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lunedì 31 agosto 2009

¡¡ZANON ES DEL PUEBLO!!

Un'altra tappa importante nella lotta della più grande fabbrica occupata argentina Dopo 9 anni è stato conquistato l'esproprio definitivo della fabbrica
Dopo 9 anni di lotta, siamo riusciti a strappare l’esproprio definitivo della nostra fabbrica.
Questo cammino, percorso dalle operaie e dagli operai della Zanon, non sarebbe stato possibile senza prima aver strappato alla burocrazia sindacale le nostre rappresentanze di categoria.
Per prima cosa, nel 1998, abbiamo recuperato la nostra commissione interna per lottare contro i licenziamenti, i maltrattamenti, le umiliazioni e per le condizioni di sicurezza e igiene, contro la polifunzionalità, per i nostri salari, ecc, ma soprattutto per instaurare una nuova forma di lavoro: la democrazia diretta per poi, nel 2000, ricuperare il nostro sindacato e metterlo al servizio dei lavoratori.
In questi quasi nove anni ne è passata di acqua sotto i ponti, abbiamo valorizzato profondamente l’appoggio che abbiamo ricevuto in questi anni di lotta. Dalla [gente della] comunità di Centenario, Neuquén, Plottier, ecc, che sul finire del 2001 si avvicinava con un pacchetto di spaghetti alle tende che abbiamo sostenuto per 5 mesi, fino ai lavoratori interni dell’unità n° 11 che si trova a pochi metri dalla fabbrica, che per 3 giorni hanno donato le loro razioni di cibo affinché potessimo resistere.
Le Madri di Plaza de Mayo, associazione regionale di Neuquén, che fin dal primo giorno ci hanno adottato come loro figli e camminano per le strade assieme a noi, fino ad oggi, resistendo assieme ad ognuno di noi 5 ingiunzioni di sfratto, repressioni, minacce.
I compagni e le compagne docenti dell’ATEN[1], compagni della CTA[2] Neuquén. Fino alla solidarietà a livello nazionale e internazionale di compagni che mai abbiamo conosciuto e che, conoscendo la nostra lotta, ci inviavano i loro fondi sciopero per resistere.
Abbiamo imparato anche ad essere solidali con altri lavoratori, creando un Fondo per lo Sciopero permanente, abbiamo spinto dicendo che la coordinazione è fondamentale per il trionfo delle lotte operaie. – Dai minatori di Río Turbio, lavoratori del petrolio di Las Heras, statali e lavoratori di fabbriche di Neuquén e Río Negro, Garrahan Subterráneas, Aeronautici, Ferroviari, fino ai movimenti di lavoratori disoccupati di Tartagal e decine di fabbriche ricuperate.-
Dal principio abbiamo aperto la fabbrica alla comunità, ricevendo migliaia di bambini e adulti affinché conoscessero la nostra esperienza di lotta.-
Abbiamo consolidato l’unità operaio-studentesca, tanto nei giovani studenti medi quanto con i compagni universitari, che ha avuto e ha espressione nell’accordo quadro di collaborazione con l’Università.Abbiamo organizzato concerti senza polizia, con artisti regionali e gruppi nazionali come La Renga, Attaque 77, Bersuit Vergarabat, León Gieco, Raly Barrionuevo, Dúo Coplanacus, tra gli altri, che hanno solidarizzato con la nostra lotta lasciando la loro arte e solidarietà alle operaie e agli operai della Zanon, plasmata nella comunità di Neuquén.
La nostra lotta si è sempre basata nella pratica della lotta di classe, identificando i governi, i padroni e le burocrazie sindacali come il nemico dei lavoratori.
Questa esperienza, che abbiamo costruito lungo questi nove anni e con l’enorme consenso di cui gode la nostra lotta nella provincia, a livello nazionale e internazionale ha fatto sì che potessimo ritorcere la volontà politica del Governo Provinciale del MPN[3] che ha dovuto sostenere e votare il progetto di legge di esproprio.
Consideriamo che questa conquista, da parte di tutto l’insieme della classe dei lavoratori, ha un valore enorme, e che questo governo che oggi vota l’esproprio della “Zanon bajo gestión obrera[4]” è lo stesso che ha assassinato Teresa Rodríguez[5]; lo stesso che ha represso noi operaie e operai della Zanon a fine del 2001 e ha voluto sgomberarci 5 volte; lo stesso che ha fucilato il nostro compagno ceramista Pepe Alveal, facendogli perdere un occhio, nella repressione del Barrio San Lorenzo; lo stesso che ci ha assassinato il compagno Carlos Fuentealba e lo stesso che oggi parla di pace sociale quando in questi momenti di crisi economica mondiale gli impresari e i loro governi ci dichiarano guerra con licenziamenti, salari da fame, caro prezzi, ecc.
Le scuole e gli ospedali sono stati svuotati e l’unica opera pubblica di cui parlano è la costruzione di carceri per rinchiudere i nostri giovani, mentre ogni giorno muoiono decine di famiglie negli incendi delle loro precarie casette occupate.
Per questo, nonostante l’enorme conquista che abbiamo ottenuto, in un contesto di crisi economica internazionale, strappando l’esproprio a questo governo, cosa che ha un valore molto maggiore, dalla gestione operaia della Zanon e dal Sindacato Ceramisti di Neuquén siamo convinti che la nostra lotta non è finita perché, come fin dal primo giorno, consideriamo che la salvezza non è individuale ma dell’insieme della classe lavoratrice.
Compagni e compagne, a tutti e tutte quelli che in qualche modo sono stati parte, hanno portato il loro granello di sabbia: condividiamo l’allegria di questo grande passo!!
Ai compagni che ancora guardano increduli, talvolta timorosi, talvolta scettici diciamo: vi invitiamo ad essere parte di questa storia che non è né più né meno che contribuire con un granello di sabbia alla trasformazione della realtà e riprendere il sogno dei nostri 30 mila compagni[6]: una società senza sfruttatori né sfruttati!!

¡¡ZANON ES DEL PUEBLO!!
Obreras obreros de Zanon - Sindicato Ceramistas de Neuquén

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[1] ATEN: “Asociación Trabajadores del Estado de Neuquén”, sindacato dei lavoratori statali
[2] CTA: “Central de Trabajadores Argentinos”, grosso sindacato dissidente argentino
[3] MPN: “Movimiento Popular Neuquino”, partito di centro-destra che ha sostanzialmente dominato la scena politica della Provincia di Neuquén per quasi 50 anni.
[4] “sotto gestione operaia”
[5] Attivista del movimento dei lavoratori disoccupati, assassinata dalla polizia durante un picchetto nel 1997.
[6] Il riferimento è ai 30.000 desaparecidos della dittatura militare 1976-1983

mercoledì 20 maggio 2009

Benetton ha recintato la strada provinciale "Ruta 40"

Abitanti di El Maiten (Chubut) hanno manifestato la loro indignazione e rifiuto attraverso una catena di posta elettronica contro l’impresa italiana Benetton, proprietaria di grandi estensioni di territorio.
Benetton ha istallato una recinzione che impedisce il passo sulla strada "Ruta 40".
La multinazionale inoltre ha recintato fiumi e torrenti impedendone l’accesso.

Prensa del Pueblo
Esta usurpación de espacios públicos por empresas internacionales ya se ha hecho costumbre de los millonarios extranjeros, que son amparados por el poder político y judicial de las provincias patagónicas.
Nuevamente los derechos de todos los habitantes son cercenados por la avaricia de los poderosos y su impunidad al ser apoyados por los gobiernos.
Hace pocos meses, en la Comarca Andina muchos vieron atónitos cómo el propio intendente de El Bolsón, Oscar Romera, impedía con su "patota municipal" una manifestación, que vecinos de la Patagonia le hacía a la empresa Lago Escondido por impedir el paso al espejo de agua.
Benetton: El empresario que más contamina en PuelMapuDueño de un imperio textil internacional, cuenta con 900.000 hectáreas en la Patagonia, una mega curtiembre y negocios mineros de oro y cobre que producen graves daños en el Medio Ambiente. Mientras tanto, pasea con su yate ecológico por el mundo y se califica como "un defensor del futuro del planeta".

martedì 19 maggio 2009

Mapuche: In Cile i diritti violati di un popolo

di Annalisa Melandri


Le violazioni dei diritti umani del popolo mapuche accertate da parte degli organismi internazionali
Facendo buon viso a cattivo gioco, il Cile ha accettato le raccomandazioni di alcuni Stati membri dell’ONU e di alcune ONG rispetto al tema della violazioni dei diritti umani del popolo mapuche, promettendo entro la fine del corrente anno di dare impulso a un programma nazionale volto al rispetto di questi e realizzato in coordinazione con la società civile.

La sessione speciale dell’ONU si è tenuta martedì 12 maggio nell’ambito della riunione dell’ Esame Periodico Universale (EPU), un nuovo meccanismo delle Nazioni Unite che ogni quattro anni esamina la situazione di un determinato paese.

Povertà estrema, educazione, rispetto dei diritti di donne e bambini, fine della repressione, garanzie giuridiche e diritto alla terra. Questi i principali temi affrontati e le richieste di chiarimenti da parte di alcuni paesi membri dell’ONU, ma sono state proposte anche raccomandazioni sul caso dei giornalisti stranieri espulsi dal paese per aver realizzato reportages sui mapuche e la revisione della legge Antiterrorista, alle quali il governo cileno deve rispondere entro il settembre del 2009.

Tuttavia rischia di trasformarsi nel solito balletto vuoto e senza senso di raccomandazioni, fatto di buone intenzioni e promesse mancate, dove tutti sanno quel che accade ma nessuno è seriamente intenzionato a fare bene la sua parte fino in fondo. E soprattutto dal quale è rimasto escluso il diretto interessato e cioè il popolo mapuche.

Se è vero che nell’assemblea dell’EPU sono state sentite numerose associazioni per la difesa dei diritti umani e molte ONG, è anche vero che non un rappresentate del popolo mapuche è stato invitato a partecipare.

La situazione dei mapuche in Cile oggi è talmente grave e preoccupante che a ben poco potranno servire raccomandazioni e belle parole.

Ha a che vedere direttamente con i giochi di potere e il pinochettismo che è tutt’altro che morto e con una presidente, Michelle Bachelet, che sembra totalmente piegata a poteri molto più forti di lei e che non prende ferma posizione in merito anche perchè tra quasi un anno è in scadenza il suo mandato.

Le violazioni più gravi verso il popolo mapuche sono commesse dall’Esercito e dalla Polizia come riportato anche nella relazione del Comitato Contro la Tortura delle Nazioni Unite, nel quale si è fatto esplicito riferimento a maltrattamenti che si trasformano in veri e propri casi di tortura, all’ impunità imperante per cui chi commette le violazioni non viene mai giudicato e condannato e alla stessa legge di Amnistia per la quale non si possono giudicare le violazioni dei diritti umani commesse tra l’11 settembre 1973 e il 1988.

Le violazioni dei diritti umani contro il popolo mapuche sono commesse soprattutto durante le operazioni di perquisizione delle comunità, durante lo sfollamento forzato e durante gli interventi realizzati in occasione della riappropriazione delle terre da parte dei mapuche.

