martedì 15 dicembre 2009

Police Warming


Dopo gli accadimenti di questa notte a Cop.enaghen, è ormai chiaro: dobbiamo affrontare con serietà il problema del “Police Warming” che rischia di peggiorare la vita di tutti, non solo di coloro i quali, in questi giorni danesi, hanno conosciuto gabbie e manette.

Il Police Warming infatti, ha come caratteristica peculiare quella di essere confuso per qualcos'altro. Alcuni si concentrano sulla “dinamica” oggettiva dei fatti, chi ha fatto cosa, alcuni altri su ciò che manca, la “risposta”, l'organizzazione. Ma in realtà oggi noi dobbiamo guardare alla sostanza del problema: il Police Warming, che si caratterizza con vergognosi arresti di massa indiscriminati, trasformati poi in provocazioni mirate contro gli attivisti che parlano in pubblico, che tengono i contatti con legali e ambasciate, che partecipano come delegati delle proprie reti alle riunioni internazionali, è una tendenza pericolosissima che dal cuore dell'Europa ex socialdemocratica, rischia di avvelenare l'intero continente. Il police warming si sviluppa intanto come reazione: dove vi sono concentrazioni di dissenso, di disobbedienza, di non passività accondiscendente verso le istituzioni e i loro tribunati ufficialmente accreditati, allora, come retrovirus, il PW attacca. Ieri sera l'assemblea con Naomi Klein e Michael Hardt era stata partecipatissima. Un grande momento di dibattito per preparare la giornata di domani, il “disobedience day”.

La differenza tra il mercoledì 16 dicembre, a ridosso ormai della conclusione dei negoziati all'interno della conferenza onu sul clima, e gli altri giorni di mobilitazione, è palpabile. La differenza la fa il numero di realtà che sono coinvolte, che mano a mano si sono convinte in questi giorni della necessità di dare un segnale appunto di disobbedienza, di forte e attivo dissenso nei confronti dei “manovratori”, siano essi quelli storicamente affermati, le grandi potenze occidentali, o quelli che oggi, anche in questo contesto, si confermano come i candidati in ascesa nel borsino (capitalistico) dei leader del mondo: la Cina, l'India, il Brasile, i petrolieri di stato dell'America Latina, con buona pace dei veri “poveri”, africani o asiatici che siano. Non è quindi né un caso né una fatalità che ieri sera sia scattata l'ennesima operazione di rastrellamento. Mercoledì 16 è la giornata in cui la disobbedienza prende forma: si districa finalmente da tutte le sovrastrutture contenitive che l'hanno imbrigliata fino ad ora, rendendola affare di pochi e per pochi, e assume le caratteristiche che potenzialmente può avere. Quelle del linguaggio e della pratica multiforme della moltitudine, che nell'affermarsi determina anche la propria “indipendenza”.

Dall'Onu, dagli stati, dai governi, dalle diplomazie corrotte, dagli interessi delle multinazionali nere o verdi, dai presidenti bravi a parlare e da quelli arroganti, antipatici ed idioti. La disobbedienza quindi non imbroglia le carte promettendo di farli fuori tutti. Essa si costituisce come esodo, con la stessa forza con la quale ha saputo dieci anni fa, interpretare un mondo diverso da oggi che celebrava i fasti del neoliberismo e del mercato globale. Per questo il PW, che è uno strumento sempre al servizio del potere costituito che non può, materialmente, concedere l'indipendenza a nessuno, pena la dissoluzione del suo ruolo, si scatena a più non posso, cercando di passare da patologia ( l'eccesso di zelo del controllo sociale democratico ) a pandemia ( la democrazia dell'obbedienza ). Il potere in effetti che cosa è se non la trama infinita dei modi violenti o gentili di trattenere il comando sulla nostra vita?

La disobbedienza si esprime anche denunciando e svelando che cosa c'è dietro il Police Warming, quale è la sua causa, e questo diventa già una prima immunizzazione, produce anticorpi in grado di affrontare il venefico retrovirus che si muove con blindati e soldati. Nessuno deve rimanere solo quando è attaccato. Nessuno deve subire processi farsa senza difesa, senza testimoni che lo aiutino, che rivelino la caratteristica menzognera dei verbali di polizia.

L'elemento della gestione pubblica di ciò che accade è un atto di disobbedienza, perché mette in crisi i modelli precostituiti di gestione di stato già incardinati da tempo come preparazione alla negazione del dissenso. E dalla nostra abbiamo un elemento importante, che si aggiunge a quello oggettivo dello stato del pianeta: la disobbedienza ha carattere di efficacia e di diffusione rapida. Agisce come un anticorpo e si propaga. E' per questo che è tanto temuta.

Luca deve tornare libero, come noi tutti. Combattere il Police Warming è possibile e soprattutto, è il modo per rendere più naturale la nostra vita.

di Luca Casarini

COP.enhagen


Uno dei momenti indubbiamente più interessanti delle nostre giornate a COP15, è la nostra assemblea. Senza voler fare esercizio di autocelebrazione, ma come di un dato di fatto relativo al resto, ad altro che sta da altre parti, quelle straorganizzate e sponsorizzate del KlimaForum, come quelle tendenti al trash dei luoghi “radicali”.

Duecento attivisti, la stragrande maggioranza dei quali molto giovani, che provengono da tante realtà di lotta territoriale, metropolitana, urbana, dell’università, delle scuole medie superiori, che affrontano questo caos con la giusta leggerezza di chi sa di non poter essere risolutivo di tutti i problemi, grandi e piccoli, ma anche con la determinazione a guardare le cose per ciò che sono. E a fare di tutto perché possano cambiare. Mi sono chiesto in questi giorni che cosa avvertono questi compagni di tutto ciò che sta accadendo. C’è una bella differenza per me che ho vissuto Seattle, tra quei giorni americani e questi in Danimarca. Diciamo pure dal giorno alla notte. Sono un poco preoccupato in effetti per questi ventenni: a loro non tocca la fortuna, ad esempio, di trovare insieme ad una moltitudine come quella che disobbediva nella “no demostration area” nella downtown della città della Microsoft e della Boeing, un nemico ben definito, chiaro, e assolutamente in calo di popolarità e legittimità come il WTO.

Qui il primo grande nodo, che colpevolmente tutti coloro che hanno organizzato tutte le iniziative, dentro, fuori, in mezzo, grandi piccole, autistiche o spettacolari, hanno occultato: chi è il nemico? “The Sistem” rispondono radicali e moderati, ma è come dire giovanni o toni o mario. E’ come dire niente. Qualcuno dei nostri in qualche riunione l’ha anche chiesto ad un infervorato oratore che cos’era “The Sistem”. L’America di Obama, le corporations della green economy o la Cina, che qui alla Conferenza ufficiale è divenuta addirittura portavoce dei paesi poveri (!!!). La risposta è che the sistem è tutto. Nemmeno i fratelli Wachowski in Matrix si sono spinti in tanta banalità. La crisi globale che scuote le fondamenta del capitalismo, le implicazioni che essa, nel suo divenire e triturare mosse e contromosse di Stati Governi e Borse, è come fosse un dettaglio. Si passa dall’ineluttabilità della vittoria finale del Popolo, alla scontata possibilità di chi comanda di fare da sé.

In mezzo a tutto questo vi sono loro, i miei compagni e le altre decine di migliaia di persone che hanno marciato sabato per ore. La grande organizzazione del corteo infatti, non si è tradotta in una parata di blocchi sindacali o partitici, e addirittura la testa si scioglieva immediatamente in mille rivoli, gruppi, individui che davano un senso vero di partecipazione, trasformando a colpo d’occhio l’eterogeneità in una potenziale forza comune. Quello era forse il momento giusto, la composizione giusta per investire, anche in termini di disobbedienza, la conferenza ufficiale. Quello era il momento di interrompere i lavori, di far uscire i delegati che giustamente gridano indignati dei maneggi che stanno avvenendo sulla pelle loro e di altri milioni di persone.

Ma anche qui, la separatezza tra la testimonianza e la pratica politica di vita, è stata sapientemente cercata: da chi gestiva palchi e interventi programmati a chi, in coda, si è reso facile strumento di provocazioni da stato di polizia che rischia addirittura di trasformarsi in una cosa ridicola tanto è esagerata. Oggi ci siamo incontrati con alcuni compagni di napoli mentre giravamo con le biciclette che sono il nostro ottimo mezzo di trasporto con cui ci muoviamo da una parte all’altra. Un presidio di Via Campesina si era trasformato da piccolo gruppo di persone ferme con bandiere e comizio, in un corteo spontaneo, con la gente che si univa felice di avere una scusa per andare in mezzo a strade ed incroci, alla faccia degli ordini della “politi”. “E’ bello, le guardie stanno in panico, non sanno che fare” dicevano. Altri di noi erano andati al porto, per l’iniziativa annunciata di blocco delle attività. Trecento persone, di cui duecento stranieri, tutti circondati ancor prima di poter muovere un passo e arrestati. E poi rilasciati. Al KlimaForum è pieno di gente, sempre.

Duemila, tremila persone che ruotano intorno alla sala orange, blue, grey, red in un centro congressi che in mezzo ha pure un hotel e una piscina. Bovè, Vandana Shiva, il rappresentante dei Navaho, le ong dell’america latina. Ognuno si presenta, ognuno dice più o meno le stesse cose, giuste, ma anche altre assolutamente prive di grandi significati. E altre ancora che meriterebbero una discussione, minimo. Tipo la grande celebrazione dei governi “rivoluzionari e socialisti” dell’America Latina. E con il Venezuela di Chavez, che si regge sul Petrolio, e quindi sulla speranza di aumento delle emissioni di CO2 nel mondo, come la mettiamo? E con i biocombustibili brasiliani per cui si deforesta l’Amazzonia? Dettagli. Come lo sono gli indici di crescita capitalistica dell’India, che fanno impallidire i più feroci capitalisti occidentali, ma non sono oggetto di discussione nemmeno per Vandana Shiva, che è impegnata nella presentazione di un’iniziativa sponsorizzata dalla regione toscana e dall’Emilia Romagna. Quando ci ritroviamo la sera, in assemblea, ci si scambia le impressioni. Si confrontano valutazioni e opinioni. Arrivano anche quelli di noi che seguono le riunioni del CJA preparatorie delle manifestazioni quotidiane. “Quanti saremo domani nessuno lo sa. E sulle modalità non si è parlato”. Certo, le provocazioni poliziesche stanno facendo aprire un po’ gli occhi anche agli strateghi più affinati. “Oggi hanno iniziato l’assemblea dicendo: se c’è un poliziotto qui dentro lo preghiamo di andarsene”.

