venerdì 11 maggio 2018

Ay Nicaragua, Nicaragüita

L’ultima sanguinosa repressione delle scorse settimane ha riportato l’attenzione internazionale sul Nicaragua, mettendo in luce alcune essenziali riflessioni sulle società post-rivoluzionarie del Novecento. A quasi quarant’anni dalla vittoria sandinista dell’estate del 1979, la più giovane e poetica delle rivoluzioni del secolo scorso, ci si chiede ancora come sia stato possibile che Daniel Ortega – il più “politico” tra i suoi grandi protagonisti, quello disposto ad allearsi con chiunque pur di restare al governo – sia diventato poi il simbolo di un potere cieco e corrotto, che ha di fatto privatizzato il Fronte Sandinista e le istituzioni del paese perseguitando ogni protesta sociale e molti dei suoi compagni d’un tempo, a cominciare dal vecchio poeta Ernesto Cardenal. Gli studenti hanno convocato una nuova manifestazione nazionale per il 9 maggio, dove non mancheranno di intonare, con grande disappunto del governo, Ay Nicaragua, Nicaraguita, la canzone composta dai fratelli Mejìa Godoy per la grande Campagna dell’alfabetizzazione, uno dei simboli più straordinari dei primi anni della rivoluzione. Carlos Mejia Godoy, che sostiene l’indipendenza della protesta, ha scritto: non posso essere neutrale di fronte a tanta barbarità e ignominia
Una delle foto della protesta nicaraguense diffusa attraverso le rete sociali
di Raúl Zibechi

“Come fare a non diventare fascista, perfino quando (soprattutto quando) uno crede di essere un militante rivoluzionario?”. La frase di Michel Foucault descrive alla perfezione il processo che soffre il Nicaragua.

Il governo di Daniel Ortega e Rosario Murillo ha decretato una riforma della previdenza sociale che, tra le altre cose, impone una riduzione del 5 per cento delle pensioni per riaggiustare i conti dell’Istituto Nicaraguense della Previdenza Sociale (INSS), seguendo il suggerimento del Fondo Monetario Internazionale. La situazione economica si è deteriorata in conseguenza della crisi venezuelana, però i danni li pagheranno los de abajo.

Com’è noto, la repressione ha causato tra i 25 e i 30 morti in appena quattro giorni. 

L’Articolazione Femminista Nicaraguense denuncia un tipo di repressione molto speciale, “contro i giovani universitari e la popolazione che li appoggia in maniera attiva, mettendo insieme le forze antisommossa della Polizia Nazionale con le forze paramilitari formate da giovani che si suppone siano organizzati in quella che chiamano “Gioventù Sandinista”.
La vicepresidente Rosario Murillo, moglie di Ortega, ha detto nei giorni scorsi di voler aprire un dialogo sull’aumento che colpisce i pensionati. Foto univision.com
La maggioranza dei morti sono stati colpiti dai proiettili dei poliziotti anti sommossa che proteggono i paramilitari. Il governo ha chiuso temporaneamente “i pochi mezzi di informazione indipendenti che ancora esistono nel paese”, secondo quanto denunciano le femministe che definiscono il governo di questi 11 anni “patriarcale, votato all’esclusione e misogino”.

Ciò di cui dobbiamo venire a capo è come si sia potuti arrivare a questa situazione. Come sia stato possibile che una forza politica rivoluzionaria, e dei capi che costruirono il Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale, si siano potuti trasformare in assassini del loro popolo.
Penso che questa crisi porti alla luce almeno quattro questioni.

La prima consiste nel ricordare che non è la prima volta che questo succede con i movimenti rivoluzionari al potere. È la storia dell’Unione Sovietica di Stalin, però è anche la terribile storia di Sendero Luminoso, della guerriglia salvadoregna che assassinò Roque Dalton a causa delle differenze politiche e che organizzò l’assassinio della comandante Ana María. Questioni scomode di cui non si vuole parlare e da cui ancora meno si vuole imparare.