I morti e le violenze commesse sui bambini
In alcune occasioni le operazioni di polizia hanno avuto esito tragico come accadde nel 2002 con la morte del 17enne Alex Lemún Saavedra, rimasto ucciso da un colpo di arma da fuoco sparato dai Carabinieri o di Juan Collihuín morto per lo stesso motivo nel 2006, o più recentemente per l’uccisione di Matías Catrileo, morto durante una recuperazione di terre il 3 gennaio 2008.

In tutti questi casi gli autori materiali di queste morti sono ancora in servizio e nessun provvedimento è stato preso contro di essi.

Particolarmente grave è la situazione delle donne e dei bambini mapuche, i soggetti più deboli delle comunità.

Ci sono neonati, come è avvenuto ad una bambina di appena sette mesi che è rimasta intossicata dal lancio di un lacrimogeno lanciato all’interno della sua abitazione, che riportano gravi lesioni e traumi durante le operazioni di polizia, o minori che raccontano di essere stati picchiati dai Carabinieri o tenuti per un’intera notte in celle umide e fredde e senza cibo.

Bambini che raccontano di intimidazioni e minacce e altri che ricevono alla schiena o alle gambe i pallini antisommossa o che restano completamente soli dopo l’arresto di tutta la famiglia come è avvenuto alla figlia minore della lonko (dirigente indigena) Juana Calfunao che ha dovuto chiedere asilo a Ginevra.

Il Servizio di Salute dell’Araucania Nord, (Programma di Salute Mapuche - Dipartimento di Psichiatria, Ospedale di Angol) ha testimoniato proprio al riguardo, come i bambini delle comunità mapuche soffrano di tutta una serie di disturbi e problemi psicologici riconducibili al conflitto territoriale e giuridico.

E’ accertato ufficialmente inoltre anche un caso di sparizione forzata, un ragazzo di 16 anni, José Huenante, è scomparso da tre anni dopo essere stato visto l’ultima volta su un’ auto dei Carabinieri. Tre di essi sono formalmente accusati del suo sequestro, ma del giovane nessuna notizia ad oggi.


I prigionieri politici
Non meno grave appare la situazione dei prigionieri politici mapuche nelle carceri cilene. In un recente comunicato dichiarano di rifiutare fermamente “l’integrazione forzata con la società winka (occidentale) corrotta dall’individualismo” e reclamano e confermano i loro diritti sui territori originari svenduti completamente alle multinazionali dai quali sono stati cacciati per permetterne lo sfruttamento.

Lo sfruttamento delle foreste ad opera delle multinazionali del legno, la costruzione di dighe e centrali idroelettriche, di aeroporti, lo sfruttamento minerario delle enormi ricchezze del sottosuolo, sono queste le politiche che attua il governo cileno per svendere le risorse del paese ai capitali stranieri e per la cui realizzazione passa sopra ai diritti dei popoli nativi, decretandone la scomparsa.

C’è una campagna sistematica di distruzione e di annichilamento di intere comunità che si sta portando avanti nel silenzio indecente della comunità internazionale e che si compie attraverso repressione, minacce, uccisioni e arresti.

I membri delle comunità organizzate e in lotta, i weichafe (guerrieri), vengono incarcerati e accusati in base a leggi risalenti alla dittatura di Pinochet di essere “terroristi” e condannati con pene lunghissime che arrivano fino a dieci anni e oltre per reati minori quali l’incendio (elevato alla categoria penale di “incendio terrorista”), la recuperazione di terre e atti di proteste o rivendicazioni sociali.

Soltanto della Coordinadora Mapuche Arauco Malleco sono stati arrestati circa un mese fa 11 membri che vanno ad aggiungersi agli oltre 40 prigionieri nelle carceri che Michelle Bachelet, presidente del Cile, ha più volte ribadito non essere prigionieri politici.

Patricia Troncoso, Elena Varela e i giornalisti “terroristi”
Purtroppo il conflitto con il popolo mapuche fa parte di una delle tante lotte giuste ma dimenticate del mondo. Si fa finta di non sapere che è un intero popolo che si ribella a un sistema di potere con forme di protesta antiche e organizzate e che è sbagliato e disonesto chiamare terrorismo.

La legittimità delle richieste del popolo mapuche, la fierezza della sua gente, l’importanza delle sue rivendicazioni esce soltanto per brevi momenti dai confini nazionali quando il sistema politico e giudiziario cileno “inciampa” in incidenti di percorso come accadde l’anno scorso in occasione del lunghissimo sciopero della fame (112 giorni) che Patricia Troncoso portò avanti dal carcere e che la condusse quasi alla morte e in seguito al quale ottenne soltanto modesti benefici rispetto alla sua detenzione. Le sue richieste politiche più importanti, quali la libertà per tutti i prigionieri politici, la smilitarizzazione dei territori mapuche dell’Araucanía, l’abrogazione della legge Antiterrorista, la fine della repressione contro il popolo mapuche, furono completamente disattese.

Il suo sciopero della fame non si concluse con la sua morte solo per la grande pressione internazionale su di un governo sordo e cieco, dal momento che Patricia non ha mai ricevuto, nemmeno nei momenti più critici, la visita di nessun rappresentante del governo del suo paese.

Sempre lo scorso anno balzò alla cronaca la vicenda della videomaker Elena Varela, arrestata nel maggio del 2008 e tenuta in carcere tre mesi, mentre realizzava un reportage dal titolo Newen Mapuche sul conflitto con le multinazionali del legno, accusata di essere l’autrice intellettuale di alcune rapine in banca commesse tra il 2004 e il 2005 in associazione con la guerriglia del MIR (Movimiento de Izquierda Revolucionaria).

In quell’occasione le fu sequestrato tutto il suo lavoro. Il processo, con il quale rischia una condanna a 15 anni di carcere, che era fissato per il 29 aprile è stato rimandato ai primi di giugno per aspetti formali.

Anche Reporters senza Frontiere ha espresso in una lettera a Michelle Bachelet (alla quale lei non ha mai risposto) preoccupazione per la sentenza che sarebbe scaturita dal processo e i dubbi circa la validità delle accuse.

D’altra parte era già avvenuto in passato che giornalisti stranieri fossero identificati come “terroristi” ed arrestati. Accadde nel marzo 2008 con due cittadini francesi, nella zona di Collipulli quando Christophe Harrison e Joffrey Rossi furono detenuti per poco tempo, accusati di aver provocato un incendio e di appartenere all’ETA e a due cineasti italiani, Giuseppe Gabriele e Dario Ioseffi, accusati di “terrorismo” e poi espulsi dal paese.

Il prossimo Esame Periodico Universale (EPU) si terrà tra quattro anni. In Cile allora ci sarà un altro governo e un altro presidente. Da Michelle Bachelet ci si aspettava molto, sicuramente molto di più di quello che ha fatto per il rispetto dei diritti umani nel suo paese, vista la sua storia personale segnata da gravi perdite familiari durante la dittatura di Pinochet.

Il pinochettismo e il potere militare sono ancora forti in Cile, la destra è sicuramente una delle più forti in America latina, il neoliberismo applicato selvaggiamente negli anni ’70 e ’80 si è radicato prepotentemente creando ferite profonde in un tessuto sociale già gravemente compromesso da anni di terrore.

Il popolo mapuche rivendica i suoi territori, afferma prepotentemente e con orgoglio il diritto di vivere sulle sue terre, riconferma con fierezza usi e tradizioni antiche che non vuole perdere.

“Gli occhi neri di Lautaro
gettano migliaia di lampi.
Come soli fanno germogliare i solchi
come soli guidano l’avanzata di un popolo combattente
che non vuole essere schiavo
come un puma in gabbia”
(Rayen Kvyeh)

domenica 3 maggio 2009

Continuano le mobilitazioni Mapuche nella Provincia di Neuquén


Mapuexpress - Comunicaciones Radio AM800 Wajzugun
A seguito della sospensione delle riunioni previste per questa settimana con i ministri del governatore Jorge Sapag, le comunità del territorio wijice sono tornati a manifestare interrompendo il transito sulla strada ’ruta 234’, all’ingresso del corridoio dei laghi nel sud Neuquino. Assieme alla Coordinadora dei settori sociali della località di Junín de Los Andes, le comunità hanno tenuto l’occupazione del ponte sul fiume Chimehuin per 4 ore.

Al incumplimiento de acuerdos del gobierno de Jorge Sapag las comunidades Mapuce responden movilizándose, esta ves interrumpiendo el transito en el acceso a Junín de los Andes.
Tras permanecer por 4 horas sobre la ruta 234 las comunidades mapuce junto a la Coordinadora de sectores sociales se retiraron hasta el próximo miércoles 6 de Mayo día en que se producirá la reunión con los funcionarios de la provincia de Neuquén, según lo manifestado por el Ministro Jorge Tobares al Werken Fidel Colipan.
La Confederación Mapuce Neuquina reclama la firma del convenio que pondría en marcha el denominado Programa de Relevamiento Territorial de Tierras Indígenas”, ley nacional 26.160.
Esta ves el pueblo mapuce se movilizo junto a la Coordinadora de sectores sociales que la integran entre otras organizaciones gremiales y populares de Junín, los vecinos sin tierra que reclaman ser escuchados por el gobierno, para que se le de solución a la demanda de políticas de viviendas en esta ciudad; Dándole solución habitacional a 1400 familias.
El sub. Secretario Alex Tarifeño y el Diputado Provincial Carlos González se habían comprometido con las comunidades de la zonal wijice a continuar el dialogo iniciado el pasado viernes 24 de Abril, luego de 5 días de corte de ruta por parte del pueblo mapuce.
El Jefe de la Policía Provincial el comisario Lepen, fue quien puso en comunicación telefónica al Werken de la CMN, Fidel Colipan con el mismísimo Tobares quien nuevamente se comprometió a reunirse con los mapuce el próximo Miércoles.
La medida que permitió el paso de vehículos cada 20 minutos mientras se volanteaba, finalizo pasado el medio día con la advertencia del pueblo mapuce y los sectores sociales de concretar una medida de fuerza mas prolongada si no se concreta la mesa de dialogo prevista la para semana proxima.
Comunicado.
IDENTIDAD TERRITORIAL WIJICE (CMN)
Seguimos en lucha por nuestros legítimos derechos
“Neuquén Tierra Nueva”: …para quienes???
Ante el incumplimiento del gobierno provincial de asistir a diálogo con las autoridades del Pueblo Mapuce para dar respuesta a la exigencia de pronta ejecución del Programa de Relevamiento Territorial de las Comunidades Mapuce, dilatando una vez más los tiempos y su responsabilidad política, nos ponemos en alerta y lucha para exigir por nuestros legítimos derechos.
A la evasiva del gobierno provincial respondemos en la ruta, no para coartar el libre tránsito de la población que circula por ella, sino en total repudio a la actitud de este gobierno que tantas veces intentó convencer a la sociedad que era distinto del asesino Jorge Sobisch.
A este gobierno provincial decimos:
Que el Pueblo Mapuche va seguir exigiendo el cumplimiento de la Ley Nacional 26160, hasta que su ejecución sea un hecho. Su aplicación pondrá fin a los distintos casos conflictivos existentes.
Que no permitiremos más dilataciones que solo benefician a los amigos del “poder” político provincial que históricamente han venido usurpando territorio mapuce.
Denunciaremos en las instancias que sean necesarias esta manipulación del Derecho Territorial mapuce.
El pueblo mapuce denuncia al gobierno de la provincia por esta nueva negación al Reconocimiento del derecho como pueblo.
Lo único que hemos logrado con nuestra paciencia y comprensión con las autoridades provinciales, es cargar con una serie de cargos y procesamientos que suman a la fecha 48 causas civiles y penales en los juzgados provinciales y federales. Nuestras autoridades originarias desfilan ante los juzgados como verdaderos delincuentes cuando lo único que hacen es cumplir con su deber de defender sus derechos históricamente pisoteados.
En el dia de la Fecha las comunidades organizadas en la identidad territorial wijice junto a la coordinadora de sectores sociales en Junín de los Andes nos manifestamos sobre el acceso a la ciudad sobre el puente del rió Chimehuin.
Por Autodeterminación, Justicia y Libertad.
Marci Weu!!!!
Lofce Zonal Wijice. Linares, Atreiko, Painefilu, Namunkura, Quintriqueo, Paichil Antriao, Quintupuray, Lafkenche, Rakitue, Payla Menuko, Cayun.