Fiducia nella onestà delle forze dell’ordine. Abbiamo la nostra assemblea, mangiamo insieme, stiamo attenti a quello che accade ad ognuno di noi. Cerchiamo di disobbedire anche al caos, al fatalismo e alla coglioneria. Come una comunità nomade quando si accampa in un territorio abitato da altri, che non conosce. “bisogna avere una casa per andare in giro per il mondo” – dicono gli Assalti. Noi anche qui ce la siamo costruita. Ma non li invidio i ventenni: il compito per tutti, ma soprattutto per loro, è cercare di dare un senso alla necessità di cambiare il mondo. Ma farlo dove radicalità, passione, intelligenza collettiva, indipendenza, moltitudine, sono tutte cose ancora separate e lontane l’una dall’altra, è veramente difficile. Anche se hai la bici.

Luca Casarini

Norreport Station, 13 dicembre notte, cop.enhagen

Repressione a Copenhagen

La polizia danese ha reagito con arresti e violenze a ogni manifestazione di dissenso in questi giorni. Come se gli organizzatori del vertice non potessero ammettere nessuna disobbedienza



di Naomi Klein

Sabato sera, dopo un'intera settimana trascorsa a sfamarci nei punti ristoro e negli snack bar del centro delle conferenze di Copenhagen, con un gruppo di amici sono stata invitata a un'ottima cena preparata in casa da una famiglia danese come tante. Al termine di una serata trascorsa a guardare fissamente e con aria sbalordita i loro mobili eleganti e ben disegnati, alcuni di noi hanno chiesto: «Come mai i danesi sono così bravi in fatto di design?». E i nostri ospiti hanno risposto all'istante: «Siamo veri fanatici, quando si tratta di tenere le cose sotto controllo. Ciò nasce dal fatto che siamo un Paese molto piccolo e pressoché senza potere. Quindi dobbiamo avere controllo su tutto ciò che ci riesce». Allorché questa forma tutta danese di esclusione e controllo si estrinseca nella produzione di lampadari che affascinano in modo inconcepibile e di sedie per la scrivania comode in modo sbalorditivo, è sicuramente un bene. Quando però si tratta di ospitare un summit che dovrebbe cambiare il mondo, l'esigenza peculiarmente danese di tenere le cose sotto controllo si dimostra un problema molto serio.

I danesi hanno investito una quantità enorme di capitali per ribattezzare la loro capitale (oggi chiamata "Hopehagen", la città della speranza") in omaggio a un summit che si presume debba salvare il pianeta. Ciò non sarebbe un male se questo summit effettivamente si rivelasse sulla buona strada per salvare il pianeta, ma poiché le cose non sembrano andare così, i danesi stanno cercando freneticamente di cambiare noi.

Prendiamo per esempio le manifestazioni del weekend: alla fine sono state arrestate 1.100 persone, una vera pazzia. La marcia di sabato ha visto sfilare per le strade circa centomila persone, in concomitanza con una fase molto particolare e delicata dei negoziati sul clima, il momento stesso in cui da vari segnali pareva che le cose stessero per impantanarsi o per risolversi con un accordo dannosamente inadeguato. La marcia era gioiosa e pacifica, ma ad essa hanno preso parte persone molto determinate.

Il messaggio scandito era "Il clima non fa trattative", e in testa al corteo vi sarebbero dovuti essere i negoziatori occidentali. Quando un gruppetto di persone ha iniziato a lanciare dei sassi, facendo esplodere delle bombe sonore (no, non erano affatto colpi di arma da fuoco, come ha riferito con il fiato sospeso l'Huffington Post), i manifestanti li hanno consegnati subito alle forze dell'ordine, dando disposizione a tutte le persone responsabili di allontanarsi dalla manifestazione, cosa che hanno prontamente fatto. Mi trovavo anch'io nel corteo e confesso che nulla ha interferito con la mia conversazione. Definire tutto ciò un "tumulto", come ha fatto assurdamente il British Telegraph non è molto corretto nei confronti di coloro che partecipano veramente a gravi tumulti, e in Europa gli esempi abbondano. Non importa: i poliziotti di Copenhagen hanno preso a pretesto un piccolo vetro andato in frantumi per mettere dentro quasi un migliaio di persone, centinaia delle quali oltretutto sono state ammassate tutte insieme, costrette a restarsene sedute per ore sul marciapiedi gelido, con i polsi legati e in qualche caso anche le caviglie.
Secondo l'organizzatore della manifestazione Tadzio Müller, gli arrestati non avevano nulla a che fare con coloro che avevano lanciato sassi, ma sono stati trattati in modo "umiliante" e alcuni di loro si sono addirittura orinati addosso perché non hanno avuto il permesso di muoversi da dove erano stati sistemati. Gli arresti, che si sono susseguiti per tutta la settimana, sono parsi una sorta di monito molto chiaro: qualsiasi deroga dal messaggio "Hopenhagen" non è ben tollerata. Al summit ufficiale, i delegati a quanto pare si sono riuniti davanti ai televisori a schermo piatto per seguire l'irruzione della polizia e per osservare come gli agenti mettessero spalle al muro i gruppi di manifestanti. Per alcuni di loro ciò è sicuramente qualcosa di familiare. Dopo tutto, questo è quanto il governo danese e altre potenze occidentali stanno facendo qui da tutta la settimana: cercare di spezzare il blocco dei G-77 dei Paesi in via di sviluppo, utilizzando le consuete e classiche tattiche del divide et impera, che annoverano anche la strategia del mettere con lo spalle al muro con qualche offerta speciale soprattutto i Paesi più vulnerabili.

Fonte: L'Espresso 14.12.09

A Copenhagen non c'è mai pace ..

Nella notte tra il 14 e 15 dicembre la polizia a Christiania. 200 fermati.


Come una serata tranquilla si trasforma in un'ennessima operazione di polizia!

La delegazione italiana SYINC, come altre centinaia di persone danesi e straniere questa sera si è recata a Christiania per partecipare ad un dibattito con Naomi Klein e Michael Hardt organizzato dal CJA in preparazione della giornata "Reclaim Power" del 16 dicembre.

A conclusione del dibattito è iniziata una festa e molta gente si è fermata nei vari locali.

All'improvviso la polizia con un blindato e sparando lacrimogeni è entrata dentro Christiania iniziando a fermare le persone e detenendoli.

L'intervento, con l'uso di un elicottero che sorvolava la zona, è avvenuto dopo la costruzione di barricate sulla strada, da parte di qualcuno che poi all'arrivo delle forze dell'ordine è fuggito dentro il quartiere. A questo punto la polizia ha fatto irruzione.

Dalle telefonate che ci giungono la gente viene "selezionata" e fermata a "discrezione totale" della Politi che ha continuato fino a tarda notte a presidiare la zona.

Sono 200 le persone arrestate, 81 delle quali sono attivisti della rete italiana "See you in Copenhagen".

I fermati sono stati portati a Retortvej.

Nel corso della notte le persone vengono rilasciate. Degli italiani Luca Tornatore viene trattenuto e sarà processato in giornata. Pare che tre poliziotti testimonieranno di riconoscerlo come uno di quelli che ha partecipato a costruire le barricate. Una vera e propria provocazione. Ovviamente qualcuno bisognava tenere per cercare di giustificare un operativo di ingresso e fermi di massa a Christiania.

Tutto questo succede proprio a meno di 24 ore dalla giornata del 16 dicembre in cui è prevista l'iniziativa Reclaim the power al Bella Center dove si tiene Cop15.

domenica 13 dicembre 2009

13 dicembre - Primi aggiornamenti della giornata



Dopo che nella notte i fermati erano arrivati a 1000, poco a poco la polizia ha iniziato ha rilasciarli e questa mattina pare sia confermata la notizia che solo una decina di fermi sono stati trasformati in arresti.

Le persone rilasciate hanno denunciato il trattamento subito come vera e propria "tortura e violazione dei diritti umani".

Si è trattato di una grande operazione delle forze dell'ordine danesi che attraverso l'uso del "fermo preventivo", hanno voluto affermare un dispositivo di totale arbitrio per imporre "obbedienza".

Iniziano anche a chiarirsi le dinamiche provocatorie della polizia attuate per cercare di giusticare l'uso massiccio dei "fermi preventivi" e il tentativo di creare problemi nella manifestazione di ieri.

Utile per ricostruire quanto è avvenuto è il racconto che appare in Indymedia Danimarca e che vi proponiamo proprio per ricostruire l'operato provocatorio delle forze dell'ordine.

Articolo in inglese in Indymedia Danimarca

Questo Sabato un corteo di protesta si è svolta, organizzata da un'ampia coalizione di gruppi e ONG da circa 67 paesi diversi. Nonostante le differenze di opinione e politiche, l'accordo di tutti era che la protesta di ieri doveva essere non-violenta, e non serviva per provocare la polizia. Alla fine, 968 persone sono state arrestate e la polizia dice di essere stata costretta ad adottare misure forti per prevenire azioni di 'facinorosi' nascosti nella grande manifestazione di massa. Tuttavia, la polizia avrebbe potuto compiere scelte molto diverse:

Come ci si può aspettare, non tutto ciò che compone la campagna contro i cambiamenti climatici è concordato con gli organizzatori della grande protesta. Attivisti che non hanno voluto assumere il codice della non-violenza della grande protesta, e sottoscrivere le dichiarazioni a volte concilianti da parte degli organizzatori, si stavano radunando sotto lo slogan 'Never Trust A Cop'..

Hanno deciso di fare la loro protesta in altre parti della città. Circa all'una del pomeriggio questi attivisti aveva iniziato a raccogliersi in Højbro Plads. La polizia era presente e perquisiva le persone che arrivano in zona. Alle 13:35, come il quotidiano danese Politiken riporta sul loro internet newsfeed, la polizia dichiara che intende far confluire i manifestanti riuniti a Højbro Plads nella manifestazione principale. Di fronte a questo “suggerimento” ad unirsi alla protesta popolare di massa, i manifestanti in Højbro Plads aumentano. Non di meno, circa un'ora più tardi, alle tre e mezzo, la piazza viene transennata e la polizia comunica ai manifestanti di andare unirsi alla manifestazione di massa su Christiansborg Slotsplads. " La polizia, sempre secondo il giornalista di Politiken, rivolgendosi alle persone “vestite interamente di nero” usava queste parole:

"La manifestazione è partita, dovete muovervi adesso se volete farlo!"

In questo modo, contro la volontà di entrambi gli organizzatori della manifestazione di massa non-violenta e, presumibilmente, degli attivisti militanti stessi, si sono diretti verso la coda della protesta di massa. Quando poco prima di uscire 3 vetrine erano rotte e fuochi d'artificio lanciati, iniziano i problemi e gli attivisti che non potevano correre da nessuna parte, se non lontano dalla polizia e nella marcia di protesta di massa -e a quanto pare la polizia ha usato questo pretesto per arrestare più di 900 persone tra chi era finito a camminare in coda della manifestazione. Quando gli arrestati saranno stati rilasciati dai centri di detenzione, gli organizzatori dovranno gli eventi di ieri, e la polizia presto avrà domande da affrontare sulla motivazione e la purezza dei loro intenti nel creare le circostanze che hanno portato all'arresto di massa più grande della loro storia.