La seconda è che i coniugi Ortega-Murillo hanno commesso dei crimini, senza che la sinistra egemone abbia detto una sola parola, perché per loro tutto sta nel detenere il potere, a qualunque prezzo. Quando Zoilamérica Narváez, figlia della Murillo e figliastra di Ortega denunciò il presidente per violenza sessuale, nel 1998, i partiti membri del Forum di San Paolo non alzarono la voce, né criticarono il denunciato. Quando l’attuale  vice presidente del Nicaragua, la signora degli anelli e dei gioielli, difese il suo sposo contro sua figlia per rendere più forte il suo potere, le sinistre si voltarono da un’altra parte.

L’ex vicepresidente del Nicaragua dei primi anni della rivoluzione, Sergio Ramirez, e la scrittrice femminista Gioconda Belli manifestano a Madrid contro la repressione. Foto Paolo Aguilar
La voce non si levò nemmeno quando, ancora nel 1998, fu firmato il patto di Ortega con l’esponente della destra storica Arnoldo Alemán, un patto che serviva a spartirsi il paese e a proteggere le sue ricchezze. Non ci fu alcuna denuncia contro l’alleanza con il potere economico, la corruzione scandalosa della cupola del FSLN, le minacce agli oppositori di sinistra, quelli che restano i veri sandinisti e accusano di tradimento la cricca di Ortega e Murillo.

Probabilmente, una delle analisi più lucide sulla degenerazione del governo è quella scritta da Mónica Baltodano, nella rivista Envío del gennaio 2014, e intitolata ¿Qué régimen es éste? ¿Qué mutaciones ha experimentado el FSLN hasta llegar a lo que es hoy? (Che regime è questo? Che mutazioni ha sperimentato il FSLN fino a diventare quello che è oggi?). 
La ex comandante guerrigliera (uscita dal FSNL dopo l’alleanza con la destra di Alemán, ndt) indica quattro mutazioni nell’orteghismo che spiegano l’attuale deriva.

Sostiene, in primo luogo, che è stato rafforzato “come mai prima” un regime politico ed economico contro i poveri e a favore della concentrazione della ricchezza e del potere. In secondo luogo, rileva che “s’è fatta più profonda la subordinazione del paese alla logica globale del capitale”, che usufruisce delle ricchezze naturali e della mano d’opera sottopagata in Nicaragua. La terza mutazione è che “l’attuale sistema economico-sociale ha bisogno di farla finita con le resistenze sociali e il regime di Ortega consegue questo risultato esercitando un severo controllo sociale”. E la quarta sta nella concentrazione di potere della cricca che fa capo a Ortega-Murillo.

L’ex presidente dell’Uruguay Pepe Mujica sta promuovendo la candidatura al Nobel per il vecchio poeta Ernesto Cardenal, il primo ministro della cultura del Nicaragua rivoluzionario
Quello della privatizzazione del Fronte Sandinista è stato un processo che si è sviluppato “prima della creazione dell’oligarchia economico-finanziaria del Fronte”, cosa che ha permesso un controllo assoluto delle principali istituzioni del paese, per poter usare “quel potere concentrato al fine di riprodursi, consolidarsi e installarsi al vertice dello Stato per anni”. Baltodano pensa che si tratti di una simbiosi degli Ortega con il potere economico nicaraguense, tra la borghesia tradizionale e la emergente “borghesia rossonera”(dai colori della bandiera sandinista, ndt).

La terza questione che fa luce sulla crisi nicaraguense, è che essa mette a nudo la povertà etica e politica delle sinistre. Più che una povertà, una decomposizione in piena regola. Ci sono ancora “intellettuali” (“mercenari”, come dice un veterano militante comunista) che continuano a menzionare l’intervento dell’imperialismo in Nicaragua per giustificare i crimini. Non ho il minimo dubbio che gli Stati Uniti spingano i giovani nica a rovesciare Ortega. Questo non ha la minima importanza, perché non stiamo qui per giocare una partita a scacchi geopolitica ma per difendere la vita dei popoli, quella vita che il governo di Managua si impegna a distruggere.

