell’Acqua dell’anno Duemila, non ha mai trascurato di precisare quale fosse il più potente dei nemici che la gente di Cochabamba aveva dovuto affrontare per vincere. Non erano le multinazionali cui il governo boliviano del presidente-generale Hugo Banzer aveva affidato per quarant’anni la gestione delle risorse idriche cittadine. E non erano neanche il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale o gli squadroni dell’esercito. Il vero nemico da vincere era la paura. La paura di ribellarsi, di finire schiacciati, di non poter essere all’altezza di una battaglia che sembrava impensabile e che sarebbe invece stata essenziale per il mondo intero.

Lo spazio e il tempo in cui si dispiegava, e dunque si rendeva visibile, quella ribellione è stato quello in cui un’intera città, in quegli anni la terza della Bolivia, ha scoperto la sua potenza, il potere di sconfiggere avversari talmente minacciosi che ci voleva un bel coraggio anche solo per nominarli. Non sarebbe accaduto, però, senza altri spazi e altri tempi, meno visibili ma più lunghi e profondi, in cui affondavano le radici e le ragioni della rivolta. Si tratta di quelli degli usos y costumbres di una gestione comunitaria dell’acqua che esisteva da secoli e che c’è ancora. Per comprenderne la portata e la natura, proviamo a fare un bel salto in lungo, fino a un giorno di febbraio del 2017. Arriviamo alla Escuela 21 de Septiembre, il giorno dell’equinozio di primavera nell’emisfero sud, che si trova a soli quaranta minuti dalla piazza centrale di Cochabamba, il luogo più simbolico delle battaglie di strada del Duemila. La campanella della ricreazione è suonata ma, nella città che ha vinto una “guerra”, i bambini non hanno acqua per bere né per lavarsi

Sono ben seicento figli e nipoti delle centinaia di migliaia di persone che hanno lottato diciassette anni prima, quando – per garantire i profitti del colosso statunitense Bechtel, dell’italiana Edison e della spagnola Abengoa, – si voleva impedire alla gente perfino di raccogliere l’acqua piovana.

Le vittorie dei popoli, anche quelle entrate nella storia, non sono eterne. Eterna semmai, in una città cresciuta in una valle andina che ha sete da sempre, potrebbe essere la risonanza delle voci del passato di cui parlava Galeano, quando diventa lotta per difendere l’ispirazione e la sostanza della vittoria del Duemila. È stato così che nel febbraio scorso un piccolo gruppo di persone ha deciso di far da sé, recuperando la cultura che la “modernità” dei tubi, dei rubinetti e del cloro avevano provato a cancellare. L’acqua è infine arrivata alla scuola 21 de septiembre, è venuta dal cielo e ha una gestione comunitaria. Per costruire in un solo mese, e con le proprie mani, un sistema di raccolta dell’acqua piovana con due cisterne della capacità di 52mila litri ciascuna, i papà e le mamme, i maestri e le maestre – con l’aiuto generoso di qualche volontario, tra cui lo stesso Olivera -, hanno utilizzato i tetti e il campo sportivo. Hanno dovuto tener conto della media della piovosità, della topografia della zona e dello spazio disponibile. Sono stati giorni di lavoro molto duro ma anche di un ricco scambio di saperi, di profonda condivisione e di allegria. Soprattutto quando, durante le pause tra le lezioni, i bambini uscivano all’aperto e facevano un sacco di domande.

