Immagini dal Kurdistan turco il giorno dopo le elezioni.
di Stefania Battistini e Ivan Grozny
A
Nusaybin un edificio squarciato da una bomba che ha ucciso un bambino di
13 anni e ferito 20 persone.
A Cizre, dietro le barricate, le case sono crivellate di proiettili, raccontano ancora delle 26 persone rimaste uccise durante gli scontri con l’esercito turco.
Qui gli abitanti hanno subito nove giorni consecutivi di coprifuoco, senza poter mai uscire di casa.
Ed è quello che ha denunciato il copresidente dell’Hdp Onan appena dopo il risultato elettorale. “Molte persone hanno dovuto abbandonare città come Sur e Lice, sotto assedio da mesi a seguito dei diversi scontri tra PKK ed esercito turco”, ha detto.
“Durante le votazioni c’era un clima intimidatorio, con carri armati fuori dalle scuole e militari con mitragliatrici in mano dentro i seggi”.
E sono queste le immagini che abbiamo raccolto lungo le antiche strade dell’Anatolia: villaggi militarizzati e armi nei seggi. Senza contare che il blocco della strada di collegamento tra i villaggi e la città di Lice, fatta saltare con le mine, ha impedito a oltre tremila persone di votare.
Nonostante questo clima, il partito filocurdo dell’Hdp ieri è riuscito a superare, per la seconda volta nella storia, l’altissima soglia di sbarramento del 10%, pensata proprio per tenerli fuori dal Parlamento. Ha perso un milione di voti rispetto alle elezioni del giugno scorso, quando fece perdere la maggioranza assoluta a Erdoğan, ma ha raggiunto comunque, dal punto di vista curdo, un buon risultato. Per questo ieri a Diyarbakir (la città che ha subito il primo dei tre attentati di questi mesi) ci sono stati solo tafferugli estemporanei, ma nessuna manifestazione di piazza, né rivolta.
Da più parti – dai grandi giornali ai siti di informazione alternativa – si è letto di “rabbia curda in piazza”, ma per chi ieri ha passato la notte a Diyarbakir è chiaro che venti tizi che tirano due sassi non sono certo una rivolta, sopratutto in un luogo come questo in cui “scontri” significano almeno quattro giorni di barricate.
Ieri sera a mezzanotte c’era un silenzio quasi irreale attorno alle sede dell’Hdp, dentro cui si tiravano le somme, in modo positivo. Perché questo risultato consente all’Hdp, da una posizione istituzionale, di continuare a fare da ponte tra PKK e governo turco.
“Non cambieremo politica – dice ancora Onen – Siamo determinati a portare avanti il processo di pace”.
Bisognerà vedere se Erdoğan, stretto nella pericolosa alleanza con l’estrema destra dei lupi grigi e forte dell’appoggio europeo in cambio dell’aiuto con i profughi siriani, proverà ad aprire un dialogo concreto con i curdi. Una realtà, quella dell’Hdp, che ormai va oltre la questione eminentemente curda, ma è catalizzatrice di tutte quelle forze del paese attente alle libertà e ai diritti civili.
Le stesse su cui si è fondata l’Europa. A partire dalla libertà di informazione, in questi mesi negata dal governo turco che ha oscurato emittenti televisive, chiuso testate d’opposizione e arrestato giornalisti.
“Noi siamo cresciuti con ‘I quaderni dal carcere’ di Gramsci”, ci racconta Inus Murataka, dell’associazione giuristi della Mesopotamia. “L’ho letto in carcere, quando mi hanno arrestato per motivi politici durante una manifestazione studentesca”.
Accade a Diyarbakir, Turchia, 2015.
tratto da Articolo 21
A Cizre, dietro le barricate, le case sono crivellate di proiettili, raccontano ancora delle 26 persone rimaste uccise durante gli scontri con l’esercito turco.
Qui gli abitanti hanno subito nove giorni consecutivi di coprifuoco, senza poter mai uscire di casa.
Ed è quello che ha denunciato il copresidente dell’Hdp Onan appena dopo il risultato elettorale. “Molte persone hanno dovuto abbandonare città come Sur e Lice, sotto assedio da mesi a seguito dei diversi scontri tra PKK ed esercito turco”, ha detto.
“Durante le votazioni c’era un clima intimidatorio, con carri armati fuori dalle scuole e militari con mitragliatrici in mano dentro i seggi”.
E sono queste le immagini che abbiamo raccolto lungo le antiche strade dell’Anatolia: villaggi militarizzati e armi nei seggi. Senza contare che il blocco della strada di collegamento tra i villaggi e la città di Lice, fatta saltare con le mine, ha impedito a oltre tremila persone di votare.
Nonostante questo clima, il partito filocurdo dell’Hdp ieri è riuscito a superare, per la seconda volta nella storia, l’altissima soglia di sbarramento del 10%, pensata proprio per tenerli fuori dal Parlamento. Ha perso un milione di voti rispetto alle elezioni del giugno scorso, quando fece perdere la maggioranza assoluta a Erdoğan, ma ha raggiunto comunque, dal punto di vista curdo, un buon risultato. Per questo ieri a Diyarbakir (la città che ha subito il primo dei tre attentati di questi mesi) ci sono stati solo tafferugli estemporanei, ma nessuna manifestazione di piazza, né rivolta.
Da più parti – dai grandi giornali ai siti di informazione alternativa – si è letto di “rabbia curda in piazza”, ma per chi ieri ha passato la notte a Diyarbakir è chiaro che venti tizi che tirano due sassi non sono certo una rivolta, sopratutto in un luogo come questo in cui “scontri” significano almeno quattro giorni di barricate.
Ieri sera a mezzanotte c’era un silenzio quasi irreale attorno alle sede dell’Hdp, dentro cui si tiravano le somme, in modo positivo. Perché questo risultato consente all’Hdp, da una posizione istituzionale, di continuare a fare da ponte tra PKK e governo turco.
“Non cambieremo politica – dice ancora Onen – Siamo determinati a portare avanti il processo di pace”.
Bisognerà vedere se Erdoğan, stretto nella pericolosa alleanza con l’estrema destra dei lupi grigi e forte dell’appoggio europeo in cambio dell’aiuto con i profughi siriani, proverà ad aprire un dialogo concreto con i curdi. Una realtà, quella dell’Hdp, che ormai va oltre la questione eminentemente curda, ma è catalizzatrice di tutte quelle forze del paese attente alle libertà e ai diritti civili.
Le stesse su cui si è fondata l’Europa. A partire dalla libertà di informazione, in questi mesi negata dal governo turco che ha oscurato emittenti televisive, chiuso testate d’opposizione e arrestato giornalisti.
“Noi siamo cresciuti con ‘I quaderni dal carcere’ di Gramsci”, ci racconta Inus Murataka, dell’associazione giuristi della Mesopotamia. “L’ho letto in carcere, quando mi hanno arrestato per motivi politici durante una manifestazione studentesca”.
Accade a Diyarbakir, Turchia, 2015.
tratto da Articolo 21