Riportiamo una intervista a cura di Giuseppe Orlandini pubblicata su Napoli Monitor che ringraziamo.
-------------------------------------------------------------------------
Bruno Cava
è docente dei corsi liberi di cinema e di filosofia che ogni anno
raccolgono centinaia di persone presso istituzioni quali il Museu da
República, la Cinemateca Museu de Arte Moderna e la Casa de Rui Barbosa,
a Rio de Janeiro. Partecipa alla rete Universidade Nômade da più di
dieci anni, producendo co-ricerca su movimenti sociali e lotte urbane. È
editore della rivista Lugar Comum e pubblica in vari siti e blog, tra i quali Open Democracy, The Guardian, Le Monde Diplomatique, Al Jazeera, e su riviste come le francesi Multitudes e Chimère e la nordamericana South Atlantic Quarterly. Laureato in ingegneria e in filosofia del diritto, ha scritto vari libri, tra cui: A multidão foi ao deserto (São Paulo, Annablume, 2013). Nel 2017 ha lanciato insieme ad Alexandre Mendes il libro A constituição do comum (Rio
de Janeiro, Revan). Lo abbiamo raggiunto via mail dopo il risultato del
ballottaggio per le elezioni in Brasile, per comprendere più
accuratamente le origini della vittoria del candidato dell’estrema
destra.
* * *
Con
l’elezione di Jair Bolsonaro, quel che con grande approssimazione viene
definito il nuovo ciclo politico reazionario globale, in Brasile assume
contorni drammatici. Così come per altri contesti, la sua elezione segna
la crisi di egemonia della governamentalità neoliberale e la
disposizione a dosi misurate di “guerra civile”? Se così è, considerando
che la realtà brasiliana già si distingue per un’intensità pronunciata
della violenza e del biopotere, quali forme potrà assumere tale esito?
Cosa aspettarsi da un governo Bolsonaro?
La crisi del 2008-09 al Nord è stata letta come un’opportunità per il Sud globale. Gli Stati Uniti e l’Europa occidentale hanno adottato una politica monetaria espansiva, che i governi di Russia, Cina e Brasile hanno interpretato come una chance per investire nell’industrializzazione, stimolare la produzione e l’occupazione.
Dilma è stata scelta per succedere a Lula perché
rappresentava questo nuovo passo: la fase due del “lulismo”.
Se la
crisi della globalizzazione neoliberale veniva letta come divorzio tra
capitalismo e democrazia liberale, in Brasile si
pensava che ciò consentisse una “fuga in avanti”, lo sbocco verso uno
stadio dirigista dello sviluppo.
L’esperienza sviluppista però è stata
un fiasco: una parte dell’investimento si è perso nell’inefficacia dei progetti e nella mancanza di pianificazione, l’altra parte è stata consumata dalla corruzione miliardaria che ha coinvolto il Partito dei Lavoratori (PT).
Nel 2015, dopo essere stata rieletta l’anno precedente, Dilma riconosceva la crisi terrificante che colpiva il paese e chiamava un banchiere della scuola di Chicago per
gestire il ministero dell’economia e avviare un aggiustamento
fiscale.
Quando l’anno successivo le strade si sono riempite di milioni
di manifestanti, il paese era in bancarotta, con sfrenati tassi di
disoccupazione e indebitamento.
Il governo Temer (2016-18)
ha continuato la politica di aggiustamento che Dilma aveva fallito a
causa della perdita di sostegno sociale e politico, attraverso alcune
riforme, per quanto insufficienti e limitate.
Oltre alla retorica
incendiaria stile Trump, la prima sfida di Bolsonaro è affrontare la
crisi fiscale dello stato e realizzare la riforma della previdenza e dei
servizi pubblici senza aggravare le tensioni urbane, che sono già un
orizzonte visibile in alcune metropoli.
Il capo economista del
presidente eletto è un guru neo-liberale che promette di rivoluzionare
il sistema di protezione sociale del paese, unificando le imposte e i
regimi pensionistici, arrivando a promettere anche un reddito di
cittadinanza di importo pari o superiore alla bolsa familia,
marchio di fabbrica del lulismo.
