La proposta del Congresso Nazionale Indigeno e dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale continua a far discutere con intensità. Era certamente questo uno dei primi obiettivi di chi l’ha formulata. Così come non poteva sorprendere l’Ezln il fatto che quella decisione sarebbe poi stata semplificata, strumentalizzata, ridotta alla sua parte sensazionalista: la candidatura di una donna indigena alle presidenziali del 2018, sminuendo, per esempio, il fatto che debba esser solo la portavoce di un Consiglio Indigeno di Governo non eletto nelle urne. S’è scritto, com’era facile prevedere, anche molto di più: l’idea che le conseguenze dell’arrivo della tormenta, segnalata dalla “sentinella” Galeano nell’aprile 2015, siano già tanto gravi da richiedere un “attacco” per rovesciare il potere dal basso è diventata, nei media, il suo esatto contrario: la convinzione che finalmente gli zapatisti hanno capito che per cambiare il mondo bisogna prendere il potere. La follia evidenziata da queste reazioni, scrive Gustavo Esteva, convinto sostenitore della complessa e niente affatto lineare scelta zapatista, merita di essere sottoposta ad analisi come malattia sociale. E’ di natura religiosa. La reazione principale consiste nel predicare certi dogmi democratici: un insieme di credenze mantenute contro ogni esperienza e ragione. Alla base c’è una convinzione circolare: che il percorso elettorale sia l’unico che consente di farsi carico degli apparati statali e che questi sono indispensabili per fare ciò che è necessario. Si riconosce, inevitabilmente, che il cammino elettorale non è un esercizio libero e chiaro della volontà generale, bensì uno spettacolo tortuoso, corrotto e manipolato. Tuttavia si insiste, contro ogni esperienza, sul fatto che nel 2018 alla fine vincerà un candidato di quella che si continua a chiamare “sinistra”. E ancor più si insiste sulla favola che recita un antico e consunto copione: una volta conquistato il controllo della macchina statale, la si farà ballare con la musica chiesta dal popolo. Che fantasia!
Ha causato uno scompiglio impressionante l’annuncio dell’assemblea permanente del Congresso Nazionale Indigeno convocata per sottoporre a consultazione la proposta concordata nel suo quinto Congresso.Prima di tutto ha reso evidente il nostro razzismo. Non è stata una novità che lo rivelassero coloro che lo esibiscono abitualmente, come il PAN, partito che non è mai riuscito a liberarsi del suo fetore coloniale. Però non era evidente, ed è vergognoso, fra coloro che continuano a dichiararsi di sinistra. Hanno mostrato un disprezzo inusitato verso i popoli indigeni e una profonda ignoranza di ciò che sono e sono stati, e di quello che sta succedendo nel paese.
Sfortunatamente non si è trattato di qualche analista distratto o di un intervistatore negligente. E’ stato un insieme di persone che pensano che l’Inegi sappia contare il numero di indigeni (Bonfil si starà rivoltando nella tomba) e che hanno ignorato le informazioni relative alla proposta. Hanno denunziato con sfrontatezza il complotto malevolo e protagonistico del meticcio che starebbe manipolando i popoli indigeni. Era prevalente l’impressione che questo razzismo caratterizzasse altri, come ad esempio i nostri vicini del Nord, ma fosse inesistente fra noi. Non possiamo continuare a chiudere gli occhi di fronte a questa disgrazia. Oltre a menzogne e distorsioni grossolane, si è cercato di squalificare la proposta negandola. Si è contestato un fantasma che esiste solo nello specchio di chi l’ha stigmatizzato … o per trovare nella proposta qualcosa che potesse portare acqua al proprio mulino. Con molte varianti, la reazione ha ridotto la proposta a un esercizio elettorale per conquistare il governo del paese: il CNI (Congresso Nazionale Indigeno) si starebbe consultando per decidere se gli conviene o no entrare nella tenzone elettorale presidenziale del 2018 per impossessarsi della macchina statale.