venerdì 17 aprile 2009

Treviso - Megastore Benetton chiuso e circondato dal filo spinato

Festival "Questa terra è la nostra terra" - Seconda giornata di iniziative

Megastore di Benetton costretto a chiudere, circondato dal filo spinato a simboleggiare l’opera di distruzione che l’impresa di Treviso sta portando avanti in Patagonia. Questa l’immagine di un pomeriggio in piazzetta Indipendenza dove si è svolta, nonostante il tentativo da parte dell’amministrazione comunale di negarla, la conferenza stampa promossa dal Festival "Questa terra è la nostra terra". In Argentina Benetton si è impossessato della terra abitata da sempre dal popolo Mapuche in una striscia di territorio dove intere famiglie sono ridotte alla povertà. I Mapuche rappresentano la lotta di un territorio che difende la propria identità, senza rinunciare alla cultura della "mapu" (terra), conservando le sue radici dal tentativo di annientamento dettato dalla globalizzazione.Ascolta l’intervento di Mauro Millan, portavoce dei Mapuche [ audio ]

sabato 11 aprile 2009

Buenos Aires - Abbattuto il muro che separava i ricchi dai poveri

Il muro era stato costruito per separare un quartiere popolare da un quartiere della classe alta

Buenos Aires, 9 aprile. Un gruppo di residenti indignati del quartiere di Villa Jardin nel Municipio di San Fernando, a nordovest della capitale, hanno abbattuto un muro che, per l’insolita decisione della vicina municipalità di San Isidro, si stava costruendo per separare le due zone: numerose le denunce da parte di diverse organizzazioni a causa della discriminazione di un settore della popolazione che quel muro simboleggia. Decine di bambini dei quartieri più popolari avevano di fronte quel muro che pretendeva di separarli dalle zone dove vivono i settori della classe alta, mentre cresceva l’indignazione dei discriminati. La decisione della costruzione si inseriva all’interno di una campagna di estrema destra sul tema dell’insicurezza, alimentata da diversi mezzi di comunicazione. Il muro di cemento e sbarre di ferro largo 3 metri e alto 4, che doveva raggiungere gli 800 metri di lunghezza, ha provocato dure critiche anche da parte del Presidente, Cristina Fernández de Kirchner, del governatore della Provincia di B.A. Daniel Scioli e del ministro della Sicurezza, Carlos Stornelli. Costruito per delimitare la località La Horqueta, a San Isidro, dove vive la parte più ricca della città, dal quartiere popolare di Villa Jardin a San Fernando, il muro ha causato una vera e propria ribellione tra i più poveri, la maggior parte dei quali lavoratori. Com’era prevedibile, gli abitanti hanno cominciato ad abbattere il muro con picconi, martelli e pale, fino a far crollare i pali di cemento, i piloni e le recinzioni. Uno dei residenti di San Fernando ha poi detto: “Molte di quelle persone hanno guadagnato grazie a corruzione, truffe, furti e sfruttamento dei lavoratori, o lasciando migliaia di disoccupati nelle loro imprese senza che gliene importasse nulla. Adesso loro sono considerati brave persone, mentre noi i delinquenti.” Il giudice Fernando Ribeiro Cardadeiro di San Isidro ha ordinato di sospendere la costruzione del muro dopo che l’intendente di San Fernando, Osvaldo Amieiro, aveva presentato una denuncia all’Istituto Nazionale contro la Discriminazione (INADI) nella quale si spiegava che il muro aveva l’intenzione di separare i residenti del quartiere ricco dai residenti del quartiere popolare. Il muro inoltre voleva impedire che gli abitanti di Villa Jardin attraversassero quattro strade dell’esclusivo quartiere de La Horqueta, dove 33 residenti avevano richiesto che fosse eretto un muro con sbarre di ferro perché non entrassero i ladri. Il ministro della sicurezza della città ha affermato che alzare un muro era una follia e un’incitazione alla violenza, e ha avvertito che dietro a quella decisione si nascondevano strategie elettorali.

di Stella Calloni, corrispondente da Buenos Aires
Traduzione di Francesca Stanca, Ass.ne Ya Basta!

Leggi l’articolo in lingua originale

sabato 7 febbraio 2009

Cronaca di una resistenza: Leleque. - Il prossimo 14 feb sono due anni dal recupero del fondo.