Da dove viene l’acqua?
A distanza di qualche mese, Oscar commenta quella piccola grande impresa così: «Vedi, magari sembrerà strano, ma io penso che una delle cose più importanti sia proprio il fatto che i bambini e gli insegnanti non hanno fatto ricorso ad alcun ente dello Stato. Dalle istituzioni, forse un giorno sarebbe anche potuta arrivare dell’acqua ma i ragazzini non avrebbero mai potuto conoscerne la provenienza». Sta tutta qui la diversità della relazione con le risorse naturali di certe cosmovisioni in cui ci si può ancora imbattere con frequenza, in particolar modo tra gli indigeni, nel continente sudamericano. A Napoli o a Los Angeles, difficilmente si darebbe un qualche rilievo al fatto di sapere da dove arriva l’acqua. Va da sé che la tentazione di considerarla una merce trova terreno fertile e meno resistenza. Abbiamo chiesto a Oscar chi è che oggi provvede a far funzionare le cose. «Della raccolta dalle cisterne e della distribuzione si occupa la custode della scuola, è molto facile farlo», ha detto. Con i suoi compagni, sta ancora istruendo la custode stessa e alcuni dei genitori sui piccoli lavori di manutenzione ma, «appena possibile, dobbiamo fare un corso anche con i bambini. Hanno tra i quattro e i dodici anni, devono poter cominciare a comprendere la visione andina dell’acqua, il suo essere un bene comune, il valore della reciprocità. Dobbiamo restituire loro non solo la possibilità di vivere dell’acqua ma di conviverci», precisa.

La mancanza dell’acqua alla scuola del quartiere Sivingani non è naturalmente un fatto isolato. A Cochabamba, quasi settecentomila abitanti, secondo stime del 2012, l’accesso alla fonte primaria della vita è tornato presto a essere non un diritto ma un privilegio per pochi, la causa di profonde ingiustizie sociali. Già nel 2009 si rilevava che il Servizio municipale per l’acqua potabile e le fognature (SEMAPA) distribuiva acqua potabile solo alla metà della popolazione (54 per cento), quasi tutta residente nel centro e nel nord della città, dove vivono le persone più facoltose (Ledo, 2009). Gran parte della zona sud e dell’area più periferica del Dipartimento, il conurbano, vengono di fatto escluse quasi completamente dal servizio pubblico. Sono le aree abitate dalla gente povera, assai poco appetibili per il business delle costruzioni, quelle che subiscono anche i maggiori danni dai fenomeni climatici estremi, siccità e inondazioni, che anche a Cochabamba si sono intensificati in modo repentino negli ultimi anni. I pozzi si seccano, l’acqua diventa insalubre. E servono soldi.

Gli abitanti devono arrangiarsi da soli o ricorrere ai camion, che per lo più vendono acqua la cui qualità è molto dubbia a prezzi elevatissimi. Un ottimo articolo di Lucia Linsalata, realizzato per la campagna internazionale “Labradorxas de Agua”, lanciata nello scorso aprile, fornisce dati di grande interesse. Segnala, ad esempio, che nelle periferie urbane del sud di Cochabamba un metro cubo di acqua, né di qualità elevata né igienicamente sicura, arriva a costare tre dollari statunitensi. Nella zona nord, quella dove vive la classe cittadina media e alta, una famiglia che la riceve attraverso il Servizio municipale la paga sei volte meno. La gente del nord est, inoltre, paga in media per l’acqua appena l’1 per cento delle sue entrate, quella della zona sud il 10. Piuttosto sorprendente, no? Più si spende, meno acqua si ha: una famiglia media della zona sud, composta di sette-otto persone, ha accesso e consuma appena 120 litri di acqua al giorno, 30 in meno di quanti ne usa una sola persona delle zone residenziali del nordest e meno della metà del consumo medio pro capite in Italia: 245 litri al giorno, nel 2017, secondo l’Istat.

Oscar Olivera

Lo Stato come la Bechtel
Possibile che le istituzioni, proprio in una città cui, quando si parla di acqua, guarda tutto il mondo siano così latitanti? «Esistono i cosiddetti planes maestros ma sono stati progettati da tecnocrati e politici con lo stesso fine che aveva la Bechtel nel Duemila: espropriare la gestione comunitaria, questa volta per conto dello Stato», è la risposta secca di Oscar. «La giunta cittadina, attraverso SEMAPA, continua a ingannare la popolazione con le promesse di un rifornimento che non arriva mai e le tariffe non tengono in alcun conto il consumo delle famiglie», aggiunge. Ad aggravare la situazione, c’è il fatto che in questo momento la giunta di Cochabamba è in mano alle forze politiche che si oppongono al governo nazionale di Evo Morales. «C’è un sabotaggio reciproco tra i partiti e, come sempre, a pagarne le conseguenze è la gente che soffre la sete da sessanta anni», conclude con amarezza.