Oltre 100 mila hanno sfilato per le strade della capitale danese.

Corrispondenze dalla mobilitazione del 12 dicembre




E’ partita da Slotsplads Christiansborg / Parliament Square la manifestazione internazionale indetta per oggi, giornata globale di azione contro i cambiamenti climatici. Oggi la prima grande manifestazione in cui i movimenti di opposizione alla precarietà climatica hanno chiamato ad un impegno reale, tempestivo e improcrastinabile "i grandi" sul problema del riscaldamento globale.

Una manifestazione straordinaria, per partecipazione e composizione.

Nella giornata ci sono stati anche pesanti "fermi preventivi" fatti dalla polizia. 400 gli attivisti che sono stati condotti in uno dei centri di detenzione, creati appositamente per i manifestanti.

Clicca per ascoltare la cronaca audio:

ore 19.30 - Le mobilitazioni di questa lunga giornata non sono ancora concluse. Al termine della manifestazione è stato infatti deciso di convocare per le ore 21.00 di questa sera un corteo verso il centro di detenzione nel quale sono rinchiusi la maggior parte dei numerosissimi attivisti fermati oggi.

ore 17.30 - La corrispondenza conclusiva della giornata dal corteo con Vilma Mazza

ore 17.15 - L'intervento di Luca Tornatore dal camion del Cja.

ore 17.00 - Grandissima è la partecipazione alla manifestazione mentre la polizia continua a compiere provocazioni.

ore 16.45 - Il corteo si sta muovendo verso il Cop15 Bella Center.

ore 16.00 - Alcune riflessioni sulla giornata e sulla composizione della manifestazione con Luca Casarini che si trova alla testa del corteo.

ore 15.20 - Momenti di tensione alla confluenza del corteo. La diretta con Vilma Mazza.

ore 15.00 - Il corteo è partito. Azioni mordi e fuggi dei "black block". A questo punto la polizia ha cercato di caricare per dividere in due il corteo.

ore 14.15 - Luca Tornatore spiega la costruzione della manifestazione di oggi.

ore 14.00 - Dalla Piazza del Parlamento di Copenhagen sta per partire il corteo. In questo momento migliaia e migliaia sono le persone concentrate. Imponente la presenza delle forze dell'ordine.

ore 13.45 - Vilma descrive l'inizio del concentramento e raccoglie la testimonianza di Laura dal Climate Forum.

ore 13.30 - Con Tommaso Cacciari, un primo commento dopo la sua scarcerazione.

ore 13.00 - Conferenza stampa al concentramento del corteo, in cui si comunica la liberazione di Tommaso Cacciari e si rivendica la libertà per tutt* subito.

ore 12.00 - Tra poche ore si svolgerà la manifestazione che aprirà la settimana di mobilitazione a Copenhagen.

Un commento con Luca Casarini.

ore 11.00 - La prima corrispondenza della giornata con Vilma Mazza.


sabato 12 dicembre 2009

Copenhagen - Libertà è giustizia climatica. Corrispondenze dalla mobilitazione del 12 dicembre


Oggi la prima grande manifestazione in cui i movimenti di opposizione alla precarietà climatica chiamano ad un impegno reale, tempestivo e improcrastinabile "i grandi" sul problema del riscaldamento globale. Nella giornata ci sono state anche pesanti "fermi preventivi" fatti dalla polizia con la scusa dei "black block" che hanno portato alla detenzione di 400 persone.

Colpo di Stato politico in Turchia: messo fuorilegge il Partito della Società


di Aldo Canestrari

La Corte Costituzionale turca, in data 11 dicembre 2009, ha deciso all’unanimità la chiusura del DTP, “Partito della Società Democratica”, il Partito pro-kurdo presente in Parlamento dal 21 con seggi, e che governa gran parte dei municipi della regione sud-orientale della Turchia.
La motivazione addotta dalla Corte Costituzionale è che il DTP sarebbe una minaccia per l’unità nazionale.
La decisione comporta anche il divieto di svolgere qualsiasi attività politica per cinque anni per 37 dirigenti del partito., e l’annullamento mandato parlamentare di due parlamentari: il presidente Ahmet Turk e la deputata Aysel Tugluk, ai quali è stata tolta l’immunità parlamentare. I beni del partito sono stati confiscati. Il DTP è in Parlamento, in ordine di grandezza, il quarto partito politico, dopo l’AKP, il CHP ed il MHP.

La Corte Costituzionale turca, dalla data della sua costituzione (1963), ha soppresso 26 partiti politici. L’anno scorso aveva anche discusso l’eventuale chiusura dell’AKP, l’attuale partito di governo turco, il partito di Erdogan.
In particolare, i partiti kurdi sono stati continuamente chiusi: prima l’HEP, poi il DEP, l’HADEP, ed infine, per evitare la chiusura, il DEHAP si era dovuto sciogliere, dando appunto vita all’attuale DTP.
I poteri della Corte Costituzionale sono connessi alla attuale Costituzione turca, di impronta autoritaria e nazionalista, emanata nel 1982, all’indomani del colpo di Stato militare del 1980 (emulo di quello cileno di Pinochet per l’entità e la gravità dei crimini di Stato ad esso seguiti).
Sia il partito di governo, sia soprattutto il movimento kurdo, avevano da lungo inutilmente proposto una riforma costituzionale.

In seguito alla chiusura del partito ed all’interdizione alla vita politica di numerosi suoi dirigenti (tra i quali note personalità di rilievo quali Ahmet Türk, Aysel Tuğluk, Leyla Zana e Selim Sadak) in teoria il gruppo parlamentare si ridurrebbe solo da 21 a 19 seggi, ma la direzione del partito
ha per il momento deciso l’uscita dal Parlamento del gruppo parlamentare, e la continuazione nella società civile della lotta per la democrazia e per la pace, nella inalterata fedeltà ai metodi democratici e pacifici.

Come ha sottolineato la direzione del partito, la decisione della Corte Costituzionale, dietro il paravento di un atto “giuridico”, è in realtà una decisione politica, e, vista la sua portata di attacco frontale ai principi della democrazia rappresentativa e dell’espressione democratica della volontà
popolare, e di attaco frontale alla possibilità di partecipazione politica del popolo kurdo, è un “colpo di Stato politico”.
Analoga opinione è stata avanzata da “Human Rights Watch”:
http://www.hrw.org/en/news/2009/12/11/turkey-kurdish-party-banned
http://www.hrw.org/en/news/2009/12/09/questions-and-answers-about-case-against-democratic-society-party

L'Unione Europea, in cui Ankara spera di entrare, aveva avvertito che la messa al bando del partito avrebbe violato i diritti della popolazione curda.

La chiusura del DTP è stata preceduta da una campagna di attacchi continui contro tale partito, sia tramite le numerose aggressioni violente alle sue sedi ed i tentativi di linciaggio, sia tramite la campagna dei mass-media, sia tramite le dichiarazioni dei due partiti nazionalisti (i repubblicani del CHP e gli estremisti sciovinisti del MHP).
La direzione del DTP nei giorni scorsi aveva ammonito: “Siamo un ponte verso la pace e verso la democrazia”, e, in effetti, la chiusura del DTP significa il completo svuotamento della cosiddetta politica di “apertura democratica” che era stata avanzata dal governo ma soprattutto stimolata e incrementata dall’iniziativa kurda; la chiusura del DTP rischia di allontanare a tempo
indeterminato le prospettive di pace, e di precipitare immediatamente il Paese in una spirale di tensioni e di violenza, a partire dagli scontri in corso nel Paese (dove le manifestazioni sono sempre più aggredite dalla polizia: Diyarbakir, Semdinli, Van, Hakkari, Yuksekova…) sino al pericolo di ripresa del conflitto armato tra esercito e guerriglia.

In moltissime località della Turchia si stanno svolgendo affollate manifestazioni di sostegno verso il DTP, diverse delle quali sono state violentemente assalite dalla polizia.

Istanbul, 12 dicembre 2009

Copenhagen - Libertà è giustizia climatica



Dopo una giornata di notizie contradditorie solo a tarda notte giunge la conferma dell'arresto, insieme ad altri attivisti, di Tommaso Cacciari, mentre gli altri italiani fermati sono stati già rilasciati. Pare che l'accusa per Tommaso sia quella di essere uno degli "organizzatori" della giornata di protesta contro il ruolo che le corporations vogliono avere all'interno di Cop 15.

Il processo per direttissima dovrebbe avvenire nella mattinata del 12 dicembre.