di Adrian Moyano - Azkintuwe

Il prossimo 14 febbraio si compiono due anni dal recupero mapuche del fondo Santa Rosa di Leleque - Puelmapu. In occasione di questo anniversario pubblichiamo la cronaca del giornalista Adrian Moyano, corrispondente della rivista Azkintuwe a Bariloche, estratta dal libro "Crónicas de la Resistencia Mapuche". Tutta la dignità della lotta di Atilio Curiñanco e Rosa Rua Nahuelquir contro la multinazionale Benetton.
vedi anche il comunicato
"La lluvia es la mejor arma de los mapuche”, vociferó Mauro Millán. Pareció que exageraba. Un auténtico diluvio nos castigaba feo, a unos pasos de la estancia Leleque (Chubut). A metros de la precaria ramada que los peñi habían levantado, se alzaba el cartel que invita a visitar el Museo de los Benetton. “13.000 años de historia”, dice. Cuanta hipocresía... En su interior, no existe ninguna referencia explícita al pueblo mapuche. En sus vitrinas descansan kultrün que son sagrados, hachas toki de importancia similar y otras manifestaciones materiales de la cultura mapuche. Pero los guiones que sobre todo tienen como destinatarios a turistas poco informados, sólo hablan de indígenas y en todo caso, de tehuelches. Al igual que para los científicos del siglo XIX, para la trasnacional italiana los mapuche “no son humanos, no son personas, no están siquiera allí en realidad”. Si admitiera su presencia, debería explicar un proceder que no coincide con la imagen corporativa que sus agencias de publicidad le construyeron: el respeto a las diferencias, la tolerancia racial, la piedad...
La gente seguía llegando y la perspectiva no era sencilla. Se pernoctaría debajo del toldo y al amanecer, renovaríamos el compromiso con los newen del lugar. En ese momento no podíamos saberlo, pero se inauguraba un conflicto que todavía no se resuelve, un diferendo que enfrenta a una de las empresas más poderosas del planeta con un puñado de mapuche. Una pelea que los mapuche llevaron a la mismísima Italia, ante la sorpresa de la corporación trevisana. “Mi abuela contaba que le contaba mi bisabuela, que cuando nuestro pueblo ya había abandonado toda posibilidad de resistir al Ejército, procuraba poner distancia nomás y escaparse lo más lejos posible. Entonces, nuestros mayores hacían ngillatün para que lloviera y lloviera, así los cañones se empantanaban y no podían avanzar y las mulas se retrasaban. Quizás ahora también, si el tiempo estaba mejor, capaz que se llenaba de milicos”, remató el werken.
Entonces quedó en evidencia la condición de aliado del descomunal aguacero. Milicos había pero unos pocos, se movilizaban a bordo de una impecable camioneta doble tracción que no lucía identificación alguna. Según los vecinos del lugar, la camioneta era de los Benetton y habitualmente la utilizaba el administrador de la estancia. Pero durante esos días sirvió para movilizar a la tropa, que sin embargo no nos molestó demasiado. Por lo menos en esa oportunidad, los efectivos fueron menos implacables que 120 años antes. Los más ancianos todavía recuerdan relatos que escucharon de sus mayores, como el que Millán había compartido para valorar a la lluvia. Cuando no quedaba otra que la retirada desordenada y las familias ya estaban desmembradas, la mayoría de ellas sin hombres, las pillankuze solían entonar el tayül del puma, para que el newen del felino ayudara en la huída y con los despojos de su caza, pudieran alimentarse los fugitivos.
Entonces no lo sabíamos pero esa misma tormenta provocaba desmoronamientos sobre las rutas de la región y también la evacuación de cientos de habitantes de El Bolsón (Río Negro). El trawün se había convocado allí, 200 kilómetros al sur de Bariloche para recordar el Último Día de Libertad de América. Eran las últimas horas del 11 de octubre de 2002 y comenzaba el “escrache” a la empresa italiana, que había promovido diez días antes el desalojo de una familia mapuche. Los Curiñanco Nahuelquir se habían establecido en el campo Santa Rosa un mes y medio atrás, luego de consultar en la Delegación Esquel del Instituto Autárquico de Colonización. Allí les habían dicho que el predio era fiscal.
Atilio Curiñanco nació en Leleque, correteó de pibe por esos campos, creció y cazó en ellos. Al igual que muchos, muchísimos mapuche, que cabalgaron por allí cuando todavía ninguna bandera argentina había pasado ni siquiera cerca. El grupo de tehuelches con el que viajó de sur a norte el inglés Musters entre 1869 y 1870, se había encontrado con los primeros mapuche en las inmediaciones del actual emplazamiento de Esquel. Desde ese punto, las parcialidades de ambos pueblos marcharon juntas en dirección a la ruka de Saywkeke. Sobre sus actividades del 12 de febrero de 1870, anotó el marino: “Sucedió que, como durante esa jornada nos encontramos con los araucanos en la misma parte del círculo (de caza), cocinamos juntos nuestras comidas y volvimos juntos a los toldos. Por el camino, el hijo mayor de Quintuhual, con quien siempre había mantenido yo buenas relaciones, dijo que deseaba reconocerme como hermano suyo. En consecuencia, nos dimos la mano y cabalgando juntos declaramos formalmente que éramos como hermanos y que siempre recordaríamos los deberes de nuestro parentesco y nos ayudaríamos mutuamente, en caso necesario, en cualquier parte del mundo en que estuviésemos” [1].
Según estableció el geógrafo Rey Balmaceda, esos momentos de convivencia entre los mapuche del lonko Kintuwal y los tehuelches de Casimiro, se desarrollaron en el mismo sitio donde más tarde se emplazó el caserío de Leleque. Unas páginas antes, el europeo había descrito a su futuro hermano: “ese indio era de estatura mediana, estaba vestido con ponchos de color y tenía un pañuelo de seda alrededor de la cabeza. Sus facciones eran regulares, sus ojos negros, chispeantes e infatigables, y su tez la misma, poco más o menos, de los gauchos del Río de la Plata. Usaba el pelo cortado, y su figura aseada hacía marcado contraste con las guedejas sueltas y los cuerpos pintarrajeados de los tehuelches”. Más allá de los prejuicios estéticos de Musters, quedémonos con una certeza: el hijo de Kintuwal era mapuche, como su padre. Los tehuelches habían dado con él donde el arroyo Caquel se junta con el Tecka. Según le había relatado el tehuelche Orkeke a su amigo británico, allí comenzaba “el país de los araucanos”. Resulta insólito entonces, que todavía se siga afirmando que recién hubo mapuche al sur del río Limay en forma posterior a la Conquista del Desierto.
Luego de encontrarse con el werken, la columna tehuelche continuó en dirección al oeste para luego torcer hacia el norte. “Entramos en un llano a nivel, en cuyo extremo opuesto notamos con gran contento las humaredas de respuesta de los toldos araucanos”, anotó el viajero. La descripción es notable porque una de las corrientes que se interesó en construir la historia de la región se encargó de imponer una idea errónea: que los pueblos mapuche y tehuelche fueron enemigos a muerte y que los mapuche se erigieron en usurpadores de sus vecinos de más al sur. Parece muy curioso entonces, no sólo que los tehuelches que Musters acompañaba marcharan hacia al norte a su encuentro, sino también que experimentaran “gran contento” al percibir sus humaredas. Es verdad que las relaciones entre las parcialidades de ambos pueblos no siempre fueron armoniosas pero como contrapartida, tampoco se caracterizaron indefinidamente por la presencia de enfrentamientos bélicos.
Luego de mudar de caballo y de ataviarse según las reglas del protocolo, los que venían del sur se aproximaron bastante a las ruka de los mapuche. “Con gran sorpresa notamos que nadie salía a recibirnos; al fin llegó una mujer con la noticia de que todos los hombres habían ido a cazar, pero se les había mandado buscar y llegarían en breve”, anotó el inglés. El encuentro no se demoraría, porque “al cabo de una media hora aparecieron los araucanos, galopando como demonios. Como sus mujeres les habían traído ya caballos frescos, estuvieron montados en menos tiempo del que se necesita para escribirlo; y, formados en línea excelente, lanza en mano, se quedaron esperándonos para llevar a efecto la ceremonia de bienvenida. En unos cinco minutos se formaron nuestras filas, y se realizaron entonces el galope, la algazara y los ceremoniosos saludos de costumbre. Me llamó especialmente la atención el porte audaz y honesto de los jóvenes de esa partida, que, vestidos con ponchos de vivos colores, calzones de lienzo limpio y sacos de franela blanca, tenían un aspecto muy civilizado. No eran más que 27 en total, y entre ellos descollaban cuatro hermanos, particularmente guapos, robustos, de tez colorada, que a la distancia, como no podía distinguirse el color de sus ojos, parecían casi europeos; observación que hecha a El Zurdo [2], que era mi brazo derecho durante la función, tuvo esta respuesta en voz baja: ‘Muy diablos estos indios; tal vez haya pelea’. Que se le ocurriera al hombre esa idea cuando el número de los nuestros (los tehuelches) era, por lo menos, el décuplo del de ellos, es algo que habla elocuentemente a favor de la reputación de bravura de los araucanos. Sin embargo, todo pasó tranquilamente, y se resolvió que al otro día habría consejo”.
Estos sucesos tuvieron lugar en inmediaciones del actual emplazamiento del aeropuerto de Esquel. Alrededor de la estación aérea, hoy todo es de la compañía de los Benetton.
Atilio Curiñanco creció en esos campos, que durante mucho tiempo fueron escenario del intercambio entre pu mapuche y tehuelches. Luego soñó con trabajarlos, porque siempre estuvieron vacíos de propiedades privadas. Pero la corporación trasnacional consideró la presencia mapuche una amenaza e inició una causa por usurpación. Por irónica que resulte, es una circunstancia habitual en las provincias de Río Negro, Chubut y Neuquén. Son los últimos en llegar quienes acostumbran a demandar por usurpadores a los mapuche, integrantes de un pueblo originario, es decir, anterior a la existencia tanto de la Argentina como de Chile. O sea, preexistente.
Rápida para esos mandados, la Justicia de Chubut ordenó el desalojo, que se había perpetrado 15 días antes de la movilización que la lluvia castigaba, a través de 12 efectivos que contaron con el apoyo de perros y gente de civil. Los uniformados aprovecharon que los hombres de la familia trabajaban en el campo para cumplir la diligencia. No sólo consumaron la disposición del juez, además derribaron la vivienda que los Curiñanco Nahuelquir habían levantado, destrozaron los sembradíos que habían alcanzado a trabajar y dispersaron las aves de corral. Era un auténtico drama. Rosa Nahuelquir había trabajado toda su vida como obrera textil en Esquel. Cuando la fábrica cerró –como tantas otras durante los 90- gastó hasta el último centavo de la magra indemnización en los implementos que necesitaría su familia para desarrollar el microemprendimiento con el que soñaba. Prácticamente en un abrir y cerrar de ojos, esos planes se redujeron a añicos porque eran muchos los interesados en que ese ejemplo no se propagara. Mapuches escapándose de la pobreza de las ciudades y recuperando tierras en el campo... Desde los punteros políticos hasta los funcionarios y los directivos de la Sociedad Rural comprendieron que sus respectivos negocios peligraban si la decisión que habían adoptado Atilio y Rosa alcanzaba el éxito. Por eso y rápidamente, se consumó el desalojo. Derrotados pero no vencidos, los Curiñanco Nahuelquir se acercaron a la Organización Mapuche Tehuelche “11 de Octubre”. Desde ese momento, el problema dejó de ser un asunto entre particulares para convertirse en un conflicto que involucra a todo el pueblo mapuche por un lado y al Estado opresor por el otro.
A raíz del despojo que sufrió junto a su familia, Rosa se tuvo que reencontrar a pasos acelerados con su identidad, a la que hasta entonces había soslayado. Lleva un apellido que tiene mucha importancia para los mapuche que como consecuencia de la relocalización forzosa, habitan en el territorio que quedó bajo la jurisdicción provincial de Chubut. La historia de Cushamen y la de los Nawelkir es prácticamente la misma. Entre los mayores que viven en esa zona, se considera a Miguel Ñancuche Nahuelquir como “cacique fundador” de la Colonia Cushamen [3], el sitio que cobijó a una veintena de familias mapuche cuando la derrota a manos de los ejércitos argentino y chileno, ya se había consumado.
Según los relatos de los abuelos, Ñancuche Nahuelquir era “manzanero de la cordillera”, es decir, “araucano” en aquella terminología del siglo XIX, que también se utilizó durante buena parte del XX. Pewenche quizá, oriundo de la Manzana Mapu, de la zona de Junín de los Andes o de “allá por el norte”. Esa es la “tierra de los antiguos” para la mayoría de la gente de Cushamen. Pero también decían los futrakecheyen que el chao (padre) de Miguel, Fernando Nahuelquir, era de Trankura Mapu, cerca del volcán Villarrica. En rigor, no hay contradicción entre esos testimonios. El espacio territorial de los mapuche pewenche no se dividía por la cordillera, como quieren los discursos que construyeron las respectivas naciones, en Chile y la Argentina. Tanto Trankura como la Manzana Mapu y la zona donde se erigió el fuerte de Junín de los Andes, formaban parte del espacio territorial pewenche que años antes de la Campaña al Desierto, tenía como principales referentes a Sayweke, Rewkekura y Purran, de sur a norte. También cobró relevancia a la hora de la postrer resistencia Juan Ñancucheo, auténtica pesadilla para las tropas que operaron sobre la cordillera a partir de 1880. No hay acuerdo entre los investigadores, a la hora de vincular en forma sanguínea a este lonko con Miguel Ñancuche Nahuelquir pero Delrío insinúa que por lo menos, hay que pensar en un parentesco ritual.
Los momentos que siguieron a las rendiciones no fueron fáciles. Las 24 familias que reconocieron como autoridad al “cacique fundador” afrontaron una peregrinación plena de sufrimientos. Desde Chichinales (Río Negro), se dirigieron a Comallo, donde permanecieron por espacio de una década. Más tarde, después de una entrevista con el mismísimo Roca durante su segunda gestión presidencial, se les asignó como domicilio Cushamen.
En la memoria de la mayoría de las comunidades mapuche que en la actualidad habitan en las provincias de Río Negro, Chubut e inclusive en algunas de Neuquén, están frescas las vicisitudes que tuvieron que afrontar luego del “gran malón blanco”. Fueron años de idas y venidas, de gran incertidumbre y de una pobreza tan inédita como desesperante. Sobre fines del siglo XIX, la prioridad de los estados usurpadores consistió en entregar los territorios recientemente anexados a las oligarquías locales y a los capitales extranjeros. En ese marco, las mejores tierras, las de pasturas abundantes y próximas a cursos de agua, se fueron enajenando. Las nuevas agrupaciones mapuche se situaban en determinado paraje para inmediatamente, sufrir otro desplazamiento. Es llamativa la coincidencia que se registra a comienzos del siglo XXI, cuando el Estado argentino también se preocupa sobre todo por brindarle “seguridad jurídica” a corporaciones como Benetton, cuando los mayores de Rosa Nahuelquir viven en Cushamen hace por lo menos un siglo.
Sin embargo, no hay que suponer que esos parajes fueran extraños para las parcialidades mapuche hasta la llegada de los Nawelkir y demás familias. La misma columna que hacia febrero de 1870 se conformaba con la gente de Kintuwal y los tehuelches de Casimiro, se aprestaba a encontrarse con las comunidades que tenían como lonko a Foyel, en su marcha hacia el norte. Como sabemos, con ellos viajaba el inglés Musters: “El 18 de febrero se vio humo al norte, no muy lejos, y al caer la tarde llegó un chasque trayendo consigo un par de botellas de aguardiente para Quintuhual, así como la noticia de que las cosas marchaban bien en el campamento de Foyel”. Tres días más tarde, los viajeros resolvieron “mandar mensajeros desde ese lugar, al que se denominó Cushamon, para prevenir de nuestra aproximación a Foyel y también a Cheoeque, el cacique de Las Manzanas”. En su reconstrucción de tan dilatado itinerario, el geógrafo Rey Balmaceda situó a ese punto de la travesía “en la Colonia Cushamen, departamento del Chubut, a orillas del arroyo Cushamen”. Puede aventurarse entonces, que Ñancuche Nahuelquir no sólo eligió Cushamen para instalarse allí porque había buenos pastos y abundante caza. La gente de Kintuwal se dirigía a la Manzana Mapu para formar parte del trawün que deliberaría en la ruka de Sayweke. Es posible pensar que entre las 24 familias que llegaron a poblar Cushamen, existiera un conocimiento previo sobre las condiciones favorables del lugar.
Cabe recordar que ya 30 años antes de la instalación en el paraje, los tehuelches le habían dicho a Musters que del Tecka para arriba, comenzaba “el país de los araucanos”. Es más, se desarrolló en ese sitio una ceremonia que el inglés, presa de su eurocentrismo, no supo valorar. “A la mañana siguiente, una vez que se hubo leído y explicado la carta a los caciques reunidos, los dos mensajeros, que eran hijos de caciques, se presentaron con dos caballos cada uno; y después que se les hubo dado algunas órdenes verbales, emprendieron su viaje entre los aullidos de unas cuantas viejas y un toque de corneta. El resto de la partida, que había montado para que el acto fuera más pomposo y ceremonioso, salió a cazar”. Obviamente, para el marino el hecho más destacable fue la misiva que él había escrito por solicitud de Casimiro. Pueden evocarse no obstante, los tayül (cantos sagrados) que entonaron las kuze para convocar a los newen de los respectivos werken, que se aprestaban a cumplir una misión de importancia. De ahí el respaldo de los resto de sus peñi, que no montaron por cuestiones de pompa, sino para alentar a los jinetes que partían hacia la ruka de Foyel. Sí, Cushamen ya era territorio mapuche cuando nada hacía prever el desastre que se desencadenaría apenas una década más tarde. Pero claro, para gente como Benetton “los vasallos no son humanos, no son personas, no están siquiera allí en realidad”.