Essendo stati testimoni diretti, in un viaggio in Bolivia di molti anni fa, della rottura dei rapporti con il presidente indigeno appena eletto, quando Olivera, il più prestigioso degli esponenti della Coordinadora del agua y de la vida di Cochabamba, fu uno dei pochissimi leader delle lotte a sottrarsi alla cooptazione governativa, non possiamo esimerci dal chiedergli un aggiornamento del giudizio sulle politiche per l’acqua del governo Morales. La risposta è ancora durissima: «Il governo di Evo è stato quasi ‘partorito’ dalla Guerra dell’Acqua. Se la nostra ribellione popolare non avesse vinto contro le multinazionali, non credo che Morales e il MAS sarebbero andati al governo nel 2006. Purtroppo, abbiamo dovuto capire subito che avrebbe voltato le spalle alla gente, per quel riguarda l’acqua, ignorando l’Agenda che avevamo presentato alla fine del 2005. Questo governo ha abbandonato le imprese pubbliche e i sistemi comunitari, l’acqua non arriva a pesare nemmeno per il 2 per cento sul bilancio dello Stato. Tutto quel che si sta facendo adesso è finanziato dalla cosiddetta “cooperazione internazionale”, che dona sì milioni di euro e dollari ma i piani e le soluzioni sono stabiliti solo dal governo e dalla burocrazia della cooperazione. Non esiste alcuna possibilità di partecipazione della popolazione all’elaborazione di quei piani».

Abbandonati dallo Stato, e ripetutamente delusi dalle promesse di estensione della rete idrica municipale da parte di SEMAPA, gli abitanti della zona Sud ancora una volta non hanno scelta. La sola via per portare l’acqua nelle loro case, tutelare la salute delle famiglie e migliorarne le già molto precarie condizioni di vita, ribadendo insieme il diritto ad affermare la propria dignità, è auto-organizzarsi. Una pratica comunitaria molto radicata nella tradizione delle culture contadine indigene andine ma anche in quella dei tanti ex minatori migrati nella regione cochabambina alla ricerca di un clima e di una terra meno duri di quelli di altre zone della Bolivia. Così, da oltre vent’anni, in quest’area marginalizzata di una valle tutt’altro che verde, tra mille e una difficoltà, si scavano tenacemente pozzi e si cercano finanziamenti per farlo, si mettono insieme le piccole somme disponibili e le immense fatiche di un lavoro collettivo. Spesso il lavoro è gestito con turni obbligatori ma logica è quella del bene comune e della cooperazione. In questo senso, il lavoro astratto di tipo capitalista è veramente lontano. Così come, malgrado le difficoltà e le contraddizioni non manchino, si può tranquillamente affermare che nei sistemi comunitari l’acqua sia ben lontana dall’essere considerata una merce.

Centinaia di sistemi comunitari
Aiuta molto, come abbiamo visto nel caso della scuola, la capacità di recuperare antiche conoscenze e saperi organizzativi che non si sono mai perduti a queste latitudini. Non solo, stiamo parlando di popolazioni segnate spesso da una significativa storia di autonomia politica, anche nella gestione e nella distribuzione delle poche risorse disponibili. È questa la ricetta essenziale che ha fatto del sistema comunitario della zona sud di Cochabamba una delle esperienze più rilevanti di gestione dell’acqua in territori urbani a livello planetario. Una gestione comune, molto differente sia da quelle statali che da quelle private, che però difficilmente si può definire un modello, vista la complessità e la varietà di situazioni diverse che riesce a far convivere. Secondo la rilevazione di Labradorxs de Agua, sono almeno duecento i sistemi che compongono la rete delle zona Sud, alcuni raccolgono poche decine di famiglie, altri ne contano quasi mille. Tutti fanno tesoro, in un modo o in un altro, delle conoscenze pratiche derivanti dagli usos y costumbres locali della valle cochabambina. A quei duecento sistemi, peraltro, ne vanno aggiunti quasi altrettanti censiti nelle aree periurbane (Tiquipaya, Sacaba, Colcapiruha, Quillacollo) e un ulteriore numero, imprecisabile ma certo largamente superiore, disperso nelle aree rurali più distanti dalla città di Cochabamba.