In questo senso, Bolsonaro non tende a
rappresentare l’arrivo di un nuovo tipo di fascismo, un’eccezione
sovrana, ma la nuova modulazione di una normalità che è già socialmente fascista (biopotere).
Il Brasile è un paese ultra-violento, con un tasso di omicidi superiore
alla somma di tutti i paesi in Europa (inclusa la Russia) e degli Stati
Uniti.
La maggior parte della popolazione vive già in condizioni di
paura e ricatti a causa di istanze violente che operano nella zona
grigia tra il potere del crimine e il crimine del potere, siano essi
narcotrafficanti, milizie parapolitiche o oligarchi mafiosi del
territorio.
Bolsonaro, oltre alla retorica trumpista, è inteso come un
giustiziere i cui “eccessi e deliri” sono tollerati in nome della
protezione militare di fronte a un male maggiore. Il rischio del
fascismo, quindi, non sta in uno Stato Fascista, ma nella risonanza del
nuovo presidente con la rete di micro-fascismi già in atto, in un
fascismo che è soglia mobile e zona grigia.
I
discorsi di odio, le allusioni a un’esplicita volontà di rottura con il
regime democratico e con il rispetto dei diritti umani, le terribili
dichiarazioni contro gli oppositori, i neri, i poveri, le donne e le
LGBTQ, già hanno provocato una escalation di violenza e sono stati
ampiamente riportati dalla stampa nazionale ed estera. Tuttavia è
necessario comprendere le condizioni di possibilità del fenomeno
Bolsonaro. Un certo consenso di sinistra vede nella sua affermazione
l’apoteosi del cosiddetto golpismo che, dalle giornate di giugno del
2013, passando per l’impeachement del 2016 e l’arresto di Lula nel marzo
di quest’anno, si sarebbe abbattuto sul paese. Al di là di questa
teleologia conciliatoria e del paradosso di un golpe che si suggella per
via elettorale, qual è una possibile genealogia del fenomeno?
Ma Bolsonaro assume la presidenza con il cinquantacinque per cento dei
voti (un totale di cinquantotto milioni di voti), grazie a una campagna
che ha superato il sostegno organico e prevedibile (circa il venti per
cento). Paradossalmente, per la sua legione di sostenitori, il voto in
lui è visto come un risveglio democratico e un rinnovamento della speranza.
Questa contraddizione striderà presto e dovrà essere sfruttata. A settembre di quest’anno, l’indagine Datafolha ha
mostrato che oltre il settanta per cento dei brasiliani crede nella
democrazia come miglior regime di governo, tra coloro che hanno
dichiarato di votare Bolsonaro essi sono il sessantaquattro per cento. La paura e l’autoritarismo sono radicati in un sistema corrotto e
rinsecchito di cui il PT e Lula sarebbero i simboli maggiori.
Questo
vale per quattro regioni del paese ma non per il Nordest (il venticinque per cento della popolazione nazionale), dove il candidato di Lula ha sconfitto Bolsonaro e il PT è ancora considerato un partito anti-sistema.
Tuttavia, le sinistre brasiliane tendono a vedere i bolsonaristi come manipolati da un Grande Altro,
come se fossero intrappolati in un sistema di illusioni. Ma più
importante della verità della credenza è la credenza come verità.
Nell’agire,
il credente produce effetti e gli effetti sono reali. La fede nella
democrazia è stata capace di mobilitare una folla che alle urne ha
decretato la sconfitta del Partito dei Lavoratori, pur
senza farsi illusioni sul fatto che Bolsonaro sia un democratico. In
realtà, la guerra culturale tra sinistra e destra – continuata
ininterrottamente dalla campagna per la rielezione di Dilma di quattro
anni fa – si è svolta attraverso scontri sempre più violenti, e i più
colpiti sono i gruppi più vulnerabili, le minoranze.
Tuttavia, il
fattore principale in termini quantitativi è la normalità della
violenza, che viene quotidianamente esercitata dai cosiddetti “buoni
cittadini” e da persone che non sono fascistoidi come Bolsonaro – e
nulla in Brasile è paragonabile alle bande neonaziste come a Charlottesville (USA) nel
2017.