En octubre de 2002 llovía en Leleque, la tormenta no daba tregua. Pero estaba el lonko Agustín Sánchez. Estaba la pillankuze Carmen Calfupan también. Éramos unos 70. De Vuelta del Río, de Füta Huao, de Leleque, de El Bolsón, Esquel y Bariloche. El frío y la humedad de la noche se soportaron en los fogones, entre charlas interminables, toques de kultrün y quejidos de ñorkin. La noche también fue aliada, como en tantas ocasiones antaño, cuando la oscuridad ocultaba la polvareda que levantaba el galope de los weichafe o bien, las despaciosas marchas después de la derrota. No paró de llover en ningún momento y algunas de las carpas quedaron entrampadas en charcos. Pero estábamos ahí para “escrachar” a los verdaderos usurpadores, para juntarnos y ayudarnos, para seguir construyendo la sociedad más justa que sueñan hace tiempo mapuche y también algunos no mapuches.
A la mañana tuvo lugar un pequeño conciliábulo. El cansancio no jugaba a favor, la ropa mojada y el viento provocaban comprensible mal humor. La idea original era “mudarnos” 10 kilómetros más al sur, donde se sitúa el campo en conflicto. Pero tanta adversidad climática sembró dudas y se propuso hacer el ngellipün ahí mismo, para no pedir más sacrificios, sobre todo a los mayores. Varios hicieron uso de la palabra sin que se alcanzara el acuerdo hasta que Segunda Huenchunao, de Vuelta del Río, zanjó el asunto. La lamgen no es precisamente una piba pero dijo que estábamos ahí para lograr la restitución del campo usurpado y que había que hacer la ceremonia allá, en el lugar de los Curiñanco. No hubo voces en desacuerdo y entonces, nos desplazamos los 70 en varios viajes de los pocos autos que había.
Cuando llegamos a Santa Rosa, los policías que custodiaban el lugar se mostraron inquietos. José –hijo de Atilio y Rosa- los saludó con un multicultural “fuck you”. Nótese cuanto celo. No sólo el Poder Judicial había ordenado un desalojo a todas luces injusto y con celeridad desusada, además había dispuesto que el predio quedara bajo la vigilancia de servidores públicos. Desde entonces, la Policía de Chubut funciona como guardia privada de la Compañía de Tierras del Sud Argentino. De hecho, la estación de servicio que por entonces funcionaba del otro lado de la ruta, fue adquirida por los Benetton para emplazar allí una comisaría. En la soledad de esos parajes, la dependencia no puede tener otra función que cuidar los intereses de la trasnacional, que asfixia con sus alambrados a varias comunidades mapuche.
A la vera de la cinta asfáltica quisimos levantar otra ramada y encendimos el fuego. Los caños que teníamos para usar de postes estaban helados y su manipulación se tornaba una tortura. Las manos enrojecidas respondían a duras penas pero Enrique Ranquehue hizo las veces de capataz y en relativamente poco tiempo, terminamos de erigir el nuevo refugio. Esperamos a que llegara la pillankuze Carmen. Casi centenaria, la abuela y otros mayores habían pasado la noche en la ruka de un peñi que vivía más lejos. La mítica ruta 40 se cortaría en dos puntos para permitir el desarrollo correcto y seguro de la ceremonia. A los viajeros se les explicaría que el corte se hacía porque la Policía no nos permitía hacer el ngellipün en el campo que habían recuperado nuestros hermanos.
Como quien no quiere la cosa, los encargados de los piquetes fueron caminando despacito hacia cada extremo bajo la mirada desconcertada de los uniformados. Además de efectivos chubutenses, había gendarmes ya. Cuando frente a la ramada el rewe quedó levantado, se efectivizaron los cortes. La escena era conmovedora. Ante nosotros se desplegaba en toda su inmensidad la meseta de la Patagonia, territorio mapuche que primero pisoteó la Argentina para luego, entregar generosas leguas a una compañía inglesa. Ya había clareado y desde la banquina que ocupábamos, observaba el gris plomizo de las nubes con una mezcla de recogimiento y enojo. Mirábamos hacia el este, entre los sauces y los álamos se alcanzaban a distinguir los techos rojos de la estancia. El viento hacía doler los oídos. Era evidente que los ancestros estaban allí, entre nosotros, cuando el lonko y la pillankuze dieron comienzo a la ceremonia, al “dar y recibir” que define al ngillanmawün, la manera mapuche de entender la espiritualidad. También en esa dimensión es la reciprocidad el principio que regula las relaciones entre los mapuche y los diversos newen.
Era tan obvio que éramos parte de ese rincón del Wallmapu, tan intenso el fundamento de esa insólita presencia, que nadie osó molestarnos. Nosotros, un minúsculo grupo que se perdía en la amplitud exagerada de esos campos, nos pusimos de nuevo a disposición de las otras fuerzas de la naturaleza para recobrar el equilibrio que día tras días, el winka se esfuerza en alterar. No, no siempre se pide por agua en las rogativas o en los kamaruko, como supuso tanto estudioso miope. En la ceremonia que los puelche llaman ngellipün, nadie le ruega nada al Ngenechen [5] que en forma tan presta, idearon los primeros sacerdotes que anduvieron por aquí. Estábamos en Leleque para sostener la relación de compromiso que existe entre los che y los newen del universo al que pertenecemos. Volvíamos a asumir la función particular que nos toca cumplir como una de las fuerzas del Wallmapu. No podíamos dejar una tarea tan importante en manos de gente como Benetton.
Sólo los insensibles podían no emocionarse ante la tarea de Carmen, diminuta, de paso vacilante en el barro y de mirada llorosa, como tantos ancianos del campo. La pillankuze condujo la ceremonia con voz dulce y firme, resaltó los aspectos centrales, puso en segundo plano las formalidades no tan importantes y nos guió a todos, sin que la lluvia la molestara demasiado. Mientras las kalfümalen distribuían el muday o la yerba, yo miraba de reojo hacia los piquetes. En el que cortaba la ruta para los vehículos que venían desde Esquel, un conductor de los que nunca faltan amagó a sobrepasar el ramerío por la derecha pero los propios gendarmes se encargaron de contenerlo. Además, había llegado la televisión para registrar algunas imágenes. Parte de esas tomas al año siguiente recorrerían parte de Europa, inclusive Treviso. Pero por entonces, los reporteros del canal esquelino pensaban que simplemente estaban cubriendo la noticia del día.
Cuando el ngellipün terminó volvimos a la ramada y los peñi de los piquetes levantaron el corte, que después de todo sólo se había prolongado por un par de horas. Para nuestra sorpresa, cuando los vehículos que se habían demorada pasaron frente al grupo, sus ocupantes saludaron con bocinazos, manos en alto y gestos sonrientes. No todos, claro. Respondimos con los correspondientes marichiwew y otros afafan. Con agua hasta en el alma, como todos, Millán comenzó a sugerir la preparación del almuerzo.
Nos apiñábamos debajo del precario refugio y compartíamos algunos mates cuando se apersonaron unos uniformados de color verde. Uno de ellos preguntó quién estaba a cargo o quién era el responsable. Antes que nadie ensayara cualquier respuesta más o menos ambigua para ganar tiempo, el lonko Agustín respondió con prontitud y autoridad: “Yo soy el responsable”. Fue su única expresión en winkazugun. Al resto de las inquietudes las contestó en mapuzugun ante el desconcierto de su interlocutor. Pocas veces quedó simbolizada con tanta contundencia la diferencia entre una cultura que se mueve en torno al interés y la coerción y otra que está preocupada por la vigencia de otros valores. Salvo Atilio, Rosa y sus hijos, ninguno de los que estábamos ahí perdíamos o ganábamos nada desde la perspectiva material, quedara Santa Rosa en poder de Benetton o fuera restituido el predio. No creo que el gendarme pudiera captar el contraste, pero evidentemente algo percibió en la mirada de ese viejo que lo increpaba, la fuerza de su palabra alguna fibra tocó porque sin mayores trámites, optó por retirarse y llevarse consigo a su destacamento. Ni siquiera hubo causas judiciales por ese primer corte.
Esa escena se repetiría dos años más tarde, con ribetes casi surrealistas, a unos 1.800 kilómetros de Leleque. A través de las gestiones de un puñado de diputados que se había sensibilizado ante el avance de las compañías mineras en territorio mapuche, la “11 de Octubre” obtuvo un espacio en el Congreso de la Nación para poner de relieve la situación de conflicto que se vivía en varias comunidades. De la delegación formaron parte Atilio Curiñanco y Rosa Nahuelquir, entre otros. El lonko Agustín Sánchez también viajó.
Durante las primeras horas de ese día (15 de julio de 2004), el grupo de mapuche que se había trasladado a Buenos Aires para contar en la gran ciudad qué era de su suerte, quiso comenzar las actividades de la misma manera que en sus territorios ancestrales. No sin esfuerzo, levantaron el rewe en una apretada superficie de tierra que pudieron encontrar en la Plaza de los Dos Congresos, uno de los centros neurálgicos de la ciudad. Cuando advirtieron los preparativos, varios efectivos de la Policía Federal se aproximaron para repetir, palabras más palabras menos, aquella requisitoria del gendarme con destino en Chubut. En este caso, preguntaron los de azul si los mapuche tenían autorización... Tomó de nuevo la palabra el lonko de Füta Huao, ese hombre de talla más bien pequeña y vozarrón estridente. Se expresó en el idioma de sus mayores, en el mapuzugun que quizás ese cemento jamás había percibido. ¿Sabría el federal que dentro de la Argentina había gente que se comunicaba en lenguas distintas al castellano? El uniformado vio que ese viejo, de nuevo contagiaba determinación y que los suyos, no tenían la apariencia de los vacilantes. Se alejó y entonces, frente al Congreso, el pequeño contingente llevó a cabo su ngellipün. El tráfico vehicular ya era intenso en el centro porteño...
Por la tarde, en la voz del werken, el pueblo mapuche le recordó sus culpas históricas al Poder Legislativo de la República Argentina: Fue el Congreso como brazo legislativo del Estado quien el 4 de octubre de 1878 autorizó al Poder Ejecutivo, es decir al general Roca, a establecer “la línea de fronteras sobre la margen izquierda de los ríos Negro y Neuquén, previo sometimiento o desalojo de los indios bárbaros de la pampa”. Eran nuestros mayores aquellos bárbaros, nuestros ancestros mapuche, quienes estaban por sufrir en carne propia la mal llamada Conquista del Desierto.
La misma terminología que utilizó el entonces ministro de Guerra para convencer a los legisladores, deja en claro la magnitud de la usurpación que sufrió y sufre aún nuestro pueblo mapuche. En el anteúltimo de los párrafos de su discurso sostenía que creía "justo y conveniente destinar oportunamente a los primitivos poseedores del suelo, una parte de los territorios que quedarán dentro de la nueva línea de ocupación". El propio Roca, homenajeado por tantas estatuas, admitía en su mensaje que la Argentina se preparaba a conquistar un territorio que no le pertenecía, que tenía "primitivos poseedores". El futuro presidente de los argentinos le pedía a su Poder Legislativo que le otorgara las partidas presupuestarias necesarias para cumplir con la Ley 215, que ya había ordenado correr la frontera hasta el río Negro, en 1867. La idea no era nueva: cuando surgió este pensamiento, en el siglo pasado (por el XVIII), el desierto empezaba en el Fortín Areco, Mercedes y el Salado.
Una vez más el invasor ponía en evidencia la dimensión del crimen que se aprestaba a cometer. Si la Argentina había heredado las fronteras y posesiones del antiguo virreinato del Río de la Plata, éstas debían permanecer a unos 200 kilómetros de Buenos Aires. Pero en agosto de 1878 confesaba Roca ante los miembros del Congreso, que "la población civilizada se extiende por millares de leguas más allá de la línea de frontera que nos legó el virreinato, y la riqueza pública y privada que la Nación se halla en el deber de garantir, se ha centuplicado".
Fue el Congreso el que aprobó por ley y en forma consciente la usurpación de nuestro Wallmapu. En teoría, imperaba el estado de derecho en la Argentina que nos invadió, sin embargo sólo un diputado alzó su voz para señalar que se estaba violando la Constitución de 1853, la que ordenaba "conservar el trato pacífico con los indios". Esa cláusula constitucional -que desapareció después de la reforma de 1994- hacía expresa referencia a los tratados que nuestros lonko (autoridad ancestral mapuche) habían firmado con autoridades nacionales y provinciales de las Provincias Unidas del Río de la Plata, la Confederación o la República, sucesivamente.
Al internarse las tropas del general Roca en nuestro territorio, varios de esos tratados estaban en vigencia, en particular los que habían firmado nuestros lonko Sayweke, Purrán, Pincén, Mariano Rosas y Baigorrita, entre otros. Sin embargo, a los que invadían en nombre de su civilización no les importó respetar los acuerdos que habían celebrado pocos meses atrás, los que establecían claramente por dónde pasaban las fronteras. El Poder Legislativo de la República no reparó en esos detalles, pero de los 20 artículos de fondo con que contó finalmente la Ley 947 -la que Roca quería- 15 se destinaron a establecer cómo se repartirían las tierras que las columnas del Ejército nos arrebataron. No está de más recordar que el propio ministro de Guerra se quedó con 15.000 hectáreas de la mejor calidad, en cercanías de Guaminí. Sin embargo, el Poder Legislativo no consideró necesario reaccionar cuando las columnas del Ejército cruzaron el río Neuquén para subyugar el territorio mapuche pewenche. No aceptamos la explicación de la “historia oficial” que excusa el atropello a partir de la insubordinación de un subalterno: Napoleón Uriburu.
Roca convalidó su violación a la ley y la hizo propia, ante la ausencia moral de diputados y senadores, cómplices con su silencio de la usurpación que también sufrieron nuestros mayores al sur de los ríos Neuquén, Negro y Limay. Es más, ya en la presidencia de la Nación, el perpetrador de la guerra que nos trajo el winka dispuso nuevas expediciones al Nahuel Huapi, a la cordillera de los Andes y al interior del actual territorio patagónico. Buscaba que ninguna de nuestras comunidades pudiera permanecer en libertad, que el sometimiento fuera total, que el genocidio se consumara. Para concretar los postreros ataques contra nuestro pueblo dejó la hipocresía de lado y ni siquiera se preocupó por guardar las formas: el Congreso se encontró frente a hechos consumados que no había previsto en leyes y debates. A nadie le importó demasiado que la Argentina cargara en su conciencia con crímenes que hoy serían considerados de lesa humanidad: fusilamientos sumarios, deportaciones masivas, desmembramiento de familias, prisión en condiciones infrahumanas, esclavitud y otros regalos notables que recibimos de la civilización. Sólo un pequeño sector de la prensa demostró cierta vergüenza ante el atropello, pero sus páginas fueron rápidamente olvidadas por quienes decidían qué sucesos de la historia debían relatarse y cuáles no [5].
Dijo muchas otras cosas el werken esa tarde, ante poco más de 200 personas, entre ellas, sólo cinco diputados. Explicó que el mapuzugun comunica a los mapuche cada verdad de su entorno, que transmite un mensaje profundo, filosófico, ideológico y espiritual. Que ese mismo lenguaje jamás acuñó una representación para el concepto de propiedad privada, “un blanqueo del dominador para justificar el despojo, la destrucción, la violencia y la muerte” [6]. Proclamó también que “hoy como ayer este Congreso sanciona leyes que tienen como objetivo allanar el camino de la destrucción, de la depredación y de la rapiña. Empresas mineras, multinacionales, forestales, grupos empresariales nacionales e internacionales como Benetton, se ven beneficiadas por el derroche filantrópico de este Congreso a estos sectores”.
Varias aseveraciones más precisó Millán al dar a conocer ese manifiesto, al que los hermanitos trevisanos tuvieron que soportar que se leyera inclusive en su patria chica. Horas antes, se había proyectado en la sala un documental que se detiene en varias de las alternativas del “conflicto con Benetton”. Sobre todo, en el segundo escrache, que tuvo lugar en febrero de 2003. En esa ocasión no llovió y gracias el verano, participó más gente. Pero también hubo más uniformados, algunos de ellos munidos de cámaras fotográficas. Después de esa movilización, la Justicia sí determinó algunas indagatorias. Ese trabajo se denomina “Marichiwew” y se mostró en varias oportunidades, luego de aquella primera proyección en la esquina porteña de Rivadavia y Riobamba. La cámara solidaria registró los instantes finales de aquel ngellipün, cuando el werken hacía referencia a un ancestro. “Un antepasado mapuche, un orientador de la resistencia, presagió frente a la muerte, el saqueo y la invasión que se venían, que por cada uno de nosotros que cayera, diez se levantarían. ¡Marichiwew!, decía ese peñi ¡Diez veces estamos vivos los mapuche!, era lo que decía... ¡Marichiwew!”.
Ese es el grito que acompaña cada ceremonia y cada movilización mapuche, desde hace 450 años. Ese antepasado, ese toki u “orientador de la resistencia”, era Leftraru o Lautraru. En winkazugun, Lautaro. El toki Leftraru, pesadilla de los españoles / AZ