Abbiamo usato il verbo “disperdere” non in modo casuale. Per approfondire un concetto complesso quanto interessante, essenziale alla comprensione della relazione tra potere, politica e vita quotidiana in diverse zone della Bolivia, rimandiamo a “Disperdere il potere”, (Zibechi, 2007), grande racconto della “Guerra del Gas” di El Alto, capitale aymara, cresciuta fino a 900 mila abitanti ai margini settentrionali di La Paz. Qui, ci limitiamo a segnalare che, malgrado l’infinita varietà della trama di esperienze comunitarie che si è disegnata nei secoli nel territorio che oggi si chiama “Bolivia”, ciò che le unisce davvero, insieme a forme molto originali di legame tra le persone, restano la tendenza all’auto-gestione e al controllo esercitati spesso senza deleghe dalla stessa popolazione. D’altra parte, per chi non resistesse alla tentazione di uno sguardo tanto “europeo” da sfiorare la prospettiva di una nuova colonialità, per poi giungere a frettolose conclusioni tendenti a incasellare la realtà comunitaria di cui si parla come un esempio di “esperienze minoritarie”, sarà utile ricordare qualche altro numero. Secondo la Rivista Aqua Vitae, n.12 del 2010, in undici paesi dell’América Latina sono stati censiti oltre 50 mila sistemi comunitari che provvedono all’accesso all’acqua per oltre 30 milioni di persone. Dai 16 mila della Colombia (ne usufruiscono 12 milioni di persone) ai 1.456 del Cile (un milione e mezzo i beneficiari), dai 12 mila del Perù (oltre 8 milioni di persone) ai 2.500 del Paraguay (1.200.000 persone). In Bolivia il censimento si ferma a 4.500 sistemi (con 2.250.000 abitanti coinvolti).

Numeri significativi a scala continentale che, naturalmente, non raccontano la complessità di situazioni tanto diversificate e quasi sempre esposte a grandi fragilità derivanti dalle inevitabili contraddizioni interne e dalle grandi pressioni esterne esercitate dalle economie e dalle politiche degli Stati in cui si trovano. Per quel riguarda la stessa Cochabamba, Olivera non è ottimista sul futuro immediato: «Buona parte della popolazione è in questo momento troppo frammentata e disorganizzata, così finisce per subire la subordinazione all’apparato dello Stato. Non è immaginabile a tempi brevi la riproposizione di un tentativo di imporre un’agenda dal basso. Però la gente resta indignata per le ingiustizie e per la mancanza d’acqua. Verrà un momento di articolazione rapida e forte che certamente darà vita a un nuovo poderoso movimento. I piccoli spazi che restano aperti in alcune comunità e in altre esperienze come la scuola di cui abbiamo parlato riveleranno allora tutta l’importanza strategica necessaria alla nuova ribellione che saprà crescere. La gente tornerà a prendere decisioni e deciderà di lottare».