La quarta questione è che dobbiamo lavorare duramente per rompere un dilemma di ferro: la politica come guerra, sebbene condotta con altri mezzi, come disse Clausewitz e come celebrò Lenin. La guerra consiste nella sconfitta e nell’annichilimento del nemico, con o senza armi. Credo sia lecito difenderci dai nemici, anche con le armi. Ma fondare la politica sulla guerra (con strategie, tattiche e arti militari) è un cammino che conduce la lotta per l’emancipazione verso un insondabile abisso. 

Ci siamo formati in quella tradizione, ma è ora di ripensarla.

Quando i giovani nica gridano “Ortega e Somoza, sono la medesima cosa”, è perché si è perso il nord, sull’altare del potere. Ci rimane l’esempio dei curdi e degli zapatisti, che resistono senza trasformarsi in criminali.

Fonte: la Jornada

Traduzione per Comune-info: Marco Calabria

venerdì 4 maggio 2018

Messico - Il Chiapas delle 8000

di Rebecca Rovoletto·- 1° maggio 2018

Mi sento al sicuro nel taxi di Gonzalo, posso abbandonare l’allerta del viaggio, la fatica della sua preparazione, i perché ho risposto a un invito arrivato da così lontano. Ora sono qui. Dal finestrino mi incanta una luna storta: sta calando all’ingiù, gobba a terra e sorriso al cielo. Del resto, qui anche i perché usano un punto interrogativo sottosopra, messo lì prima ancora di formulare la domanda. Mi appendo a quel glifo e prende corpo la que sabe, colei che sa: dondola, donna, fiuta, accendi i pori.

All’inizio dell’anno, l’EZLN lancia una convocatoria, una chiamata. Dall’avvio della Otra Campaña gli zapatisti hanno creato molte aperture internazionali e i loro inviti sono stati sempre più frequenti: l’Escuelita, il CompArte, il ConCiencias por la Humanidad. Artisti, intellettuali, scienziati, rappresentanti della società civile e militanti hanno risposto alle loro iniziative, per discutere orizzonti.

Questa convocatoria è però diversa dal solito. È concepita femmina, voluta e organizzata dalle donne zapatiste per le donne di tutto il mondo. Gli uomini non sono invitati, non importa se buoni o cattivi. C’è bisogno di un momento solo per noi, lontano dalle critiche o dalle compiacenze di uno sguardo maschile. Libere di essere ciò che siamo e di fare ciò che amiamo fare, nel nostro modo personale di divaricare crepe nei muri del sistema capitalista e patriarcale. “…in tutto il mondo ci assassinano. E agli assassini che sempre sono sistema con volto da maschio non importa nulla se siamo ammazzate. Quindi, se sei una donna che lotta, che non è d’accordo con quello che ci fanno come donne che siamo, se non hai paura, se hai paura ma la controlli, ti invitiamo a incontrarci e parlarci e ascoltarci come donne che siamo.” Ci chiedono di portare lì, al Caracol IV di Morelia nel sudest messicano, tutto quello che desideriamo condividere come donne impegnate sui più diversi fronti dell’attivismo sociale e politico per la difesa della natura, delle risorse primarie, dei diritti inalienabili, delle minoranze, delle culture originarie, della vita. E siccome il mondo va descritto nella sua complessità, senza lesinare parole, lo titolano Primo Incontro Internazionale Politico, Artistico, Sportivo e Culturale delle Donne che Lottano.

Nello zapatismo vivente nel Chiapas niente di ciò che credi logico o scontato è così. Puoi avvicinarti solo se ti asterrai dal comprimerlo dentro cornici codificate. Perché questi indios contadini ne sanno sempre una più di te e ti ribaltano come quel punto interrogativo. E quando ti chiedono di guardare e ascoltare ti stanno dicendo di cavare via le croste al cervello, di esporre la polpa. E devi anche sapere che solo la millesima parte di ciò che assaggerai potrà essere raccontata, perché senza anime eccitate dai corpi non si comprendono diversità, linguaggi, figurazioni.