Alla conclusione della giornata, l'assemblea della rete SeeYouInCopenhagen, si riunisce nello spazio autogestito che farà da media center e da punto di riferimento durante i giorni di mobilitazione. E' un grande fabbricato, con i bagni e le docce e anche la cucina. Gli attivisti di SYINC lo hanno trovato in extremis, all'ultimo momento, e si sono fatti in quattro per renderlo il più accogliente e funzionale possibile. "Aspettando le notizie sui nostri compagni fermati questa mattina - inizia Gianmarco - intanto possiamo dire che già avere questo posto ed essere qui in oltre duecento è una cosa importante". Sapere che cosa è accaduto ai fermati si rivela un'impresa. L'Ambasciata, che parla attraverso una funzionaria "dedicata" al caso, ammette che la polizia danese "non ha alcun obbligo di informazione". Quindi se qualcuno viene fermato, può essere in stato di fermo ( 12 ore ) ma non sai dove, non sai perchè, non sai quanti, non sai dove li rilasceranno. E se uno è in arresto, e di Tommaso si saprà solo alle due di notte che lo stanno traducendo in carcere, non sai se ha un avvocato, se può nominarlo, quali sono i suoi capi di imputazione. "Le gabbie in commissariato erano piene di gente”- aggiunge un compagno di Napoli, appena rilasciato. Il copione, in Danimarca, è sempre quello. La città al 50% di emissioni, dove ogni cartellone pubblicitario illuminato ti parla di un mondo candido e democratico, sbatte in galera con la facilità di una multa per divieto di sosta. Sono perfetti, certo, quando ti stringono ai polsi le fascette da elettricista in plastica ( sarà riciclabile? ), ma l'intervento chirurgico sulla libertà, per tagliarne dei pezzi, per farla più corta, più ridotta, più piccola, fa ancora più impressione. L'assemblea continua a valutare le cose: qui si deve andare avanti giorno per giorno, capire, ascoltare e se possibile contribuire, dicono in molti. La domanda sorge spontanea: ma per che cosa? “Disobbedire, difronte ad un mondo come questo, non può più essere l'eccezione, né il gesto esemplare che indica la strada. Disobbedire, dentro la conferenza ufficiale, e fuori nelle strade, è l'unico modo di vivere. La precarietà climatica, la precarietà della vita, si rovescia così in precarietà dell'obbedienza. Verso ciò che è la realtà prodotta dal comando, articolato, contradditorio e complesso e che si affanna in questo scorcio di millennio. La realtà, non ciò che narra chi comanda, trasformandola nella sua realtà. Obama, il suo discorso da nobel, salta fuori in assemblea. E' il segno più evidente che una nuova narrazione, un nuovo mondo, non potranno mai nascere dall'obbedienza dei ruoli, delle funzioni, della procedura, del sistema. La guerra globale permanente non cambia la sua realtà, nemmeno se un presidente nero degli stati uniti più in crisi che abbiamo mai conosciuto, tenta di trasformarla in guerra giusta. Ci si infervora sulla Cina, che nella realtà virtuale prodotta dai potenti, vorrebbe passare come “paese povero e in via di sviluppo”, e addirittura dirigere il “global south”, insieme all'India e al Brasile. La Cina, che si è comprata mezzo debito pubblico americano e che ha un ritmo capitalistico di crescita da far impallidire i paesi G8. Gli indios, da dentro la conferenza ufficiale, stanno protestando duramente contro i piani per salvare le foreste ( RED). Spiegano come i paesi come il Brasile spingano sulla “protezione” dell'Amazzonia, perchè diventerà la “banca di crediti ecologici” da offrire agli inquinatori. Per questo loro, quelli che abitano quelle foreste, subiscono trattamenti feroci, deportazioni, genocidi. Hanno la sfortuna di occupare una banca, trattata e protetta come tale, da usare come volano per la nuova speculazione ecologica. La realtà, aqppunto, non è quella che viene descritta, ma quella che si vive. Come nei movimenti, anzi nel difficile compito di intravederne la nuova possibilità in questo mondo così velocemente cambiato, che Seattle veramente è distante un secolo. “Facciamo ciò che è giusto per contribuire a costruire qualcosa di nuovo, di migliore, e tutto quello che va in questo senso, ci va bene”-conclude l'ultimo intervento. Domani, che è già oggi, c'è il corteo e vedremo. Non ci sono schemi, né certezze. Ma la voglia, insopprimibile, di non lasciare che la nostra realtà, quella di persone che ci credono che il mondo deve essere cambiato, la scriva qualcun altro che non crede più a nulla. Tommaso, e tutti noi, LIBERI!

Dall'Assemblea SYINC

Primo giornto .. e una parte di notte ...

L'unico partito Kurdo in Turchia Messo Fuori legge


UIKI-ONLUS

Ufficio d’Informazione del Kurdistan in Italia

COMUNICATO STAMPA

DTP MESSO FUORI LEGGE

Oggi la corte costituzionale ha messo fuori legge il partito Kurdo e ha fatto cadere il mandato del presidente Ahmet Turk, la deputata Aysel Tugluk e altri 37 dirigenti del DTP hanno avuto il divieto di fare politica per 5 anni, con la motivazione di essere una minaccia per l'unità nazionale secondo gli articoli 101 e 102.

I 37 dirigenti politici curdi sono :

" Abdulkadir Fırat, Abdullah İsnaç, Ahmet Ay, Ahmet Ertak, Ahmet Türk, Ali Bozan, Ayhan Ayaz Aydın Budak, Ayhan Karabulut, Aysel Tuğluk, Bedri Fırat, Cemal Kuhak, Deniz Yeşilyurt,i Ferhan Türk, Fettah Dadaş, Hacı Üzen, Halit Kahraman, Hatice Adıbelli, Hüseyin Bektaşoğlu, Hüseyin Kalkan, İzzet Belge, Kemal Aktaş, Leyla Zana, Mehmet Veysi Dilekçi, Metin Tekçe, Murat Avcı, Murat Taş, Musa Farisoğlulları, Necdet Atalayı, Nurettin Demirtaş ve Selim Sadak."

Condanniamo fortemente la decisione della corte costituzionale della Turchia, che non aiuta ad soluzione pacifiche e democratiche della questione kurda. Questo decisione rallenta ulteriormente la democratizzazione della Turchia e cerca di spingere il popolo kurdo fuori della scena politica. Siamo sicuri che il nostro popolo non lasciare la strada politica e pacifica per la soluzione della questione kurda ma se l’EU vuole una Turchia democratica deve intervenire per far cambiare la legge che riguardo i partiti politici. Una Turchia che nel 21. Secolo mette fuori legge l’unico voce politica Kurda in Turchia non dovrebbe avere il diritto di entrare UE.

Chiediamo al opinione pubblica europea di non lasciare il popolo kurdo da solo ed di sentire la suo voce per aiutare la Turchia ad affrontare e tollerare le minoranze e le diversità.

Copenhagen - Don't Buy the Lie, Our Climate - Not Your Business!

61 fermi all'apertura delle mobilitazioni. 7 gli italiani.


Guarda i video

Questa mattina intorno alle 10.00 diverse decine di attivisti si sono dati appuntamento a Nytorv, una delle piazze principali della città accanto al Municipio, per prendere parte alla giornata di mobilitazione sotto lo slogan “Don't Buy the Lie, - Our Climate - Not Your Business”. Una giornata di protesta contro le corporation che partecipano a Cop 15.

Al concentramento erano presenti inizialmente 200 persone, molte altre se ne sono aggiunte nell’ora successiva. Alle 11. 00 , quando ormai i manifestanti erano più di 800, la polizia ha annunciato che la manifestazione andava sciolta. Dopo alcuni minuti la polizia ha circondato i manifestanti, i quali hanno cominciato a disperdersi formando gruppi più o meno numerosi per sfuggire ai continui accerchiamenti e raggiungere uno degli obbiettivi della contestazione: Expo Green Business durante COP15.

Difficile dare una visione sulle pratiche di piazza utilizzate oggi. Confuse e poche chiare erano le indicazioni date dai promotori dell’iniziativa, sicuramente una manifestazione dai toni pacifici e creativi.Rumorosa, scandita a suon di samba.

Durante il tragitto sono stati diversi i tentativi di blocco da parte della polizia.

L’ingente dispositivo di “sicurezza” messo in piedi dal governo danese, ha prodotto nella giornata di oggi 61 fermi. 7 gli italiani che in questo momento sono trattenuti nella carceri speciali. Per alcuni di loro pare essere confermato lo stato di arresto in base alle nuove disposizione repressive entrate in vigore nei giorni scorsi. .

Sullo sfondo di questa giornata si intrecciano tutti i dubbi che i movimenti avevano già sollevato settimane fa sul significato che assume questo meeting dopo le dichiarazioni unilaterali di Usa e Cina. Nella capitale danese attivisti delle reti internazionali protestano in un clima repressivo che tenta di togliere spazio e visibilità a chi quotidianamente si muove sul terreno del conflitto per la giustizia climatica. Nella cittadella del vertice, soprattutto dalle delegazioni del Global South , protagonisti in questi giorni di manifestazioni spontanee a carattere di denuncia, emergono i primi segni di insoddisfazione.

Nella mattina, mentre il corteo si snodava nel centro cittadino, la polizia ha fatto irruzione all’interno del Ragnhildsgade convergence centre dove sono state effettuate perquisizioni e fermi.

In questo clima si è inaugurata la prima giornata di mobilitazioni. Domani il corteo internazionale che prenderà il via intorno alle ore 13.00.

Intorno alle 23,30 è arrivata la notizia che uno degli attivisti italiani è stato arrestato e sarà processato mentre gli altri sono stati rilasciati.


giovedì 10 dicembre 2009

Copenhagen - Ormai... ci siamo




La Conferenza mondiale sul clima ha preso avvio a Copenhagen, confermando già in questi primi giorni la totale arretratezza istituzionale nell’approccio alla crisi globale che stiamo tutti subendo.

Tatticismi della diplomazia, esternazioni di capi di stato e spamming disinformativo degli uffici delle grandi corporations del carbone e del petrolio, tolgono letteralmente l’aria ad un vero dibattito pubblico che voglia affrontare il nodo della precarietà ambientale legato al modello di sviluppo dominante.

E’ in questo quadro che migliaia di attivisti stanno confluendo a Copenhagen, e tra questi anche la rete “see you in Copenhagen”. Il primo obiettivo era per noi raccogliere adesioni all’andata collettiva nella capitale danese, attorno a chiare posizioni politiche sintetizzate nel nostro primo documento: oggi possiamo dire che oltre duecento attivisti italiani della rete saranno a Copenhagen per partecipare in molte forme alle mobilitazioni e al dibattito. Il secondo obiettivo era riuscire ad autorganizzare ed autogestire la nostra presenza creando un luogo collettivo e condiviso, dove affrontare insieme non solo i problemi logistici legati alla nostra permanenza per tutte le giornate di iniziativa, ma anche dove poter impostare un confronto continuo tra di noi e un luogo, l’assemblea degli aderenti alla rete, dove discutere e scegliere quotidianamente come muoverci e perché. Anche questo è stato raggiunto e oggi possiamo annunciare che la rete “see you in Copenhagen” autogestirà uno spazio proprio, che si aggiunge quindi ai tanti spazi di realtà europee e mondiali creati in questi giorni.

Annunciamo per Venerdì 11 dicembre la prima assemblea generale della rete che si terrà all’interno di questo luogo condiviso ed autogestito (per info 004525326245). La rete “see you in Copenhagen” ha inoltre autoprodotto un proprio foglio di comunicazione in inglese che sintetizza il dibattito che ha costituito questa realtà collettiva, e il tipo di approccio con cui stiamo a Copenhagen.

Un modo di essere presenti e di partecipare il nostro, che fa da presupposto ad ogni azione che compiremo: vogliamo con umiltà essere parte, dal dibattito delle ong al Clima Forum fino alle iniziative del CJA, senza rinunciare alla necessità di valutare, di vedere con i nostri occhi, di stare ad ascoltare e di conoscere e capire. Questo per noi vale in ogni situazione, dagli incontri di discussione alle azioni di piazza. Crediamo che sia profondamente necessario intraprendere una nuova, grande battaglia globale sulla crisi climatica ed ambientale, che per noi è così centrale da rappresentare ogni livello di crisi, dalla finanza al lavoro, dalle migrazioni alle guerre, che il sistema capitalistico sta producendo, ma proprio per questo non ci interessano ne tattiche né rituali, né affermazioni identitarie precostituite né posizioni ideologiche che hanno già la risposta per tutto. Per quanto riguarda le azioni di lotta, cercheremo di partecipare a tutto ciò che è capace di indicare, anche radicalmente, la necessità di un mondo migliore, e invece cercheremo di non essere parte di ciò che esprime solo frustrazione e autorappresentazione.