NOTAS
[1] George Charles Musters, “Vida entre los patagones. Un año de excursiones por tierras no frecuentadas desde el estrecho de Magallanes hasta el río Negro”. Ediciones Solar. Buenos Aires. 1964.
[2] Un tehuelche a quien así llamaban en Santa Cruz.
[3] Walter Mario Delrio. “Memorias de expropiación. Sometimiento e incorporación indígena en la Patagonia (1872-1943)”. Universidad Nacional de Quilmes. 2005.
[4] Según pudieron establecer mapuche que realizan investigaciones lingüísticas sobre su propio idioma, el término Ngenechen es de formulación relativamente reciente. Es un vocablo mapuche que significa “dueño de la gente” o que “domina a la gente”. Los cristianos asimilan ese concepto a su noción de Dios. Sin embargo, en las ceremonias tradicionales de la espiritualidad mapuche jamás se invoca a Ngenechen salvo que la comunidad en cuestión evidencie una clara influencia católica o evangélica. Los mapuche de la actualidad sospechan que el término se acuñó a instancias de los misioneros de los siglos XVI y XVII ya que en la espiritualidad mapuche no existe la figura de alguien que “domine a la gente”. Algo similar sucede con Futa Chao o Gran Padre, otra noción que si se expresa así, es extraña a la cosmovisión mapuche.
[5] Proclama Mapuche–Tehuelche del 15 de julio de 2004 en Puelmapu (territorio mapuche), Chubut-Argentina.
[6] Ídem.

venerdì 6 febbraio 2009

Un pirata. L’impresario Benetton sembra avere due facce: ecologista e inquinatore