Per non parlare della proibizione dell’aborto e della politica
statale della “guerra alla droga” che sta distruggendo decine di
migliaia di vite. La sconfitta della sinistra, che ha fatto sì che in
Bolsonaro si condensasse un momento al contempo anti-politico,
anti-corruzione e anti-sistemico, è legata all’incapacità di svincolarsi
dal Partito dei Lavoratori e da Lula, che rappresentano per la
maggioranza della popolazione il prototipo del vecchio politico e della
corruzione.
Mentre le destre si sforzavano di organizzarsi all’interno
del movimento, andando incontro allo sciopero selvaggio dei camionisti –
che ha comunicato fondamentalmente attraverso Whatsapp –
e alle manifestazioni anti-corruzione, la sinistra gridava “Lula
libero” e si esibiva in eventi autoreferenziali di discussione
ideologica. La maggior parte delle persone, tuttavia, vive problemi
concreti e non nutre alcun interesse per un dibattito astratto su ciò
che è peggio, se il comunismo o il fascismo.
Qual è
la composizione del voto per Bolsonaro? Come si è diffuso e su quali
vettori è andato affermandosi? Cosa ha spinto una porzione maggioritaria
della società brasiliana a desiderare tale opzione?
Le lotte del decennio 2010 in Brasile,
hanno funzionato come una fisarmonica che si è estesa nelle due
direzioni, producendo una sonorità complessa.
È il decennio con le più
grandi lotte di tutti i tempi, in particolare per le giornate di giugno 2013, il record di scioperi e le conseguenze sociali dello sciopero vittorioso dei camionisti del maggio 2018, che ha fermato le principali autostrade, il complesso petrolchimico e il più grande porto dell’America Latina,
portando il paese quasi a un collasso logistico.
Ed è il decennio che
ha chiuso il ciclo dei governi progressisti, con l’impeachment di Dilma nel 2016, l’arresto di Lula e l’elezione di un politico di estrema destra che predica il politicamente scorretto ed elogia i torturatori della dittatura brasiliana del 1964.
In questa elezione, la campagna del PT, che non perdeva un’elezione nazionale dal 1998,
è stata identificata con il sistema. Si è basata su palchi
tradizionali, tanta televisione e alleanze con i clientelari partiti di
centro.
Mentre la campagna di Bolsonaro si è basata principalmente sulle
nuove tecnologie di rete, ha praticamente ignorato la televisione e il
candidato ha parlato direttamente da casa, in home office.
La candidatura di Bolsonaro ha capitalizzato l’indignazione accumulata
durante tutto il decennio, che vede nel PT solo la riproduzione della
casta e il lento degrado delle condizioni di vita nelle metropoli.
Per la
prima volta, il lulismo ha perso l’egemonia sul voto dei più poveri e
delle periferie, a eccezione, ancora una volta, della regione del
Nordest. Nel resto del paese, ha avuto i voti di poveri e ricchi,
abitanti di grandi metropoli e piccole città; si è concentrato più tra
gli uomini, e tra le donne ha avuto almeno una percentuale di voto
equivalente a quella del PT.
È un fenomeno trasversale che dev’essere
compreso meglio dal punto di vista demografico, perché non incontra
paragoni nel recente passato del paese.
La campagna di Bolsonaro è stata
un’epidemia che ha contato sulla militanza del semplice cittadino, il
quale si è mobilitato attraverso le reti sociali di lavoro, gli amici e
la famiglia, in particolare con Whatsapp.
Quali responsabilità ha il PT nell’ascesa di Bolsonaro? Quali quelle della destra moderata?
La cosa principale per il PT non è affrontare il fascismo, ma garantire la propria sopravvivenza tra gli scandali, la crisi e il logoramento per le quattro elezioni consecutive,
dal 2002 al 2014.
Pertanto non ha giocato la carta della democrazia
contro il fascismo se non all’ultimo momento, dopo aver bloccato le alternative di centro-sinistra che si sono presentate.
Nel 2014 l’artiglieria pesante del PT, alimentata da miliardi in pubblicità, si è concentrata su Marina Silva, ambientalista ed
ex militante che ha lasciato il PT nel 2008 dopo aver perso una lotta
di potere interna con Dilma, scelta poi da Lula per la successione.