Dalle mail organizzative dell’equipe de apojo so che si stanno registrando adesioni da ogni parte del globo, tanto che devono metterle in fila alfabetica: Andorra, Argentina, Australia, Bolivia, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Cuba, Danimarca, Ecuador, El Salvador, Francia, Germania, Giappone, Grecia, Guatemala, Honduras, Inghilterra, Italia, Nazione Mapuche, Nazione Cree e Ojibwa, Nazione Navajo, Nicaragua, Paesi Baschi, Paraguay, Perù, Porto Rico, Repubblica Dominicana, Spagna, Stati Uniti, Svezia, Svizzera, Tanzania, Uruguay, Venezuela e 27 stati del Messico. Parlano di oltre seicento richieste di partecipazione attiva e ci anticipano alcuni dei temi e delle proposte che sono arrivate: 202, un’enormità.

Il 7 marzo mi sveglia il caffè a San Cristòbal, tra le montagne della Sierra Madre a 2.200 metri, nella casa azùl di Francesca, Fabio e la piccola Emma. Si parte dal CIDECI alle 13:30, ora zapatista, dentro un Lacandonia Tour, un camiòn blu che viaggia a passo d’uomo. Dicono che la nostra destinazione finale dista circa duecento chilometri zapatisti, in direzione circa Palènque. Fuori boschi di conifere e qualche ragazzino scalzo che corre a salutare con la mano. A bordo spiccano in risate quattro italiane, delle pochissime che troverò all’incontro. Da questo momento Rosella, Serena, Daniela e Nancy saranno le mie compagne di pannocchie bollite e tamales, di discussioni e stupore. Ma nello zaino ci ho ficcato strette un bel po’ di altre amiche, Arianna, Teresa, Desi, Lisa, Marina, Moira e poi Elena, Giulia, Laura… mi si attacca ai vestiti anche Raffaella. Quale magico filo di ragno ti ha portata a seguirmi qui, Raffaella?

Attraversiamo la regione detta “tzotz-choj” (pipistrello-giaguaro), abitata dai popoli maya tzeltal, tzotzil e tojolabales, tra i principali partecipanti alla sollevazione in armi del ‘94. 

Come molte altre in Chiapas e in Messico, questa zona è stata ed è teatro di lotte contadine per preservare terra, diritti e culture native. Quella zapatista ha preso la forma dei governi autonomi (Municipi e JBG, Giunte di Buon Governo) nella cui costruzione e partecipazione l’apporto delle donne continua ad essere cruciale.

E cruciale, qui, è anche la poesia che impregna ogni cosa, il nucleo profondo di questi popoli. Caracol IV, Torbellino de Nuestra Palabra – Turbine della Nostra Parola – quartier generale della JBG Corazón del Arcoiris de la Esperanza – Cuore dell’Arcobaleno della Speranza. È qui che approda, dopo sette ore di buche e dossi, il nostro eroico Lacandonia Tour. BIENVENIDAS MUJERES DEL MUNDO

Il piazzale sterrato è un girone di zaini, borse, sporte, fagotti, trolley e, attaccato a ciascun bagaglio, c’è una donna da sola, con le amiche, con le altre donne della famiglia, con un bimbo al collo e uno per mano, con l’anziana nonna che si aiuta con un carrellino, con la fidanzata, con le compagne di collettivo. Di ogni età, colore, etnia, nazionalità, lingua, dialetto. Dappertutto piccole donne col passamontagna ci circondano: le nostre ospiti, le donne zapatiste dei Cinque Caracoles. A vigilare e coordinare le miliziane in divisa dell’EZLN “custodi dell’autonomia e di madre terra”. Cosa avranno provato nel vederci arrivare? Nel vedere che quel loro progetto sognato, discusso e organizzato da sole in un buco di mondo è lì sotto ai loro occhi gentili, vero e vociante, ed è enorme? “Perché è dura quando ci dicono che ne arrivano cinquecento ma che si è perso uno zero per strada e ne arrivano cinquemila e più” **

Despierta, mujeres del mundo. Buenas dìas. 8 marzo 2018 ore 5:52. Due accordi di chitarra nel primo accenno d’alba chiamano le donne. È l’inizio di ciò che non ti aspetti, che ti sguscia fuori dal sacco a pelo e ti sguscia dal mondo che hai vissuto sinora per incontrarne moltitudini. Ma non sono mondi altri, ce li hai tutti dentro e mai come ora ti sei sentita così profondamente a casa. Buongiorno alba del giorno che è il giorno. Buongiorno angolo sperduto di terra che hai fatto fiorire tutto questo.