La situazione che viviamo è indice di un cambio epocale, dell’affermazione di una situazione globale e geopolitica completamente mutata, e anche solo per capire chi comanda, al di là di un generico “capitale”, bisogna abbandonare gli schemi e saper guardare alla realtà.

Riteniamo interessante poter seguire in qualche forma il dibattito e lo scontro tra diverse posizioni che avviene all’interno della conferenza ufficiale, non per gli esiti di quest’ultima, ma per le implicazioni e per costruire nuove chiavi di lettura sulla crisi. Come è importante per noi poter ascoltare alcuni incontri del Clima Forum proposti da varie ong. Ed infine partecipare alle forme di mobilitazione e discussione del CJA, già previste o decise in loco.

Il 12 dicembre parteciperemo alla grande manifestazione di apertura della settimana di mobilitazione, all’interno dello spezzone del CJA, raccogliemdo l’appello che questa realtà ha rivolto a tutti. Ogni giornata per noi si concluderà con la nostra assemblea nel nostro spazio autogestito.

Brasile, Parana - Coltivando semi per un futuro migliore

Al posto di sementi transgeniche un Centro di Agroecologia


Nello stesso terreno in cui la Syngenta sperimentava illegalmente sementi transgeniche, contaminando il vicino parco di Iguaçù, nasce oggi il primo Centro di Ricerca sull’Agroecologia, gestito da Via Campesina e dal Mst, in collaborazione con lo Stato del Paranà. Verranno create qui le nuove soluzioni per i contadini di tutto il Paese che vogliono liberarsi dalle catene dell’agronegozio e praticare una agricoltura sostenibile.

di Carolina Bonelli, da Cascavel, Paranà, Brasile

«Dopo 30 anni di lotta, il Movimento Sem Terra costruisce oggi una tappa fondamentale che sarà ricordata nella storia» così João Pedro Stédile, membro della Direzione nazionale e fondatore del Mst, commenta emozionato l’inaugurazione, avvenuta sabato scorso, 5 dicembre, a S.ta Tereza do Oeste, nell’estremo ovest del Paranà (Sud del Brasile), del Centro di Ricerca in Agroecologia Valdir Mota de Oliveira e del monumento Keno Vive, in omaggio al militante Sem Terra e di Via Campesina ucciso nel 2007 dalle milizie private della multinazionale svizzera Syngenta.

Presenti all’inaugurazione, oltre a Stédile, il Governatore dello Stato del Paranà, Roberto Requião, il Segretario Statale dell’Agricultura, Walter Bianchini, deputati statali e tecnici dell’Istituto de Agronomia del Paranà (Iapar), e ovviamente migliaia di contadini, accampati e assentati dei movimenti sociali Via Campesina e Sem Terra, numerosi giovani studenti delle scuole e degli istituti tecnici agricoli della regione, studenti, ricercatori e professori dell’Unioeste (Università Statale della regione Ovest del Paranà), impegnata con numerosi progetti di ricerca e cooperazione a fianco dei movimenti contadini.

Presenti anche numerosi soldati della Policia Militar, per proteggere la cerimonia dalle proteste dei “ruralisti”, latifondisti, grandi proprietari e difensori del transgenico, che a poca distanza dall’evento hanno organizzato picchetti e striscioni contro l’Mst e contro un governo “amico di un movimento criminale”.

Da luogo di morte a luogo di vita

«Ricordiamoci che questo era un luogo di morte, pieno di veleno e di transgenico. Oggi si trasforma in uno spazio di vita, di agricoltura ecologica – esclama dal palco il Reverendo Carlos Alberto Tomé da Silva, aprendo la cerimonia ufficiale di inaugurazione – È una conquista di tutti, dei movimenti sociali, di Via Campesina, del Mst, degli abitanti di questa regione e dello Stato intero».

Il 21 ottobre del 2007, Valdir Mota de Oliveira, detto Keno, viene ucciso dalla sicurezza privata della Syngenta, durante un’azione di protesta del movimento all’interno del Centro Sperimentale della multinazionale, occupato e ribattezzato dall’Mst “Accampamento Terra Livre”. Il movimento denunciava la realizzazione di esperimenti con sementi di mais transgenico in una zona definita di “amortecimento”, una fascia di territorio in protezione del Parco Nazionale di Iguaçu, esperimenti illegali e vietati dalla Legge nazionale di Biosicurezza. Negli scontri, oltre al militante, rimane ucciso anche un vigilante della Syngenta.

La grande ripercussione di questi fatti sull’opinione pubblica e la sistematica lotta e pressione dei movimenti, fa sì che nell’ottobre del 2008 la Syngenta ceda 127 ettari della proprietà al Governo dello Stato del Paranà, che a sua volta lo cede in uso allo Iapar.

Dalla collaborazione tra questo istituto e i movimenti sociali, nasce il Centro de Ensino e Pesquisa em Agroecologia Valdir Mota de Oliveira: «insieme al Mst, alle Università della regione, faremo un lavoro di ricerca molto importante per l’agricoltura e per i piccoli contadini di tutto il Brasile», dichiara un rappresentante dello Iapar, a cui fa coro Bianchini, segretario dell’Agricultura: «è importante capire che le alternative tecnologiche e i saperi ecologici che verranno costruiti all’interno di questo Centro, creeranno le condizioni per gli agricoltori brasiliani di essere indipendenti dall’agronegozio e dalle grandi multinazionali che vendono fertilizzanti chimici e sementi geneticamente modificate. Le risoluzioni create qui con una metodologia orizzontale e partecipata verranno distribuite per tutto il Brasile e in particolare negli assentamenti dei Sem Terra». Esperimenti, quindi, non solo diretti verso un’agricoltura in tutela dell’ambiente e che produca alimenti sani, ma anche verso un’agricoltura socialmente sostenibile, che appoggi i piccoli proprietari di terra e gli assentati della Riforma Agraria, nel processo di rivalorizzazione del proprio ruolo cruciale di produttori di sovranità alimentare e di riscatto culturale dei propri saperi indeboliti e marginalizzati dalla crociata della Rivoluzione Verde degli anni 60 e 70.

Agroecologia VS Agronegozio

I dati del Censo Agropecuario del 2006 dell’Istituto brasiliano di Geografia e Statistica (Ibge) parlano chiaro: l’agricultura familiare brasiliana, occupando appena il 24,3% dei terreni agricoli del paese, è responsabile per la produzione del 87% di mandioca, 70% di fagioli, 46% di mais, 38% di caffè, 34% di riso, 21% di grano, 58% di latte, per il 59% di allevamento suino, 30% bovino e 50% di pollame, impiegando il 75% della manodopera rurale. Chi produce la ricchezza agricola e il sostentamento alimentare del paese?

Ma questa agricoltura familiare nella maggior parte dei casi è solo un ingranaggio integrato nelle logiche delle grandi multinazionali produttrici di fertilizzanti chimici e sementi migliorate e transgeniche, come la Bayer, la Pioneer, la Monsanto. Sempre dai dati dell’Ibge del 2006 risulta che in Brasile solo l’1,75% degli stabilimenti agricoli coltivano prodotti organici.

Negli stessi assentamenti del Mst, le famiglie che producono senza l’impiego di veleno e di sementi migliorate costituiscono una percentuale scarsissima. «Non si sa più coltivare, nella maggioranza dei casi negli assentamenti troviamo cittadini delle favelas e non contadini – dichiara Eugenio Neto Guerreiro dos Santos, tecnico dell’Emater (Istituto Paranaense di assistenza tecnica e cooperazione rurale) di Quedas de Iguaçù e responsabile dell’assistenza tecnica alle 30 famiglie di produttori agroecologici dell’assentamento dell’Mst di Palmital, dove vivono oltre mille famiglie – Troviamo persone imperniate dei valori della Rivoluzione Verde: produttività, immediatismo, guadagno economico. Vogliono estrarre il più possibile dalla terra, senza prendersi cura di lei».

«La nostra lotta oggi non è più solo contro il latifondo, ma contro la dittatura dell’agronegozio, che ordina di piantare senza rispetto per l’ambiente e per i lavoratori rurali – dichiara Stédile – È un modello irresponsabile, fondato su una tecnologia straniera che si basa sulla monocultura, resa possibile solo da un alto indice di meccanizzazione e dal massiccio uso di agrotossici, con la conseguente espulsione dei contadini dal campo, e il loro ammassamento nelle favelas delle grandi città, dove dimenticano i loro saperi e generano figli che non ricordano più cosa sia un campo».

Questo modello di produzione agricola ha fatto sì che il Brasile risultasse campione al mondo per presenza di veleno da agro tossico negli alimenti, con conseguenze pericolose in termini di salute dei propri cittadini.

«Pochi governatori nel mondo stanno assumendo concretamente la responsabilità di creare un terreno fertile per la diffusione di un’agricoltura sostenibile, come si erano impegnati con la firma dell’Agenda 21 – afferma Felipe Farà, del Centro Paranaense di Riferimento in Agroecologia (Cpra) di Curitiba – Sono orgoglioso di poter dire che vivo in uno dei pochi Stati che lo stanno facendo, il Paranà, e la creazione di questo Centro lo dimostra».

Roberto Requião, giunto direttamente dentro al Centro della Via Campesina in elicottero, esordisce all’inaugurazione con un invito ufficiale: «I ruralisti che si stanno ammassando qui fuori per protestare contro l’apertura di questo spazio di ricerca, mandino qui, insieme ai figli dei sem terra, agli studenti delle scuole rurali, delle Università, mandino qui i propri figli per imparare che cos’è l’agricoltura! Oggi è un giorno senza rancore, è un giorno di pace e di vittoria dell’agricoltura sostenibile!». Il governatore ha ricordato come sia stata necessaria la morte di Keno e di Fabio per creare questo spazio di agroecologia al servizio dei figli dei produttori rurali di oggi, per insegnare loro a ritrovare “la strada contro la schiavitù e la dipendenza dalle multinazionali”, persa dai propri genitori.

Requião ha condannato l’asservimento al capitale finanziario e al blocco ruralista avvenuto principalmente nel secondo mandato di Lula, concretizzatosi nella liberalizzazione del transgenico (soia, miglio e riso) nel Paese e ha invitato il suo “amico presidente” a prendere in considerazione la posizione di migliaia di contadini impegnati quotidianamente nella costruzione di un’agricoltura sostenibile.

Nuovi cammini

Il Centro de Ensino e Pesquisa Valmir Motta de Oliveira sarà anche un Centro di produzione di sementi agroecologiche, che verranno distribuite senza royalties agli agricoltori che ne faranno richiesta.

Questa funzione sociale del centro è stata inaugurata sempre il 5 dicembre, attraverso la distribuzione gratuita di centinaia di sacchi di semi di mais bio ai contadini presenti.

Il contrabbando di sementi transgeniche e di fertilizzanti tossici è un altro aspetto legato all’agronegozio che è stato ricordato durante l’inaugurazione del Centro.