di Carlos Romero - ElArgentino.com
El empresario parece tener dos caras: ecologista y contaminador. Detrás del magnate, el mayor terrateniente del país, se esconde detrás del discurso “verde” para incursionar en las minas de oro y cobre. Deudas impagas, denuncia penal y saqueo de recursos naturales.
Cuando el lujoso yate de Luciano Benetton arribó a Puerto Madero el pasado 11 de enero, no sólo descendió de él un “ecologista” –como el magnate italiano gusta que lo llamen–, sino también el mayor terrateniente de la Argentina y también un flamante empresario minero. Sucede que a su tradicional actividad en el negocio textil –que lo transformó en un magnate de la moda–, ahora Benetton busca sumarle exploraciones de oro y cobre en San Juan. A simple vista, suena contradictorio que quien dice bregar por la defensa del medio ambiente se dedique a una de las industrias que más daño causan a la naturaleza. Desde otra óptica –una igual de verde, pero por el color de los dólares–, para un millonario lo más importante son los millones. Y en eso, la minería tiene pocos rivales.
De todos modos, no es la primera vez que Benetton tiene un discurso “reversible”, como esas prendas con más de una cara. Además de la guerra personal (y desigual) con los mapuches por una parte de sus tierras ancestrales, Benetton supo enfrentar acciones legales al negarse a pagar impuestos y ahora podría ser objeto de una denuncia penal donde se lo acusa de haber “vaciado” una de sus empresas para evitar saldar un juicio perdido.
Oro. “My Tribu”, como se llama el barco de Luciano –que viene navegando desde Génova e hizo escala en Marruecos, Cabo Verde, Río de Janeiro y Punta del Este– recibió la “estrella verde” por contar con un sistema para tratar las aguas servidas y reducir la emisión de carbono. Lo dicho: el yate de media cuadra de Benetton no contamina, pero no puede decirse lo mismo de sus nuevos y lucrativos proyectos bajo tierra sanjuanina.
En la Argentina, Luciano –de 73 años, cabeza y factotum junto a su hermano Carlo del Benetton Group– posee más de 900.000 hectáreas, a través de la Compañía de Tierras Sud Argentino S.A. Es el equivalente a 45 veces el tamaño de la Capital Federal. Sólo el norteamericano Douglas Tompkins compite con él en este indiscriminado juego inmobiliario en que se ha rematado una parte estratégica de la Argentina. En los campos de los Benetton pastan sus 260.000 ovejas. De ellas obtiene la preciada lana para sus prendas, los casi 1.300.000 kilogramos que cada año exporta a Italia, después de pagar retenciones de 5 o 10 por ciento, según se trate de lana lavada o sucia (en Trelew la empresa cuenta con el lavadero más grande de toda la Argentina). Benetton no tiene locales propios en el país y exporta el total de su producción, casi sin valor agregado.
En Europa, una vez confeccionadas las prendas pasan a las vidrieras de Viena, Londres, París, Venecia, Lisboa, Praga, Berlín y Hong Kong, entre otras capitales. Y así, la lana de las ovejitas patagónicas se transmuta en nuevos billetes para Luciano y Carlo.
Siempre inquieto, en los últimos años el magnate buscó diversificar. Les ordenó a los capataces de sus seis estancias –distribuidas en Chubut, Buenos Aires, Santa Cruz y Río Negro– que se abocaran a los cereales y a producir carne vacuna y ovina. Como en los tiempos de la Colonia, Benetton practica el negocio de ganar mucho a precio de ganga.
Compró campos cuando las tierras patagónicas valían poco incluso a nivel local. Ahora, sus estancias descansan sobre un suelo que cotiza con varios ceros en el mercado de la especulación inmobiliaria internacional. La propia empresa sostiene que, en los últimos 12 años, sus operaciones le rindieron unos 11 millones de dólares. En contraste con estas ganancias millonarias, los peones que cuidan ovejas viven otra realidad. Según la Unión Argentina de Trabajadores Rurales y Estibadores (Uatre), el sueldo promedio de un peón ovejero apenas roza los 1.500 pesos y los 65 pesos en caso de ser jornaleros.
En rojo. El yate “verde” en el que Benetton recorre el mundo está valuado en unos 32 millones de dólares. La cifra es digna de un magnate y Luciano la pagó con gusto. Nada es demasiado cuando se trata de cumplir un capricho. No sucede lo mismo, por cierto, a la hora de cumplir con el fisco. Para muestra, basta con repasar el historial comercial que el empresario italiano y su hermano Carlo supieron construir en la Argentina.
En noviembre de 1998, los Benetton tuvieron que afrontar dos juicios a causa de sus abultadas deudas tributarias en Chubut, provincia en la que hoy la Compañía de Tierras Sud Argentino acumula 306.100 hectáreas en campos donde pastan 86.500 ovinos y 7.000 vacunos. Las demandas fueron iniciadas por dos pequeñas comunas que, tras agotar todas las instancias de cobro, acudieron a la Justicia para reclamarle a los empresarios unos 150 mil pesos en tasas inmobiliarias impagas: más de 100 mil pesos en El Maiten, un diminuto pueblo cercano a El Bolsón en el que Benetton tiene una de sus mayores propiedades, y otros 47 mil en Epuyén, donde se encuentra la estancia Leleque. En el primer caso, la deuda se inició en enero de 1997, luego de que el Consejo Deliberante local dispusiera un aumento en la alícuota del tributo a la tierra. Los italianos lo consideraron excesivo y por eso decidieron dejar de pagar. Un año después, el cuadro de rebeldía fiscal se repitió en Epuyén. Las boletas en rojo se apilaron y como en estas dos localidades chubutenses los Benetton eran y son los principales contribuyentes, las finanzas municipales hacían agua. Los intendentes llegaron a rebajar las tasas, pero los empresarios seguían sin pagar. Sólo se sentaron a negociar en 1999 cuando la queja se transformó en juicio.
Justamente en Leleque, una de las estancias por la que Benetton fue denunciado, se encuentran las 385 hectáreas del predio Santa Rosa, que la comunidad mapuche le disputa. Allí resiste desde 2002 la familia de Atilio Curiñanco, en una lucha desigual contra el ejército de abogados de Benetton, que por todos los medios busca desalojarlos.
En ese suelo vivieron los padres de Curiñanco y los padres de sus padres. Lo que los mapuches llaman, con la mirada serena, sus ancestros, y que la ciencia, con exactitud, probó a través de estudios genealógicos. Benetton, en cambio, esgrime títulos que se remontan al siglo XIX, fruto de la repartija de tierras que hizo posible el genocidio al que Julio Argentino Roca bautizó como “Campaña del Desierto” (ver nota aparte). De ese mismo predio los Curiñanco fueron desalojados con una denuncia penal por usurpación. Viajaron a Roma para reclamarle a Benetton que les devuelva la tierra a la que pertenecían. Incluso el premio Nobel de la Paz Adolfo Pérez Esquivel trató, sin éxito, de interceder. Cansados, en febrero de 2007 los Curiñanco volvieron a ocupar las tierras y allí permanecen.
“Benetton esta intentando desalojar a la comunidad mapuche por medios judiciales y desde hace dos años viene fracasando”, señala Fernando Kosovsky, abogado de la familia Curiñanco. “Hubo un intento de desalojo efectivo que no se hizo, ya que la Justicia falló a favor de los mapuches al comprobarse que la vida del pueblo no altera el medio ambiente, que es lo que el millonario postulaba”, agrega Kosovsky, para quien “la lucha de los mapuches bien podría ser definida como la pelea entre David y Goliat”.
Embargado. No fue la última vez que Luciano Benetton mezcló sus negocios en el país con los escándalos judiciales. De hecho, el 12 de diciembre pasado, un juez federal ordenó la ejecución de bienes en la Argentina del Benetton Group hasta cubrir la suma de 12.529.675 pesos –incluidos los intereses–, en un juicio por daños y perjuicios iniciado a fines de los ‘90. “Llevar adelante la ejecución hasta hacerse el pago íntegro del capital reclamado, intereses y costas al acreedor”, fue lo dispuesto por Fernando D’Alessandro, a cargo del juzgado nacional de primara instancia en lo Comercial N°7. La historia, que podría sumar una denuncia penal contra los hermanos Benetton ya que aún no pagaron, nace varios años atrás, en 1984. En febrero de ese año, el empresario argentino R. J. Willmott conoció a Luciano, de visita por Punta del Este. Un año después y en Treviso, ambos negociaron la comercialización local de algunas marcas del grupo, a través de la firma Benettar SAIC. Se sucedieron viajes y entrevistas, y hasta se llegó a un preacuerdo, pero las marcas nunca pudieron ser cedidas por el simple hecho de que ya estaban registradas en la Argentina. Un obstáculo que, según sostuvo Willmott, Benetton había prometido solucionar. Benettar responsabilizó a los italianos por el contrato frustrado y las pérdidas ocasionadas, y les inició una demanda.
Desde el inicio de esta relación fallida tuvo un rol protagónico otro empresario bien conocido en los tribunales argentinos: Marcos Gastaldi, que con su hermano Federico hicieron posible el contacto de Willmott con Benetton, a quien los une una amistad de años. Marcos –quien en 2002 fue acusado de estafa por su participación en el desaparecido banco Extrader y llegó a estar preso– está casado con Marcela Tynaire. En la chacra que su suegra, la conductora televisiva Mirtha Legrand, posee en José Ignacio, la pareja Gastaldi-Tynaire recibe a Luciano en sus visitas a las costas esteñas.
El 15 de diciembre del 2000, el Benetton Group fue condenado a pagar 1.889.482 dólares, incluidos gastos y el beneficio económico frustrado. En 2006 la Cámara de Apelaciones refrendó el fallo y en mayo de 2008 el juez ordenó el embargo por más de 12 millones y medio de pesos sobre cerca de 100 marcas que Benetton posee en el país. Pero el fallo quedó en el aire. Según el abogado de Benettar SA, Enrique Spinedi, el 15 de mayo, un día antes de que la medida se hiciera efectiva, el grupo italiano transfirió casi todas las marcas en cuestión. “Sólo se pudieron embargar 6 o 7, quien ahora tienen que pasar a remate”, señala Spinedi, que acusa a los Benetton de montar una maniobra para no pagar. Por eso, en febrero, asegura, presentará una denuncia penal contra ellos por el delito de “insolvencia fraudulenta”. “Lo que indigna es la ostentación de su yate y que acá vuelvan insolvente a su empresa. Igual, los vamos a perseguir por todo el mundo hasta que paguen”, advierte Spinedi. Las esperanzas del abogado están bien fundadas. En términos globales, los Benetton están en condiciones de solventar este juicio y mucho más. Presente en 120 países, las 160 millones de prendas que el grupo produce por año le permitieron en 2007 facturar más de 2.000 millones de euros, con ganancias por 145 millones de esa misma moneda.
Negocios de todos los colores. Además de ciertas inversiones forestales, en la Argentina el otro “chiche” nuevo de los Benetton es la industria minera. Desde luego, cualquier empresario que busque expandir sus operaciones –y Benetton siempre lo está haciendo– no tarda en darse cuenta de las bondades que el subsuelo y la legislación locales ofrecen a este sector. Por otra parte, los duros conflictos que las compañías mineras suelen tener con los ambientalistas no son un problema para el magnate, acostumbrado como está al repudio de comunidades enteras.
En noviembre pasado, la empresa Minera Sud Argentina SA –donde los Benetton tendrían mayoría accionaria– comunicó que estaba realizando exploraciones en el noroeste de San Juan, buscando oro y cobre. La firma ya anunció inversiones por 500.000 dólares con el fin de rastrear estos minerales en el departamento cordillerano de Iglesia. Según publicaron medios sanjuaninos, el proyecto, que lleva el nombre de Brechas Vaca, se estima de “alto potencial” y el primer tramo estará a cargo de la firma Eco Minera SA.
Así las cosas, mientras las perforaciones avanzan en San Juan, Benetton, que llegó a Puerto Madero en su lujoso barco “ecológico”, se dedica a una de las industrias que mayor contaminación del medio ambiente genera. Contradicciones, le dicen.
Para algunos, esta no es la primera vez que el magnate mira por debajo de las ovejas que pastan en sus campos. En 2003, cuando se creó Minera Sud Argentina, Luciano estaba en pleno conflicto con la comunidad mapuche. Un año antes había logrado desalojar a los Curiñanco de las tierras en conflicto. En ese entonces, los abogados de la familia sostuvieron que detrás de la embestida del magnate italiano podría ocultarse la intención de explotar el mineral que se encontrara en esas tierras. El tiempo y las perforaciones dirán qué hay de cierto en estos dichos. Por lo pronto, no suenan disparatados. En cierta forma, desde que puso un pie en la Argentina, Luciano siempre buscó oro.

Informe: Tomás Eliaschev, Bruno Lazzaro y Deborah Maniowicz

United Business of Benetton. Sviluppo insostenibile dal Veneto alla Patagonia.


Dietro alla tenda dai colori dell’arcobaleno, storie di sfruttamento, violazione dei diritti umani, minacce e ricatti, povertà e corruzione.
Il testo integrale è disponibile in formato PDF->(1.6MB).