Il primo è il giorno delle donne zapatiste. Si presentano come donne combattenti nella difficile quotidianità di chi ha scelto di vivere la libertà, di realizzare l’autonomia, di imprimere una trasformazione sociale e politica che non ha eguali. Ci regalano la genealogia della loro lotta, il loro sguardo sul mondo e la loro visione di ciò che sarà. Una narrazione fatta di letture, poesie corali, opere teatrali, tornei sportivi, coreografie, musica e canti e danze. Ma si raccontano anche standoci intorno, cucinando per noi, proteggendoci e prendendosi cura di ogni cosa. I loro occhi ci parlano di grazia dal passamontagna, i loro gesti tranquilli e sicuri ci danno il passo e la misura di un tempo umanissimo. La loro attenzione, ironica e curiosa, ci insegna l’accoglienza e l’affettività. Finalmente ti conosco di persona, Difesa Zapatista, piccola e tenace bambina che ogni giorno giochi la difficile partita che ti vede a sera ancora viva e libera.

Con questo loro primo giorno imprimono il senso tangibile del sentimento collettivo dell’essere comunità. Lorena, la sciamana maya, ha predisposto un cerchio di fuoco. È un battesimo. Le parole di apertura ci fondono, spazzano via i nostri brillanti ego e inutili dispute, diventiamo un chingo. “E vediamo, ad esempio quegli alberi laggiù che voi chiamate ‘foresta’ e noi chiamiamo ‘montagna’. E sappiamo che in quella foresta, in quella montagna, ci sono molti alberi diversi. Bene, siamo qui come una foresta o come un monte. Siamo tutte donne… una foresta di donne. Possiamo scegliere cosa fare durante questo incontro. Possiamo scegliere di fare a gara… o possiamo parlare e ascoltare con rispetto. Possiamo fare a gara tra di noi e alla fine, quando torneremo ai nostri mondi, scoprire che nessuna ha vinto, oppure decidiamo di combattere insieme, ciascuna con le proprie differenze. Qui siete tutte benvenute e vi ascolteremo, guarderemo e parleremo con rispetto, compagne e sorelle, noi non giudichiamo nessuno” *

Tutte, senza pudore e tabù, senza dogmi e pregiudizi, ci sentiamo libere di sdoganare quella sensazione inconfondibile di sacra selvatichezza che ci reintegra nella nostra identità umana e femminile. Sì, si è prodotta una magia, una magia pienamente politica, inutile cercare di parafrasare. Tutte quante, occidentali o indigene, di campagna o di città, femministe o meno, intellettuali, fotografe, attiviste politiche e sociali, sciamane, cantadoras, simpatizzanti per qualche partito, suonatrici di tamburi, giornaliste, lesbiche e transgender, danzatrici, esponenti di associazioni e movimenti, artigiane… tutte tocchiamo qualcosa cui dopo due mesi ancora fatichiamo a dare pressappoco un nome, perché dobbiamo inventarcelo un nome per qualcosa che nessuna di noi ha mai visto. Una politica ‘salvatica’.