«La proposta della Via Campesina è di chiedere alle Nazioni Unite la creazione presso la Corte d’Appello de L’Aia di una Camera per giudicare le imprese che compiono atti contro l’ambiente – ha dichiarato Stédile – e Via Campesina insieme a Mst già porteranno presso questa Camera il primo caso di crimine ambientale, denunciando la Syngenta!»

Oltre il Bosforo

A Dyarbakir, in viaggio con la solidarietà



I viaggi, soprattutto i veri viaggi, sono incontri: di volti, di luoghi, di parole, di attese….

La Turchia è lontana, il Kurdistan ancora di più.

Gli aeroporti sono veramente “non luoghi”: tutti uguali, le stesse luci, la stessa lontananza da ogni rapporto possibile. E, tra un “non luogo” e l’altro, il tempo non ha alcun rapporto con lo spazio.

Gli unici momenti di sapore e profumo di vita sono gli incontri con gli altri compagni: altri luoghi, altre storie, altre vite che sanno di pensieri e di azioni condivise in altri tempi e altre giovinezze.

E, improvvisamente, sei a Diyabakir: hotel, stanza, cena allegra e ricca di risate. Adesso, davvero, si può cominciare.

Giovedì, 19 novembre – Tribunale di Diyarbakir

Al mattino, con il sole, si entra in tribunale. Formalità e accoglienza inaspettata: ci fanno accomodare nella sala degli avvocati. Gentilissimo, il segretario dell’Ordine, ci offre ripetutamente cay. Si informa su di noi. Ci presenta una giovane avvocata responsabile dell’associazione dei “diritti umani”.

Veniamo a scoprire più processi a carico di minori e giovani.

La confusione nel tribunale è da mercato: il processo al bambino (per il quale siamo venuti) è spostato alle ore 14.00.

Chiacchiere, sorrisi, curiosità. Improvvisamente, in un giovedì qualunque, siamo entrati nella vita processata. Fuori dalla stanza degli avvocati siamo travolti da un fiume in piena di parenti e amici di giovani e studenti sotto processo e in carcere.

E così, ci confrontiamo con “propaganda sovversiva”, “attività sovversiva”, giovani in galera. “Sostegno al terrorismo”, “interruzione di pubblico ufficio” per gli studenti che hanno lottato.

Parenti, mamme, padri, occhi curiosi e appassionati.

Non sembra loro vero che siamo qui ad ascoltare. Un vero incontro con la vita, la protesta, l’affetto. Parole di tortura su ragazzi e ragazze in carcere.

A proposito di “ascolto” : la vita si presenta in storie che hanno parole, volti, relazioni, speranze. E storie assurde di ordinaria repressione.

Poi vengono liberati due ragazzi, e sono abbracci, baci, sorrisi e sguardi importanti come tutti gli attimi di vera vicinanza.

Le donne, apparentemente sempre in secondo piano, ma subito ricche di affetto e sorelle delle donne del nostro gruppo. E’ chiaro che rappresentiamo l’occasione per essere “riconosciuti” e vivi al di là delle porte di casa e della stessa Turchia. Così, succede di essere importanti per il solo fatto di esserci.

Poi il gruppo si riunisce per mettere insieme pensieri e parole.

E le nostre avvocate tentano di mettere un po’ d’ordine nei nostri pensieri e nelle nostre conoscenze.

Dopo un brevissimo intervallo, per tirarci su con un raggio di sole caldo, rientriamo nel bunker del tribunale.

Facce giovani e occhi puliti di studenti in lotta, e presenti al processo dei loro compagni.

Ci dicono che non hanno paura, che hanno già pagato, ma che continueranno……

E noi ascoltiamo …..questo orgoglio di vita e di futuro…

Entriamo nell’aula del processo: giudici, avvocati, uno schieramento di polizia, tanti parenti, tanti amici, padri, madri, sorelle. Sono contenti che siamo qui, e ci lasciano i pochi posti a disposizione. Vale davvero esserci, per una volta.

Poi, nel silenzio, la voce dell’imputato….e tanti volti seri in apprensione e affetto. Le donne con occhi profondi e pieni d’amore.

Sono presenti generazioni diverse….donne con il velo e senza velo: grandi famiglie, grandi contrasti, un mondo in movimento.

Tutto si svolge in un silenzio irreale: una sospensione della vita vera e, probabilmente, anche della verità.

La maggioranza degli avvocati sono donne: un senso suo ce l’ha!

Due giudici dormono, uno lotta con il sonno, l’altro conduce il processo con una rapidità degna di miglior causa.

Al termine, il desiderio si fa assoluzione: applausi, urla, pianti, abbracci. Noi ci sentiamo portafortuna.

Poi la tristezza: si è capito male. Tutti in galera.

E’ proprio vero!

Ci sono tante organizzazioni, gruppi, ma la vita continua a scorrere apparentemente casuale: un gruppo di stranieri in un tribunale diventa un’occasione per parole, incontri, impegni.

Una cosa è la politica, una cosa la vita, i volti, gli incontri, una stretta di mano.

E che impressione l’aula con soldati e poliziotti schierati.

Infine, entriamo per un ulteriore processo, sempre contro studenti universitari. Brevissimo. Tutto rinviato a gennaio, con gli studenti che restano in galera (perderanno, intanto, l’anno scolastico e la possibilità di studiare).

I ragazzi escono ammanettati, e sono teneri e commossi, i saluti silenziosi, con le mani che parlano di amicizia e condivisione, e di giovinezza orgogliosa.

La giornata si conclude all’ IHD, l’associazione per i diritti umani. Una sede bella, pulita, tutti loro molto gentili. Quindi l’incontro con Hatip Dicle , un deputato che ha passato dieci anni in galera.

Ascoltiamo parole di prudenza, impegno, indipendentismo, federalismo.

Ascoltiamo attenti e ci guadagniamo l’impegno per sabato a fianco delle famiglie degli “scomparsi”.

Poi, nel buio della sera, cerchiamo di mettere un po’ di distanza da questo turbine di vita, e si va al bazar: bellissimo, un pezzo di Lucca in terra di Turchia. Qualche compera, e il cuore e la mente pieni di volti, di storie, di nostalgia di futuro.

Piccole note:

1. Il 4 aprile 2009 molti giovani si sono radunati ad Amara, nel distretto di Urfa, per festeggiare il compleanno di Abdullah Ocalan, esternando la loro solidarietà con un lungo applauso. I militari hanno sciolto la manifestazione sparando sulla folla. Sono stati uccisi due ragazzi: uno di essi era studente dell’Università di Diyarbakir.

Due giorni dopo, all’Università, si è svolta una manifestazione di protesta, e la polizia, nuovamente, è intervenuta, con la scusa che i giovani portavano delle kefie; ne sono stati arrestati una trentina.

Oggi, molti di essi sono ancora detenuti.

2. Il Tribunale che giudicava questi giovani kurdi è la Corte d’ Assise, competente per i processi associativi contro lo Stato: è costituita da tre giudici che, diversamente dal passato, non sono dei militari.

L’accusa è, quindi, di associazione terroristica e propaganda sovversiva.

3. Mehmet Aydin, di venti anni, oggi è stato liberato, non cosi’ i suoi compagni, Talat Ucar,Yoldas Firat, Mahsum Akbas, Cihan Olmez, Oktay Olmez, Cihan Bahadir, che sono rimasti in carcere dopo che i loro processi sono stati rinviati.

La stessa Corte giudica anche i minorenni. Oggi erano in tre: Gengiz Gaysac, Kutbettin Yel, Vedat Demir. Di questi, solo Gengiz Gaysac era in libertà ed oggi ne è stato liberato anche un secondo. E’ rimasto in carcere Kutbettin Yel e il suo processo sarà definito il 31 dicembre.

Questi ragazzi erano in carcere dal febbraio scorso.

4. La condizione dei minori, in Turchia, è fuori da tutti i parametri europei, soprattutto per quelli accusati di reati politici: mentre per i detenuti comuni esiste un carcere separato, per i minori, accusati di sovversione, il carcere è lo stesso che per gli adulti; al limite, e in casi eccezionali, vengono messi in una cella unica. Attualmente occupano una cella in 32.

Il processo è svolto dagli stessi giudici dei maggiorenni e le pene sono applicate con i medesimi criteri, senza considerare le condizioni di vita e familiari.

Il rappresentante del coordinamento di diverse associazioni, una piattaforma che risponde al nome di “Appello per la giustizia minorile”, ha riferito che al vaglio del governo c’è ora una proposta di legge alla quale hanno chiesto di inserire delle modifiche sulla procedura del processo e sulle condizioni di detenzione. Oggi sono circa 3.000 i minori sotto processo e 270 sono quelli incarcerati. Questi dati li desume l’Associazione, poiché i dati del Ministero della Giustizia non distinguono i minorenni dai maggiorenni e fra i vari tipi di reato.

E’ necessario descrivere, per sommi capi, come viene affrontato il processo minorile in Europa.

Qui da noi, i tribunali dei minorenni hanno una composizione che implica la presenza di educatori, psicologi, esperti dell’infanzia, nonché l’ausilio di assistenti sociali che contribuiscono alla valutazione dei giudici per la concessione di riti alternativi e/o di pene alternative, quali la rieducazione con l’imposizione, al posto di una pena detentiva, di lavori socialmente utili, svolti dal minore presso Cooperative o Enti Locali. E’ anche previsto il cosiddetto “perdono giudiziale” per chi non ha mai commesso reati e pure la “messa alla prova” che prevede la possibilità di non subire alcuna condanna se per un periodo - deciso dai giudici - il minore lavorerà o studierà sotto il controllo del servizio sociale. Queste sono forme di tutela dei minori totalmente assenti in Turchia.

5. Hatip Dicle ha scontato dieci anni di carcere in Turchia, unitamente alla deputata kurda Leila Zana.

Ora è libero da 5 anni e alla domanda su quale differenza vede oggi rispetto all’epoca del suo arresto , ha risposto che prima eravamo solo all’inizio della lotta del popolo kurdo; oggi, dopo vent’anni, si può discutere liberamente di ipotetiche soluzioni con altri parlamentari; c’è solo un manipolo che cerca di osteggiarli quando parlano, mentre gli altri si sono adeguati alla loro presenza in Parlamento.

Ci dice che in Parlamento c’è tuttora una soglia di sbarramento del 10%.

Per andare oltre questo tetto, occorre avere 4.500 mila voti, per adesso ce ne sono solamente 2.500 mila.

Se la soglia di sbarramento fosse della metà - del 5% - il Dtp avrebbe portato in Parlamento 60 deputati!

Si è decisa la partecipazione con candidati “indipendenti”, ma, in questo caso, per avere un deputato occorrono 60 mila voti.

Per esempio, a Diyarbakir, c’era la possibilità di eleggere 10 deputati. Se non ci fosse stata la soglia di sbarramento, il Dtp avrebbe conquistato 8 deputati, non 4, come invece è capitato.