In
quel secondo round del 2014, eliminata la contendente, il PT ha potuto
tranquillamente polarizzare la sfida con Aécio Neves, in una monotona rivalità tra le due principali forze ideologiche del (quasi) bipartitismo brasiliano, il PT e il PSDB.
Nel 2018, l’alternativa era il candidato Ciro Gomes,
che si proponeva di ristabilire un progetto di sviluppo nazionale
progressista sulla scia del lulismo.
Il PT ha bloccato le pretese di
Ciro manovrando le alleanze nel Nordest e ha permesso a Lula, sebbene
imprigionato, di essere il candidato fake e oscurare il
protagonismo di Gomes, almeno fino all’ultimo secondo del calendario
elettorale, quando il leader petista è stato sostituito da Fernando Haddad.
Sia
Marina che Ciro potevano contare su migliori condizioni per affrontare
Bolsonaro, perché l’avversario non avrebbe potuto cavalcare l’onda
anti-petista, né avrebbe usato la guerra culturale che da quattro anni
veniva attizzata a scapito della sinistra.
La strategia di Lula è stata persino messa in discussione dai sostenitori della campagna. Per primo è stato Cid Gomes, fratello di Ciro Gomes, che ha accusato la posizione dogmatica e
unilaterale dei petisti come un impedimento alla formazione di un ampio
fronte democratico.
Poi è stata la volta del cantante hip-hop Mano Brown,
che dal palco del partito ha dichiarato che il più grande nemico era
“la cecità e il fanatismo di entrambe le parti”, che i leader accusati
di corruzione dovevano pagare per i loro errori, e che il PT aveva perso
il contatto con la base sociale e doveva tornare alle origini.
I due
hanno sintetizzato, dentro e contro la campagna del partito nel secondo
turno, un’autocritica che restava chiusa nella bocca della sinistra,
continuamente rimandata per “non fare il gioco della destra”.
Il
centro-destra liberale, invece, ha tollerato Bolsonaro durante tutta la
sua scalata, iniziata con l’omaggio alla tortura che, in quanto
deputato, ha pronunciato nel voto per l’impeachment di Dilma.
Questo
campo non è stato in grado di presentare un outsider in stile Macron e
ha offerto agli elettori logori politici della vecchia guardia,
incapaci di competere con lo slancio populista di Bolsonaro.
Non
incontrando alternative di centro-sinistra o di centro-destra,
l’elettorato ha capito che per togliere il PT dal potere avrebbe dovuto
combattere un male con un altro male, fede contro fede, andando a un
secondo turno tra i peggiori.
Come
nell’elezione di Trump e nel referendum sul Brexit, anche durante le
elezioni brasiliane è emerso con forza il tema delle fake news e di una
presunta cospirazione globale alt-right, cioè la destra alternativa. Che
influenza ha e come intendere tale fenomeno in Brasile?
L’alt-right in Brasile si è organizzata dopo il giugno 2013, quell’anno non era presente nelle strade in quanto forza organizzativa. Nel 2014 sono saliti alla ribalta tre movimenti: il Vem pra Rua, il Revoltados Online e il Movimento Brasil Livre – il cui acronimo (MBL) emula quello di uno dei principali collettivi che hanno organizzato le giornate di giugno, il Movimento Passe Livre (MPL).
Moralista nei costumi, neoliberale in economia e fashion nell’estetica, l’alt-right si è caratterizzata per mezzo di una reazione debosciata e cinica alla sinistra, al PT e al politicamente corretto.
Il problema è stato che parte della sinistra si è impegnata in una
guerra culturale contro di essa che l’ha allontanata ancora di più dagli
antagonismi reali.
Inoltre, l’alt-right brasiliana si è alleata con la galassia delle chiese protestanti neo-pentecostali,
che hanno fatto, queste sì, un lavoro di radicamento tra i più poveri,
offrendo in molti territori dilaniati dalla violenza l’unica alternativa
di solidarietà e sostegno reciproco.
Tra le zone grigie del potere del
crimine e del crimine del potere, la famiglia nucleare e una rigida
morale sono divenute un’ancora di salvezza per un contingente crescente
di brasiliani disillusi e disperati.
Il fenomeno Bolsonaro è la convergenza delle guerre culturali vinte dall’alt-right,
del “lulismo di destra” dell’ondata evangelica tra i poveri, e infine
degli antagonismi reali che hanno scolpito la punta dell’ariete
anti-sistemico.