Escono i tabelloni coi programmi di venerdì e sabato, organizzati in mesas, plàticas e talleres ma anche laboratori improvvisati, mostre ed esposizioni, installazioni, attività di ogni natura brulicanti in ogni anfratto. Lingue ancestrali si rincorrono tra le tende, pentoloni fumano di continuo, musica dappertutto. Se con le prime luci dell’alba ci rendiamo conto di quante siamo, alla fine un totale che sfiora le diecimila donne, con i tabelloni capiamo chi siamo e che siamo tutte qui, con tutti i nostri femminili e femminismi, todas aquì estamos. Torbellino de nuestra palabra. Il turbine delle nostre parole di donne irrompe per tre giorni eterni in mezzo alla Selva. Parole solo in parte verbali. Il femminile, quando ritrova integrità, parla col corpo, con le ovaie, con gli occhi, con modulazioni liquide, con flussi di braccia, con ritmi vascolari. Con questi suoi strumenti naturali il femminile parla di politica. Ne parla e la fa, la politica, cuocendo e nutrendo pensieri, idee, iniziative, azioni poderose.

Giro, ascolto, guardo, partecipo e mi rendo conto che quando, nel mio intervento, dentro un comedor incandescente, ho parlato della colonizzazione dei territori ad opera dei megaprogetti e della colonizzazione della psiche femminile che si infiltra nei movimenti, non ho detto nulla di strano. Ovunque sento rimbalzare la mia stessa riflessione: la monocultura patriarcale ha desertificato ampi territori della psiche femminile, una sorta di land-grabbing ci riduce a pensare, sentire, agire nelle lotte, come donne, secondo quello stesso modello che vogliamo contrastare. Ma qui non sta succedendo. Quel marchio che le zapatiste ci hanno impresso diventa un antidoto e sperimentiamo come si può stare tra di noi facendo politica in modo nuovo, caldo.

Cerchi nascono e respirano con le madri dei 43 studenti di Ayotzinapa spariti tre anni e mezzo fa. Spirali di gonne abbracciano le parole delle migranti transfrontaliere. Danze sincroniche circondano le storie di donne vittime di stupro. Mani a farfalla sui racconti di lotta dei popoli Mapuche. Fili di lana intessono le persecuzioni delle curanderas guatemalteche. 

Una Batucada colombiana ritma le segregazioni razziste nei popoli nativi e afro-latinoamericani. Corse di bimbi intersecano il dramma della Palestina. L’aroma di cannella accompagna il saccheggio dei territori. Rebozos sgargianti e muti sul videomessaggio dal Rojava. Sincretismi in cui grazia, anima, cura, spiritualità si fanno strumenti di politica viva. 

Non c’è frontiera tra uno spazio interiore e uno esterno, tra uno spazio personale e uno politico, tra umanità e natura, tra intelletto e corpo. Tutto co-è, tutto è necessario che sia.

Dal palco cambia la musica. Tolgono l’elettricità, si fa buio pesto e duemila candele zapatiste vengono accese: “Questa piccola luce è per te. Prendila, sorella e compagna. Quando ti senti sola. Quando hai paura. Quando senti che la lotta è molto dura, o che lo è la vita, riportala al tuo cuore, ai tuoi pensieri, alle tue viscere. E non la cedere, compagna e sorella. Portala alle scomparse, alle assassinate, alle detenute, alle violentate, alle picchiate, alle molestate, alle violate in tutti i modi, alle migranti, alle sfruttate, alle morte. Prendila e dì a ciascuna di loro che non è sola, che combatterai per lei… Prendila e trasformala in rabbia, in coraggio, in fermezza. Prendila e unisciti ad altre luci. Prendila e, forse, poi ti verrà da pensare che non ci sarà né verità, né giustizia, né libertà nel sistema capitalista patriarcale. Allora forse ci rivedremo per dare fuoco al sistema. E diremo: ‘Bene, ora sì cominciamo a costruire il mondo che meritiamo e che necessitiamo’. Perché quello di cui c’è bisogno è che mai più nessuna donna al mondo, di qualsiasi colore sia, peso, età, lingua, cultura, abbia paura.” ** Todas aquì estamos.

*dal discorso di apertura, 8 marzo 2018, Capitana Insurgente Erika
**dal discorso di chiusura, 10 marzo 2018, Compa Alejandra

Foto di Maria M. Caire
tratto da Comitato Chiapas Maribel

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!