Pertanto, la proposta è quella di ridurre al 5% la soglia di sbarramento.

I detenuti in Turchia sono circa 115 mila, compresi i detenuti accusati di reati comuni. Circa 15 mila sono i “politici”, di cui il 95% sono kurdi; anche il restante 5% è molto vicino ai kurdi.

Tra questi, 39 detenuti politici kurdi sono malati gravi e prossimi alla morte.

I rapporti con il Sud Kurdistan – Nord Iraq - sono buoni. Barzani e Talabani hanno detto che non attaccheranno mai il Pkk e si sono offerti di fare da intermediari tra il governo turco e i kurdi di Turchia, per porre fine alla guerra.

Esiste una proposta di “autonomia” rispetto allo stato centralista di Turchia.

I kurdi sostengono che Ministero degli Esteri, della Difesa e degli Interni possono rimanere prerogativa dello stato centrale, mentre rivendicano piena autonomia per quanto riguarda le singole province e municipalità.

Venerdì, 20 novembre – Incontro con i “gruppi di pace” presso la sede dell’IHD di Diyarbakir

Sono presenti all’incontro Mehmet Serif Gensdal (portavoce), Ayse Kava (una ragazza proveniente dal campo profughi di Mahmura), Lutfi Tas (l’anziano), Aygul Biday (facente parte del primo gruppo di pace arrivato nel 1999).

Alle 10,00, puntuali come cronometri, siamo già nel salone dell’IHD. Di nuovo in cerchio, tra battute e parole in libertà: c’è tanta emozione, l’emozione di incontrare 4 guerriglieri in missione di pace verso Ankara ( due uomini e due donne ).

Hanno volti pieni di storia e sguardi lontani e intensi: sarà per la loro storia e le loro scelte. O, forse, un po’ per il nostro sguardo che sa di una attenzione carica di storia e di vicinanza ai combattenti. O forse, più semplicemente, perché sarà vero che “per vincere si corre da soli, per andare lontano bisogna essere in tanti e solidali”, senza lasciare nessuno indietro.

L’apertura da il segno di questo incontro: ci ringraziano. Ci ringraziano per essere lì e, con noi, il popolo italiano.

Poi, con una voce quieta, uno di loro ci spiega la loro lotta per la pace e per l’autonomia del popolo kurdo.

Le parole ci portano subito all’iniziativa dei “gruppi di pace”, due, che, nel 1999, sono partiti dai monti del Kurdistan e dall’Europa: sono stati condannati a svariati anni di carcere; due di loro sono ancora dietro le sbarre, uno è morto. Gli altri sono stati liberati e continuano il loro cammino.

Poi, parole inaspettate per chi guarda da lontano: “Noi stiamo continuando, perché crediamo nella pace. Quando siamo arrivati, abbiamo visto la felicità del popolo per la pace. Ci hanno abbracciato e, con noi, hanno abbracciato la pace, la libertà e anche i loro figli”, parole inaspettate dalla bocca di “guerriglieri”. Ma forse siamo andati al di là dei luoghi comuni, della storia raccontata dai giornali, al di là delle semplificazioni che rendono il mondo inafferrabile a chi non ha altro potere che la propria intelligenza e la propria coscienza.

Poi, Gensdal ci spiega che il grande successo del DTP alle amministrative è una potente sfida e una nuova occasione per la pace. Anche se il governo turco non ha pubblicato, né risposto al documento della Road Map di Abdullah Ocalan.

Ci precisa che il PKK ha sospeso le azioni armate dal 13 aprile di quest’anno, ma il governo turco ha risposto con una grande azione di repressione e di distruzione dei villaggi, e continua a incarcerare i militanti del DTP.

Mentre parla di “apertura Kurda”…. poi di “apertura democratica”…. quindi di “apertura all’unità nazionale”, il governo, nella sostanza, continua le azioni contro i villaggi e ad utilizzare sistematicamente la tortura.

Ci sottolinea che la stessa Unione Europea è intervenuta contro l’utilizzo della tortura.

In sintesi, il governo turco, a partire dalle elezioni di 8 mesi fa, ha cambiato il linguaggio e il tono nei confronti dei Kurdi, ma la sostanza e la politica quotidiana verso i Kurdi non è cambiata.

E i fascisti, intanto, hanno preso l’iniziativa e organizzato le famiglie dei militari turchi caduti sulle montagne.

Un quadro forte e complesso che ci travolge e mette in discussione ogni linearità di pensieri semplici: e ci invita ad agire, ad essere concreti, vicini. Forse, paradossalmente, ci porta a pensare che , veramente, il fare è la vera politica e la vera poesia, e che è il fare a costruire la differenza ed il futuro.

Ci si perde anche un po’ nell’Europa delle autonomie e nelle sottolineature della lotta per l’identità culturale.

Poi una voce di donna che parla solo Kurdo, Ayse Kava, ed è improvvisa e inaspettata, una voce e un pensiero che si fa vita, fame, morte, diversità. Ed è emozione, e un’ altra dimensione della politica e dell’impegno.

A portarci in un’altra dimensione ulteriore è poi la voce del combattente più anziano, Lutfi Tas. Ed è una voce che sa di “lontananza”: che “distingue” e che colloca oggi il Kurdistan nel quadro e nelle falsificazioni internazionali e “capitalistiche”. Ed è la voce che sostiene il “dialogo” senza nessun “pentimento”.

Giunti al termine restano le fotografie, i sorrisi, gli abbracci finali a significare chissà: solidarietà, affetto, forza della militanza, o anche, semplicemente, la forza dell’incontro e dell’ascolto. Che rendono le storie di tutti i partecipanti ricche di senso e preziose. Per sé e per gli altri.

Poi un cammino nel sole, a sistemare pensieri e parole. E sorrisi.

20 novembre 2009 – Incontro con la municipalità di Sur

Poco dopo siamo nel municipio di Sur, una delle sei sottomunicipalità di Diyarbakir: incontro con il vicesindaco e assessore alla cultura. Un incontro simpatico: e siamo al terzo cay della giornata!

Ci tiene a sottolineare che la municipalità ha i bambini come interesse forte. E conquista subito la nostra simpatia. Poi ci tiene a precisare che non ci sono bambini di strada. Al mattino vanno a scuola, al pomeriggio qualcuno lavora o vende in strada. E’ aumentata anche la percentuale delle donne che frequentano la scuola: altra buona notizia.

Resta un problema di sfruttamento dei bambini per la prostituzione, la droga, la delinquenza… Insomma, c’è impegno, ma ancora una lunga strada da percorrere.

Poi, quasi per riportarci tutti alla cruda quotidianità, il vicesindaco riceve una telefonata: qualcuno lo informa che sua figlia, in galera, non potrà dare l’esame che aveva chiesto di poter sostenere. L’università ha risposto che “non è possibile”.

Il vicesindaco si ferma un attimo, serio. Noi non abbiamo parole, restiamo attoniti: è la differenza tra ascoltare parole e pensieri e imbattersi nella vita concreta e nelle ingiustizie che non fanno notizia, ma che segnano il respiro e la quotidianità.

Lui, respira profondo e riprende a parlare: ci dice che hanno un vasto intervento verso i bambini e i giovani. Ci parla delle “Case per donne” organizzate dalla municipalità, dove si svolgono corsi di diverso tipo e che, in queste strutture, c’è anche la “scuola materna” per i più piccini.

C’è, inoltre, un “Consiglio dei bambini”, tra i 9 e i 15 anni.

Stimolato da alcune nostre domande, ci mostra le immagini di un documento multimediale sui bambini e una serie di attività che hanno realizzato: si ritorna ai sorrisi.

Ci informa, inoltre, che la municipalità gestisce ambulatori medici assolutamente gratuiti; mentre gli ambulatori statali sono a pagamento e richiedono il possesso della “carta verde” per ricevere il servizio. Per non dimenticare dove siamo.

Quindi sono saluti, fotografie, sorrisi e mille pensieri. E noi rientriamo nel sole, verso nuovi incontri.

20 novembre 2009 – Incontro con le “Madri della pace”

E sono incontri che ci conducono, veramente, da un’altra parte: siamo nella sede delle “madri per la pace”, madri di detenuti. Un appartamento anonimo in un palazzo anonimo.

Portano vestiti tradizionali, velate da un elegante velo bianco, con occhi profondi, sguardi che sfuggono, con una vita a cui non sono sfuggite.

Siamo seduti in cerchio in una stanza piccola. Parla una per tutte.

Le parole dicono di carcere, dei criteri di precedenza per i sostegni economici. E sono pietre quando dicono di una famiglia con il padre in carcere da 17 anni.

La portavoce ha un parlare netto e deciso, la forza della vita e della resistenza. Nonostante storie inguaribili e una lotta quotidiana per la sopravvivenza che non si separa dalla fiducia nel futuro: sono molto fiduciose nella strategia di pace e nei “gruppi di pace”.

L’atmosfera è densa come tutto ciò che non si solleva con parole e pensieri di futuro ma che fa i conti, quotidianamente, con il respiro e il pane.

Sono sempre più crude nei racconti: ed è la prima voce che afferma che, dopo la vittoria alle amministrative di marzo, la situazione è peggiorata perché hanno incarcerato molti dirigenti del partito e di diverse associazioni.

E’ proprio vero che ciascuno narra la “sua” storia che si fa vita, respiro, lacrime, mentre la politica racconta una storia che non sempre sa di vita.

Chiudono, senza nessuna enfasi, dicendoci che hanno fatto, con le madri dei soldati turchi, una cena ed una conferenza stampa.

C’è proprio la storia e le storie.

Poi, proprio come nella vita, sono abbracci, sorrisi, foto; e le nostre compagne vengono velate e caricate di sorrisi e abbracci. Non c’è nulla di formale: è la vita che scorre e crea relazioni che sanno di condivisione.

Noi lasciamo loro tutto il materiale e vestiario che ci siamo portati dall’Italia: a proposito della vita e della quotidianità.

E siamo nuovamente sulla strada.

20 novembre 2009 – Incontro con Tuhad Fed

Alle 17.00 entriamo nei locali della “Associazione dei Famigliari dei detenuti politici”. Altre donne, altri volti, occhi forti e sorridenti. Altre storie di anni di carcere e di lotte. Nuove parole circa la repressione costante del governo turco. I dati: circa 4.000 detenuti del PKK e del DTP ( 700 nell’ultimo anno ).

Un po’ di discorsi tecnici sulla possibilità di intervento della Croce Rossa Internazionale per visitare i detenuti malati gravi.

Si ritorna anche ai bambini: più di 200 minori in carcere per “appoggio al terrorismo”. Mancano le parole.

Al termine Antonio distribuisce le somme raccolte dall’associazione “Verso il Kurdistan”, preciso come un bancario.