Per quanto riguarda le fake news, il
loro effetto è sovradimensionato nella narrativa della manipolazione di
massa. Buona parte di esse funzionano secondo la logica del “non è vero
ma ci credo”: la persona non considera principalmente il contenuto
veritiero, ma il fatto che anche se non lo fosse potrebbe
tranquillamente esserlo. Il contenuto del messaggio è la cosa più
importante.
Le fake news sono state usate in modo massiccio dalla campagna PT nel 2014 contro Marina e poi Aécio, attraverso la proliferazione di meme, post e tweet.
Nel 2018 Whatsapp è
stato il principale veicolo per la moltiplicazione delle notizie false;
ma questa volta, senza la macchina del governo a suo favore, il PT ha
finito col provare il proprio veleno ed è stato sconfitto in
battaglia. Tuttavia, non è stato il fattore preponderante come non lo è
stata alcuna articolazione globale con Trump.
È vero che esiste una
tendenza mondiale di ascesa di leader populisti, ideologi come Steve
Bannon o Olavo de Carvalho, ma il suo funzionamento pratico è lungi
dall’essere dimostrato.
Tutto questo rappresenta la polvere del
combattimento, ma il suo esito principale era già stato scritto sulla
mappa di forze del lungo giugno.
Nella
notte della democrazia che incombe sul Brasile come si potrà resistere
alla necropolitica bolsonarista? Basteranno gli appelli all’unità di un
fronte democratico popolare e costituzionale? Quali le condizioni per il
rinnovamento delle lotte e dell’autonomia?
No. Le
sinistre sono troppo unite, c’è troppa unità. Anche l’urgenza della
lotta qui e ora e il primato della pratica stanno portando a sempre più
“cecità e fanatismo”, per dirla con Mano Brown. Il
processismo non funziona quando il processo ci sta portando a un’isteria
reattiva, dove finiamo col reagire solo a sollecitazioni e riflessi
condizionati.
Se le fake news hanno una qualche efficacia è quella di produrre l’inefficacia, bombardando l’ambiente di stimoli e bit di
informazione in modo da impedire qualsiasi strategia che non sia quella
che viene dall’alto, dal partito o dallo stesso Lula, come è successo
in questa elezione.
Tra il 2013 e il 2018 c’è
stata una sequenza di mobilitazioni senza precedenti nella storia delle
lotte brasiliane, ma dinanzi al mostruoso, dinanzi a ciò che spaventa,
le sinistre si sono mostrate eccessivamente presuntuose. È ora di
perdersi un po’ e tornare a toccare il fondo del fiume.
Nella catena di
azioni e reazioni in cui sembra di essere intrappolati, deve essere
introdotto un ritardo, una sorta di intervallo per respirare e
ripensare. D’altra parte, un ampio fronte democratico tende a rafforzare
il nostro vincolo con il sistema, portando a un estremismo di centro.
Se il
passato recente insegna qualcosa, è che tra il buon senso di un
centrismo responsabile e la confusione anti-sistemica, le maggioranze
sociali percorreranno la seconda strada, palesando la propria
indignazione. Né l’unità delle sinistre contro il fascismo, che nasconde lo stalinismo anti-dissidenza,
né la frenesia generalizzata, che nasconde un consenso neutro e
neutralizzato. Solo andando incontro al movimento, riconnettendosi alle
lotte e alla società in movimento, è possibile rivitalizzare la teoria e
la pratica.
Basta col giungere davanti a ogni problema con una borsa
piena di idee giuste, la politica ricomincia quando non c’è un’idea
pronta, un’uscita attesa, uno strumento a portata di mano.
È necessario
avere un’idea. Non molte idee giuste, ma giusto un’idea.
Assorbire
l’impasse e ripensarsi nel mezzo dei grandi pericoli e delle minacce che
ci circondano, nell'impazienza di un’accelerazione storica, è una vera
sfida. I pericoli sono dati, compreso il pericolo del fascismo. Saremo
in grado di vedere le brecce e le opportunità? In questo momento di
sconfitta catastrofica, non avrei la pretesa di proporre nient’altro che
questo.