di Stefania Battistini e Ivan Grozny
Colpi d’arma da fuoco della polizia turca si mischiano alla voce dell’imam diffusa dal minareto della moschea di Diyarbakir, sud-est della Turchia, distretto ad alta densità di curdi, roccaforte dell’Hdp, il partito filocurdo che domenica ha conquistato per la seconda volta nella storia l’altissima soglia del 10%.
E’ uno scenario di guerra: il fumo nero degli scoppi si alza da dietro le case, sopra la testa da giorni passano aerei militari, a terra proiettili da fucile d’assalto (calibro 7,62×51, estremamente diffuso, ma resta un calibro da operazione militare). Nella mattina si diffonde la voce che la polizia turca entrerà nel quartiere di Sur, pieno centro storico. E qui – dove i curdi hanno proclamato l’auto-organizzazione (una sorta di “federalismo democratico” spiega l’Hdp, inaccettabile per il governo) – le persone iniziano a costruire le barricate: prima mettono i teloni anticecchini per proteggere i civili (scenari visti in Siria, non certo in Turchia), poi con pietre e sacchi di sabbia bloccano le strade in modo da impedire l’avanzata dei blindati. In cielo droni ed elicotteri. Chi vive nel quartiere decide di farci passare oltre le barricate per mostrarci come si vive a Diyarbakir, una delle città più importanti dell’Anatolia, antica capitale del Kurdistan, simbolo dell’identità e della tenacia del popolo curdo. Le case sono crivellate dai colpi di mitragliatrice, alcune quasi squarciate, altre rase al suolo, scenari che riportano agli scontri durissimi tra polizia e curdi durante i quali, in questi sei mesi, sono morte decine di persone.
I curdi speravano che con le elezioni del 1 novembre le cose sarebbero cambiate. Il Pkk il 10 giugno, dopo la strage di Ankara, aveva dichiarato il cessate il fuoco unilaterale per consentire alle persone di andare a votare; subito dopo i risultati l’Hdp aveva rilanciato il processo di pace offrendosi come ponte istituzionale tra il governo turco e il partito dei Lavoratori Curdi (dichiarato dagli Usa organizzazione terroristica). Invece il premier Davutoglu (dell’Akp, il partito di Erdogan) ha ordinato all'esercito di continuare le operazioni militari per tutto l’inverno.
Prima ancora che contro l’Isis, la Turchia sembra in guerra contro i curdi. Il giorno dopo le votazioni, dopo aver conquistato la maggioranza assoluta, il governo ha subito imposto il coprifuoco in molte città nel sud-est del paese, nelle roccaforti curde al confine con Siria e Iraq. A Silvan oggi è il sesto giorno di coprifuoco. La gente è barricata nelle case, il quartiere circondato da blindati e carri armati: non si può né entrare, né uscire. Da fuori si sente solo il drammatico frastuono delle bombe e fuoco d’artiglieria. Per chi è chiuso in casa da giorni è impossibile comprare il cibo o andare in ospedale. Comunicare non si può perché il governo turco ha oscurato le linee: impossibile utilizzare Twitter e Facebook, impossibile telefonare. Difficile quindi, anche giornalisticamente raccontare: perché i militari non consentono ai reporter di entrare; perché da lì, in questi giorni, nessuno è uscito se non da morto. Sono quattro le vittime, tutti civili disarmati; anche un poliziotto ha perso la vita. Nel distretto di Hakkari e Yusekova, in montagna, sono stati uccisi tre civili; altri due a Siirt.
Conflitto aperto. E morti tra i civili. Giovedì è arrivata la risposta del Pkk, che resiste armato nelle montagne al confine meridionale, tra Siria e Iraq: ieri ha dichiarato la fine del cassate il fuoco unilaterale. A Diyarbakir, la gente teme che ci sarà un attacco potente da parte del governo turco e inizia ad abbandonare il centro storico con i bambini. La tregua è finita, se mai davvero c’è stata. Nel silenzio generale dei media, difficile non chiamarla guerra.
tratto da Articolo21