Siamo giunti alla fine della giornata e, nel buio, ci mettiamo in marcia verso l’albergo.

Ma, una volta entrati, non si esce mai da questa storia di mille storie: dopo una veloce cena, alle nove dobbiamo essere in albergo per un ulteriore incontro. Un padre e consigliere comunale di un paese vicino, ci tiene a parlarci della figlia, studentessa, in carcere da 26 mesi.

Ci parla di torture e di un timpano sfondato.

Ancora una volta, non ci sono parole. E la stanchezza ci sta piegando.

Poi è la volta di un altro padre con un figlio in carcere per 4 mesi – ora messo in libertà – dopo le manifestazioni del febbraio 2008. Ci tiene a dirci che, nel Kurdistan, ci sono imam democratici che sono per il progresso.

Che dire? Già ci mancavano le parole! Ora siamo travolti. Sarà meglio abbandonarci al sonno.

21 novembre – Manifestazione con le famiglie degli “scomparsi”

Al mattino, appuntamento all’associazione per i diritti umani ( IHD ). Per partecipare all’incontro settimanale dei famigliari degli “scomparsi”. Non vogliamo mancare.

C’è un po’ di confusione: non sanno come accompagnarci. Andremo autonomamente con un interminabile viaggio, attraverso l’intera città, sino al monumento ai caduti per l’attentato compiuto in quel luogo, nel 2006, dai “Lupi grigi”.

Arriviamo appena in tempo: un centinaio di persone soprattutto donne, madri, mogli, sorelle di persone scomparse.

Chi conduce la manifestazione sottolinea la presenza di un gruppo di italiani: uno sguardo collettivo ci avvolge. Vale la pena esserci.

Poi cala un profondo silenzio, tutti immobili, in piedi e seduti a terra. Quasi tutte hanno davanti a sé la foto di uno “scomparso”. A terra: due striscioni. In uno, un lungo elenco di nomi di persone scomparse, nell’altro i loro volti.

Siamo ai bordi di una grande strada, ma quello spazio, denso di memoria e di vite spezzate, sembra lontano da ogni rumore e da ogni distrazione: un vero urlo contro l’ingiustizia e il dolore che l’accompagna.

Poi si rompe il silenzio e l’immobilità, e sono strette di mano, sorrisi, ringraziamenti, abbracci e tante fotografie. Sì. E’ valsa proprio la pena esserci.

Prendiamo un autobus, si ritorna verso l’albergo: questa sera si parte per Istambul e ci sono le mille azioni che accompagnano la preparazione dei bagagli, la ricerca di ultimi oggetti, ricordi….

Arrivati sulla grande piazza però ….. c’è qualcosa di strano: un folto gruppo di donne. Giovani, anziane, qualcuna con abiti tradizionali. Siamo incuriositi, chiediamo: è un raduno e manifestazione per l’emancipazione e i diritti delle donne. Si chiacchiera tranquillamente, non c’è la minima tensione: un bella giornata di sole che illumina i volti e le parole. Si avvicina una giovinetta, vende braccialetti artigianali naturalmente con i colori della bandiera kurda, tanto per non dimenticare. Compriamo tutti i braccialetti e, in più, anche tutte le collanine che la ragazza ci offre. E’ chiaramente stupefatta e incredula: si allontana nella folla. Noi torniamo in albergo e lasciamo le donne a chiacchierare in piazza.

Si mangiucchia qualcosa, alcuni riposano e chiacchierano nella hall dell’albergo.

Poi, improvvisa, in un giorno di chiacchiere e shopping, una tempesta di sorrisi e di ritmi gridati: le donne per la loro emancipazione e la democrazia. Ci accorgiamo che è in atto un corteo: le donne sono partite con striscioni, centinaia di bandiere, slogan ritmati, a passo veloce, con tanti sorrisi e un evidente orgoglio di essere in piazza.

Ci precipitiamo fuori, armati di macchine fotografiche e telecamere. C’è una vera e propria aria di festa, nessun nervosismo. Ma , appena lasciata la piazza, e imboccata la strada del bazar, ecco la polizia che sbarra la strada e blocca la manifestazione. Una doppia fila di giovani poliziotti con casco, scudi, manganelli, alcuni con lancia lacrimogeni, un idrante: sembrano tranquilli però ,e non c’è aria di conflitto.

Il corteo si ferma contro il cordone dei poliziotti e continua imperterrito e tranquillo a scandire slogans. Due organizzatrici e una parlamentare del DTP, tra i poliziotti e le manifestanti, rilasciano una lunga intervista ad un gruppo di giornalisti.

Noi sembriamo un’ agenzia stampa e scattiamo centinaia di foto: volti sorridenti e ritmi allegri, i giovani poliziotti continuano a sembrare assolutamente tranquilli.

Poi le donne si siedono e, instancabili, continuano a lanciare slogan ritmati. Si chiacchiera con diverse persone, i giovani attaccano bottone: è chiaro che la nostra presenza è importante e fonte di curiosità e interesse da molti punti di vista. Chissà?! Forse è una apertura alla possibilità, all’altro, alla distanza, alla differenza, che seduce a diversi livelli soprattutto i giovani. E certo anche politica, quella più umana.

Poi, a sottolineare i ritmi cantati e urlati dalle donne, un gruppo di giovani uomini non resiste: e si lancia, in una danza allegra e gagliarda. Applausi.

Infine, dopo qualche ora, veramente donne: quando finiscono in realtà non finiscono. Il sit-in termina: saluti, ci regalano qualche bandiera, ancora sorrisi, si riavvolgono gli striscioni. Persino i poliziotti smobilitano. Le donne sembrano defluire verso la piazza. E invece no: un folto gruppo di donne, a ritmo quasi di corsa si ricompatta e vola verso un giardino vicino al tribunale.

La polizia capisce in ritardo, rincorre. Adesso riconosciamo un nugolo di poliziotti in borghese che fotografano e indicano questa o quella donna. Una donna parla ma non capiamo un accidente, poi ancora qualche ritmo/slogan lanciato al vento e alla città.

Adesso, tra le prime ombre della notte, è veramente finita: e sono saluti e ancora ringraziamenti.

E’ una cosa a cui non siamo abituati: essere ringraziati per il fatto di esserci. Ed essere solidali e testimoni.

Proprio un’altra storia.

22 novembre 2009 – incontro con Guler Zere, libera, nel quartiere di Armutlu

C’è poi il giorno che chiude la storia e l’avventura: ed è il tempo e l’emozione che non ti aspetti, come quando ti imbatti nel segreto di azioni, parole e pensieri che ti sembrano scontate.

Comincia con abbracci e sorrisi, parole di arrivederci, impegni a ritrovarsi e a non dimenticarsi: Alfonso, Manuel e le quattro ragazze di Roma prendono il volo e ci lasciano. Restano però ad accompagnarci la loro allegria e le loro parole sbarazzine, insieme all’entusiasmo da adolescenti in lotta permanente. Indimenticabili.

Poi ci imbarchiamo per l’ultimo impegno: andremo a incontrare e salutare Guler Zere, una compagna gravemente ammalata.

Un lungo percorso in tram e autobus: chiacchiere, stupore per una città immensa e bellissima, a metà tra il cielo e il mare, tra presente e futuro. Chiacchiere da fine viaggio, sorrisi e confidenze.

“Ricordiamoci di comprare dei fiori !” Ripetuto tante volte… che non l’abbiamo fatto: lassù, tra quelle case ai confini di un altro mondo, non ci sono fiorai. Siamo ad Armutlu, un quartiere rosso e militante e lo si capisce subito, dagli incontri e dai sorrisi, e dal modo con cui siamo accolti.

Per Guler, viriamo su frutta colorata e dolce.

Intanto si avvicinano compagni e curiosi: saluti, parole incomprensibili e… offerta di mandarini. Tra strette di mano e sorrisi si va. Tra case che non nascondono la loro origine di baracche, ma belle, pulite, e più che dignitose.

E sempre, e ancora, saluti, strette di mano, sorrisi: si ha proprio la sensazione netta di essere entrati in un territorio “altro”. Persino foto e saluti a due giovani sposi - e ad una coppia di suonatori di strada che li accoglie - che si avviano, strombazzando, verso una nuova avventura e un nuovo inizio.

Poi, finalmente, in una bella giornata di sole, arriviamo a casa di Guler Zere: una casetta con giardino, tra il verde. E’ un momento delicato: entriamo? non entriamo? Entra solo qualcuno?

Poi, tutti ci togliamo le scarpe: siamo dentro.

Dalla porta della sua stanza, la vediamo: bella, giovane, con un sorriso aperto. Ci saluta con affetto e ci travolge con il suo sorriso.

Non riusciamo a trovare parole. Vuole una foto: non esitiamo. Due di noi entrano ad abbracciarla: e sono ancora sorrisi, altre foto, e le mani che si fanno complicità, riconoscimento, promessa, impegno e desiderio di futuro.

E quella frase di Antonio: “Ti volevamo portare dei fiori, ma non li abbiamo trovati.”

E la sua risposta, accompagnata da un sorriso che entra profondo in ciascuno di noi: “ Voi non avete bisogno di portare i fiori; ho preso i fiori dal vostro cuore”.

E’ più di un atto di poesia! E’ un riportarci a ciò che siamo prima di ogni impegno politico: uomini e donne. Uomini e donne che si riconoscono come tali. E’ molto di più della solidarietà e della condivisione politica.

E’ ritrovarsi, improvvisamente, in quel punto in cui la tua vita, i tuoi pensieri, il tuo corpo, le tue parole, la tua emozione, il tuo impegno, i tuoi sogni si ritrovano in un sorriso.

Grazie Guler!!

Poi non ci resta che tornare a casa. Con il cuore e pensieri che sanno di futuro.

Nota

Guler Zere, 37 anni, era una guerrigliera del DHKC-P, una formazione della sinistra messa fuorilegge dallo Stato, che operava sulle montagne intorno a Dersim.
Arrestata, è stata condannata all’ergastolo ed è in carcere da 14 anni.

“Aveva un rigonfiamento ad un dente – ci dicono - e il dentista del carcere le ha diagnosticato un ascesso, per cui le ha prescritto un’aspirina e degli antibiotici”.

Prima di arrivare dal dentista, ci sono voluti sei mesi di richieste e di insistenze, in quanto la direzione del carcere non accordava l’autorizzazione!
In seguito, visto che il gonfiore permaneva, Guler ha chiesto di essere portata in ospedale. Anche qui, l’attesa è stata lunga, la direzione del carcere ha accampato molte scuse: non c’era il furgone disponibile, non si trovavano posti liberi… Alla fine, quando è arrivata in ospedale, le hanno diagnosticato un tumore!

Il procuratore ha autorizzato il padre ad incontrarla per quindici minuti a settimana e, solo recentemente, ha riottenuto la libertà.

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!