Chi decide? Le istituzioni costituenti o i processi della vita di ogni giorno?
Il tema delle decisioni, così rilevante nell’auspicio espresso da Oscar, contiene una delle domande chiave sulla gestione comunitaria dell’acqua: dove si prendono le decisioni? Per chiunque abbia una qualche esperienza di partecipazione ai movimenti sociali, la risposta sale alle labbra quasi spontanea: in assemblea. Filemón Escobar, ex presidente dell’Associazione Agua 22 de Abril, venuto a mancare nel giugno scorso, dopo essere stato anche uno storico leader sindacale dei minatori e un esponente politico di grande rilevanza sulla scena politica boliviana (è stato a lungo anche mentore politico di Evo Morales), aveva le idee molto chiare: “Un’associazione comunitaria è un’organizzazione dove la popolazione, riunita in assemblea, è la massima autorità”. Certo, l’assemblea è non solo lo spazio pubblico in cui un sistema comunitario dell’acqua nasce, ma anche quello in cui si definiscono i termini, le tariffe da pagare e gli accordi di gestione, insomma le “regole” stesse del sistema.
Eppure, anche in questo caso, non sembra superfluo segnalare che a Cochabamba le regole di funzionamento variano da assemblea ad assemblea e da quartiere a quartiere. Una nuova testimonianza di quanto possa essere improprio parlare di modelli. Non solo. La rilevante questione dei “momenti decisionali” offre forse lo spunto per un invito a non concentrare l’attenzione nel disegno delle “istituzioni costituenti” comunitarie, definizione già in sé piuttosto avventurosa, ma a tenere uno sguardo aperto sulle diverse esperienze di lotta quotidiana. Lotte “genuinamente” auto-prodotte tra mille imprevedibili avversità, ma spesso capaci di costruire e consolidare relazioni sociali diverse tra uomini e donne per soddisfare le differenti necessità di riproduzione collettiva della vita. In altre parole, la comunità non si istituisce, né si sancisce in un dato evento o momento formale. Non si fonda come una società o un’associazione ma è il risultato di un lungo processo di scelte e decisioni, individuali e collettive, per garantire l’accesso comune a quel che desideriamo o di cui abbiamo bisogno. L’acqua, come suggeriscono a Cochabamba le voci del passato che parlano al futuro, è la prima materia di cui abbiamo bisogno, per fortuna la più abbondante che c’è nel pianeta, una materia viva che possiamo desiderare ma non possedere. E men che mai vendere. L’acqua è la comunità, la vita insieme.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI E WEB
Roberto Roversi (1995). Versi tratti da Poetare d’Acqua. Centro Antartide, Bologna
Galeano Eduardo (2010). Carta leída en la ceremonia de apertura de la Conferencia Mundial de los Pueblos sobre el Cambio Climático y los Derechos de la Madre Tierra.
Oscar Olivera, Raquel Gutierrez e altri (2008). Nosotros somos la Coordinadora Fundacion Abril. Cochabamba
Ledo Carmen (2009), El agua es nuestra de cada dia. Retos e iniciativas de una Cochabamba incluyente y solidaria UMSS-CE-PLAG, Bolivia
Linsalata Lucia (2017), Agua en común. Labradorxs de Agua. Fundación Abril, Cochabamba
Zibechi Raúl (2007). Disperdere il potere. Carta-IntraMoenia Roma-Napoli



*Questo articolo fa parte del 15° Rapporto sui Diritti globali Apocalisse umanitaria (Ediesse).

giovedì 22 febbraio 2018

Messico - Conclusa la raccolta di firme per le Presidenziali

María de Jesús Patricio ed il CIG: cosa è stato ottenuto. 

di  R. Aída Hernández Castillo*

Il 19 febbraio si è chiuso il termine per la registrazione dei candidati indipendenti alla Presidenza della Repubblica. Solo tre candidati “indipendenti” sono stati registrati, e tutti tre spendendo giornalmente come o più dei candidati dei partiti politici. 

María de Jesús Patricio, portavoce del Consiglio Indigeno di Governo (CIG) non è riuscita a raccogliere il numero di firme nei 17 stati come richiesto dal sistema elettorale per essere candidata indipendente. Fin dal principio sapevamo che sarebbe stata una battaglia impari su un terreno profondamente marcato dalle disuguaglianze che caratterizzano il nostro paese. 

Mentre Jaime Rodríguez Calderón, El Bronco, per raccogliere le firme spendeva 58 mila pesos al giorno e contava su tutto l’apparato istituzionale del governo dello stato di Nuevo León, María de Jesús Patricio spendeva 860 pesos condivisi con i consiglieri e le consigliere che viaggiavano con lei. Durante tutto il processo sono state affrontate le barriere tecnologiche: la richiesta di un cellulare moderno che permettesse di scaricare l’applicazione per raccogliere le firme, la connettività Internet richiesta, il denaro per la mobilità degli ausiliari; ogni passo rappresentava la lotta contro le disuguaglianze e le esclusioni che Marichuy ed il CIG denunciano.

Devo riconoscere che come membro della Asociación por el Florecimiento de los Pueblos AC che la sostiene, mi sento frustrata per non essere riuscita a superare tutte queste barriere e non avere potuto fare di più per smuovere le coscienze di questo paese intorno all'urgenza di cambiamenti profondi. Questo sentimento si acutizza perché il 19 febbraio mi trovo ad Ahome, territorio yoreme, dove la violenza del crimine organizzato colluso con le forze dell’ordine ha trasformato lo stato di Sinaloa in una grande fossa comune. 
Le testimonianze delle madri dei desaparecidos ci ricordano per l’ennesima volta che ci troviamo in un momento di emergenza nazionale che non si risolve con “corsi di formazione” o “modernizzazioni istituzionali”. 