Poiché non è facile distorcere la proposta fino a questo punto, si esige dal CNI che gli dia questo carattere. Per persuaderlo, o semplicemente per squalificarlo, si pratica qualche gioco di numeri che dimostri come questa è o sarà una proposta perdente e sterile, oltre che dannosa: essa provocherebbe una spaccatura in un animale molto strano, una specie di liocorno colorato che si continua a chiamare sinistra elettorale.
Alcuni si azzardano a denunciare che danneggerebbe la candidatura di AMLO (Lopez Obrador, ndt), sebbene quest’ultimo abbia dichiarato che ciò non avverrebbe. Altri pretendono che la proposta si adegui a una qualche forma di quell’animale grazie all’alleanza con altre forze.
E’ per definizione una follia sperare che gli stessi mezzi producano risultati diversi. La follia evidenziata da queste reazioni merita di essere sottoposta ad analisi come malattia sociale. E’ di natura religiosa.
La reazione principale è consistita nel predicare certi dogmi democratici: un insieme di credenze che sono mantenute contro ogni esperienza e ragione. Alla base c’è una convinzione circolare: che il percorso elettorale è l’unico che consente di farsi carico degli apparati statali e che questi sono indispensabili per fare ciò che è necessario.
Si riconosce inevitabilmente che il cammino elettorale non è un esercizio libero e chiaro della volontà generale, bensì uno spettacolo tortuoso, corrotto e manipolato. Tuttavia si insiste, contro ogni esperienza, che nel 2018 alla fine vincerà un candidato di quella che si continua a chiamare la sinistra. E ancor più si insiste che una volta conquistato il controllo della macchina statale la si farà ballare con la musica chiesta dal popolo. Per evitare che si ripetano i disastri precedenti, a volte si usa come esorcismo l’identificazione mendace di qualcuno che ne sia il responsabile.
Il disincanto nei confronti del sistema dispotico di rappresentanza che si continua a chiamare democrazia è universale.
La frustrazione di fronte a elezioni nelle quali la gente non può realmente eleggere è immensa; un 80% degli statunitensi sentono verso la loro campagna elettorale attuale un disgusto che noi messicani ben conosciamo. Sia il disgusto che la frustrazione si fondano sull’esperienza.
È sempre più evidente il carattere ingannatore del processo elettorale. E ancora più evidente è l’impossibilità di utilizzare la macchina statale contro la sua stessa natura, ovvero di usarla non per dominare e controllare, non per servire il capitale, non a beneficio dell’1%, ma per cambiare le cose: per resistere all’orrore del capitalismo autoritario, per fermare la rapina e la distruzione ambientale, per far cessare la guerra contro la gente e costruire una nuova società. Solo di questo si tratta. A questo si riferisce la proposta che si sta discutendo. In essa si respira un senso di urgenza per quello che sta succedendo. Per quanto possiamo prevedere, definirà un cammino alternativo, che combatta la catastrofica esperienza di quella che viene chiamata democrazia e che si fondi sulla centenaria esperienza di un’altra forma di governo, in cui il termine recupera il suo significato originario e la gente comune si occupa delle questioni di governo. Cercherà di smantellare l’apparato statale oppressivo e distruttivo, nella convinzione (anch’essa fondata sull’esperienza) che questo si può fare solo dal basso, in maniera organizzata.
Quelli che vogliono arrivare ai vertici di tale apparato non lo smantellano; cambiano soltanto la sua forma, convinti che basterà modificare il suo orientamento assumendone la gestione. E questo, nelle circostanze attuali, risulta non solo insufficiente, ma controproducente.
La proposta che emergerà dalla consultazione indigena dovrà prendere in considerazione questo aspetto della sfida: far uscire il dibattito pubblico da questo pantano religioso, per affrontare ciò che è importante esplorare collettivamente di fronte ai pericoli estremi che ci incalzano e ci minacciano. Si tratta di discutere in modo sereno e sensato le vie alternative che si possono aprire a forza di organizzazione e di dignità se si abbandona il quadro dominante di convinzioni politiche e ideologiche sempre più intrappolate nel dogmatismo.
tratto da. comune-info