Vogliamo un cambiamento profondo che nessuno dei candidati che appariranno sulle schede elettorali è disposto a fare.

Il paese è piagato di Ayotzinapa anonime dove le forze dell’ordine colluse col crimine organizzato stanno perpetrando un massacro di giovani sotto i nostri occhi e con la complicità del nostro silenzio. Gli studenti di Conalep massacrati a Juan José Ríos per non aver rispettato il coprifuoco stabilito dal crimine organizzato che controlla l’ejido più grande del Messico; il giovane yoreme studente dell’Università Interculturale di Sinaloa il cui corpo è stato ritrovato in una fossa clandestina a Capomos; i 117 corpi scoperti dalle Buscadoras [Cercatrici – N.d.T.], madri di desaparecidos che con pale e picconi cercano i loro “tesori”, non sembrano suscitare più marce né proteste. Ci siamo abituati a questa politica di morte.

Parallelamente, María de Jesús Patricio percorre il paese per parlare e promuovere una politica di vita. Quando sono invasa dalla disperazione per non essere riuscita a raccogliere le 866 mila firme richieste, penso a quello che si è ottenuto. Nelle sue visite a 126 località in 27 stati della Repubblica Messicana, María de Jesús ed i compagni del Consiglio Indigeno di Governo hanno portato un messaggio di rispetto per la vita ed articolato sforzi organizzativi in difesa della madre terra e contro questi politici dello sviluppo che ci stanno ammazzando tutti, qualcuno in maniera più rapida di altri.

Nel suo percorso ha visitato comunità indigene in resistenza in tutto il paese, comunità e lotte ignorate dagli altri candidati. Ha incontrato le organizzazioni dei popoli totonaco che si oppongono ai megaprogetti di gas fracking in Veracruz; a Texcoco le comunità della valle di México che lottano contro la costruzione del nuovo aeroporto che colpirà non solo i loro terreni agricoli, ma i manti freatici che forniscono acqua a Città del Messico; a Ciudad Neza la sua voce si è unita a quella delle organizzazioni che denunciano i femminicidi e le molteplici violenze contro le donne; in Chiapas ha denunciato la violenza paramilitare che attenta all'autonomia indigena. L’obiettivo principale della sua campagna è stato, e continuerà ad essere, quello di articolare le nostre lotte e costruire alternative di vita dal basso, a partire dal rispetto per la madre terra e la dignità dei popoli.

Il suo appello è stato per difendere la vita e il territorio dalle politiche di morte e riprendere i valori comunitari e le esperienze di resistenza dei popoli indigeni. 

Nel suo discorso a Totonacapan ha detto: “I capitalisti ci vogliono far credere che il nostro territorio sono le migliaia di pozzi petroliferi, le decine di concessioni minerarie, le donne assassinate, le ed i desaparecidos. Ma noi sappiamo che non è così, perché la violenza, la deforestazione, le alte tariffe di luce e acqua, il controllo dell’acqua da parte dei cacicchi regionali e nemmeno i megaprogetti estrattivi sono il territorio indigeno di Veracruz. I nostri territori sono le lingue originarie, le culture ancestrali, le nostre resistenze, l’organizzazione comunitaria che ci invita a non venderci, a non arrendersi né cedere, a non dimenticarci dell’eredità dei nostri antenati, che ci invita ad organizzarci e a governarci esercitando quello che decidiamo collettivamente”.

Lasciando da parte che le regole imposte dall’alto non gli permettono di essere sulla scheda elettorale, il suo appello a non cedere, a continuare ad organizzarci e difendere la vita e il territorio è vigente. Proseguiamo dunque in questa nuova tappa di resistenza. Andiamo avanti.

*Ricercatrice del Centro de Investigaciones y Estudios Superiores en Antropología Social

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

Fonte: La Jornada

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!