Se per “sviluppo sostenibile” si intende un percorso di crescita economica attento e rispettoso delle culture originarie, dell’ambiente in cui si attiva e in generale del tessuto politico, sociale e culturale preesistente, quello proposto e imposto dalla Benetton non lo è. Nella sua propagazione dal Veneto all’estremo sud del mondo, lo sviluppo Benetton si è dimostrato quasi sempre “insostenibile”.
In un’intervista rilasciata al “Corriere della Sera” del 12 maggio 2008, Luciano Benetton definisce la propria strategia imprenditoriale “capitalismo più creativo, sensibile alle esigenze dei meno fortunati del mondo”, “globalizzazione dolce”. In verità Benetton non ha mai smesso di alimentare l’immagine capital-progressiva della sua azienda. Negli anni, ha riproposto, rinnovato e aggiornato tecnologicamente, un anticonformismo che tende la mano ad una certa sinistra ambientalista e umanitaria non solo italiana, riuscendo a cucirsi addosso l’immagine del capitalismo dal volto umano ed a diventare il simbolo della responsabilità sociale, il paladino del capitalismo sostenibile.
Nel suo universo multicolore, Benetton predilige i colori dell’ecologia, della sostenibilità, della responsabilità, della trasparenza, dei diritti dei più deboli. I colori Benetton sono uniti contro i mali del mondo: è questo il messaggio che viene associato al marchio. Di fronte a tutte queste belle parole quasi ci si dimentica che la Benetton è una multinazionale che fattura centinaia di milioni di euro l’anno (l’utile netto del Gruppo nel 2007 è stato di 145 milioni di euro) e soprattutto ci si dimentica di chiedersi in che modo e con quali costi ambientali ed umani tutto questo avvenga.
Il libro ricostruisce, nelle sue tappe principali, il percorso dello sviluppo “insostenibile” del Gruppo veneto. Da questa ricostruzione esce fortemente incrinata, se non del tutto smantellata, la facciata buonista, umanitaria e socialmente responsabile con cui l’azienda si presenta al mondo, o quantomeno ne viene rivelato il suo essere nient’altro che una scelta, o un’esigenza di marketing.
Ciò che emerge da questa indagine è la malafede su cui è costruito tutto l’impianto pubblicitario e mediatico della Benetton: dietro alla tenda dipinta con i colori dell’arcobaleno ci sono, infatti, storie di sfruttamento, di violazione dei diritti umani, di minacce e di ricatti, di povertà e di corruzione, tutte situazioni alla cui eliminazione l’azienda di Ponzano dice continuamente di voler contribuire.La politica di sviluppo del Gruppo veneto consiste in questo: piantare croci da una parte e sventolare bandiere della pace dall’altra occultando, con il clamore mediatico di quest’ultime, il silenzio e la desolazione delle prime.
Attraverso questo libro diventano finalmente leggibili i nomi sulle croci che il percorso imprenditoriale di Benetton ha sparso per il mondo: sono i nomi dei contoterzisti veneti ormai abbandonati a se stessi o costretti a fallire, delle operaie del sud Italia costrette a subire ricatti e pressioni, degli sfruttati e sottopagati dell’Europa dell’est, dei bambini kurdi di Istanbul, dei Mapuche della Patagonia argentina.
In questo senso, la Benetton mostra di essere una protagonista di quella che Loretta Napoleoni ha chiamato “economia canaglia”, di un capitalismo teso solo al profitto e all’ampliamento delle distanze e delle diseguaglianze tra ricchi e poveri.

AUTORE
Pericle Camuffo (Grado, 1967) si laurea il Lettere presso l’Università di Trieste con una tesi sul rapporto tra filosofia e poesia in Biagio Marin. Dal 1995 è ricercatore presso il Centro Studi “Biagio Marin” di Grado e si occupa di poesia in dialetto dell’area giuliana. Ha pubblicato saggi e articoli su diverse riviste letterarie ed è redattore di “Studi Mariniani”. Nel 2000 pubblica Biagio Marin, la poesia, i filosofi, che gli vale il Premio Nazionale “Biagio Marin” nella sezione dedicata alla critica sul poeta gradese. Ha inoltre pubblicato tre libri di viaggio: Figli delle stelle (Edizioni della Laguna, Mariano del Friuli, 1999); Cose dell’altro mondo (La Bottega del caffè letterario, Roma, 2001); Walkabout. Ventimila chilometri sulle strade dell’Australia (Stampa Alternativa, Viterbo, 2004).Alterna l’attività di ricerca a quella di insegnamento di materie letterarie presso scuole secondarie di primo e secondo grado.

Autore: periclecamuffo@hotmail.com
Editore:
www.stampalternativa.it
redazione@stampalternativa.it Stampa Alternativa / Nuovi Equilibri, Strada Tuscanese Km 4,800 – 01100 Viterbo, Italia.

lunedì 26 gennaio 2009

Tortura e guerra contro i mapuche nel Cile di Michelle Bachelet


Ad un anno dalla morte di Matías Catrileo, ammazzato dai carabinieri cileni il 3 gennaio 2008 e a 9 mesi dalla morte sotto tortura di Johnny Cariqueo, e con 32 prigionieri politici mapuche ancora nelle carceri cilene e oltre 50 casi di tortura documentati solo sotto il governo di Michelle Bachelet, l’impunità per i corpi dello Stato continua ad essere assoluta.
Lo stato democratico continua a combattere contro gli indigeni del Sud una guerra al terrorismo fuori tempo e fuori luogo e continua a considerare la necessità vitale di recuperare le terre ancestrali come un crimine contro la sicurezza dello Stato.“Recupero di terre ancestrali” è il crimine di tutti i 32 prigionieri politici mapuche nelle carceri cileni, condannati a pene detentive in molti casi sotto il capestro della legge anti-terrorismo in piena continuità con i tempi oscuri della dittatura di Augusto Pinochet.
Questa settimana è stato condannato a 5 anni di carcere per furto aggravato il dirigente mapuche Roberto Manquepi Vita. La sua colpa è stata aver recuperato erba dai pascoli comuni da sempre destinati ad usi civici dal suo popolo ma oggi occupato illegalmente da coloni privati. Altri per lo stesso “crimine”, sono stati più fortunati ed hanno evitato il carcere, ma hanno dovuto chiedere asilo politico sia in Argentina che in Svizzera.
Il tutto continua ad avvenire in un contesto mediatico manipolato dove i militanti mapuche, che disarmati vanno a far fieno per il bestiame al quale altrimenti non saprebbero cosa dar da mangiare, vengono definiti “terroristi” dai media senza mai mettere in dubbio le accuse contro questi.
E quando riescono a bucare il cono d’ombra dei media che li criminalizzano, come è il caso di Patricia Troncoso, che condusse uno sciopero della fame di 112 giorni un anno fa, immediatamente la luce si richiude. Oggi Patricia e i suoi compagni, per fortuna sopravvissuti, sono ancora in carcere e hanno ottenuto solo benefici minori. Con lei altri 31 mapuche sono detenuti nelle prigioni cilene e, nonostante siano accusati di crimini altrove considerati lievi, occupazione di terre, in qualche caso furto o incendio, la sistematica applicazione della legge anti-terrorismo causa l’applicazione di condanne gravi, quasi sempre superiori ai dieci anni di carcere.
Nonostante la società civile cilena sia silente, negli ultimi anni i mapuche riescono a beneficiare di avvocati prestigiosi, tra i quali l’ex-giudice Juan Guzman in grado di meglio difenderli anche se non sempre con buoni risultati.
Lunga continua ad essere la lista delle violazioni di diritti umani contro i mapuche contro i quali 20 anni di democrazia sembrano passati invano. Si va dal tredicenne Patricio Queipul Millanao, sequestrato e torturato dai carabinieri, a molteplici altri casi di minori detenuti in carceri per adulti, picchiati con multiple fratture, all’uso sistematico della tortura, di vessazioni e di violenza fisica in un’ancestrale lotta per la terra dove lo Stato ha da tempo, dal tempo di Manuel Montt a metà ‘800, scelto di stare da una parte contro un’altra.

lunedì 1 dicembre 2008

Argentina - Continua la campagna per l’espropriazione della Zanon - Fasinpat

Lo scorso 20 ottobre il Tribunale Commerciale di Buenos Aires ha riconosciuto la validità della gestione operaia e i progressi fatti dalla fabbrica negli ultimi anni, che nel frattempo ha aumentato il proprio organico dagli iniziali 260 operai che avevano dato il via all’autogestione a più di 450 lavoratori, ha concesso una proroga di 3 anni all’autogestione.
Continua la campagna dei lavoratori Zanon - Fasinpat per ottenere l’espropriazione a Zanon della fabbrica.


Vai al video su youtube Por la expropiación de ZANON - FASINPAT parte I parte II



Notizie aggiornate sul sito Obrerosdezanon.com




venerdì 28 novembre 2008

Benetton non può sgomberare la comunità mapuche Santa Rosa


di Edgardo Manosalva / Puerta E


La corte d’appello di Esquel ha respinto l’istanza di sgombero della Comunità Santa Rosa.

La Cámara de Apelaciones del Nord-ovest del Chubut, con sede nella città di Esquel, lo scorso 2 ottobre ha rigettato l’istanza di sgombero della Comunità Mapuche, ribadendo la sentenza di primo grado da parte del giudice Dr. Omar MAGALLANES, istanza inoltrata dalla Compañía de Tierras del Sud Argentino S.A., controllata dall’Impero BENETTON.
All’interno della richiesta di sgombero cautelare inoltrata da BENETTON il 22 marzo 2007, si chiedeva che a fine febbraio 2008 la Comunità fosse sgomberata dal suo territorio tradizionalmente occupato, in considerazione del fatto che essa aveva procurato "danni irreversibili" all’integrità del podere conteso.
La Comunità ha presentato un ricorso il 10 marzo, allegando la sua iscrizione nel Registro Provincial de Comunidades Indígenas della provincia del Chubut, chiedendo pertanto il ritiro dell’istanza di sgombero cautelare. Inoltre ha sottolineato che tutte le opere materiali realizzate per il momento non costituiscono "danneggiamenti materiali irreversibili", ma sono giustificate dalle strette necessità di base per la sopravvivenza e lo sviluppo di una cultura ancestrale.
Tale circostanza è stata constatata in situ dalla perizia giudiziaria effettuata il 9 maggio 2008 dal giudice di primo grado, che il 30 dello stesso mese ha sentenziato per il rigetto dell’istanza di sgombero, come richiesto da BENETTON.
Questa sentenza è stata impugnata dalla multinazionale italiana e così si è giunti alla recente sentenza della Cámara de Apelaciones del 2 ottobre. Nei considerando della sentenza, la Corte ha specificato: "non avvertiamo che i fatti denunciati dal querelante (BENETTON) costituiscano un grave pericolo... trattandosi di cambiamenti insufficientemente significativi... non sono stati arrecati danni materiali... e sono stati effettuati con il fine esclusivo di coprire le necessità di base indispensabili per la vita quotidiana".
Questa nuova sentenza ridimensiona le pretese della latifondista Compañía de Tierras del Sud Argentino S.A. e rafforza la posizione della Comunità Mapuche “Santa Rosa-Leleque” all’interno del percorso per il definitivo e incondizionato riconoscimento sul suo Territorio Ancestralmente occupato.
* G. A. J. A. T.Asociación MAPU

Wallmapu -“Salvaguardia del territorio per il diritto alla vita"


PATRICIO CAYUN
Lonko Lof Cayun
FIDEL COLIPAN
Werken Confederación Mapuche Neuquina
vedi il video: el lof cayun en resguardo del territorio
(13 minuti di esercizio del diritto della Comunità mapuche Cayun, il giorno 11 novembre)
COMUNICATO MAPUCHE
129 anni fa il popolo mapuche ha cominciato a difendere la vita prima dal tentativo di sterminio messo in atto dall’esercito argentino, attraverso la figura del generale Giulio Argentino Roca. Oggi, in piena epoca di modernità e di "civilizzazione" ancora una volta si solleva per difendere la vita del territorio, minacciato ferocemente dalla stessa istituzione Esercito Argentino, che usando l’autoritarismo che lo ha caratterizzato, ha ignorato per tanti anni le richieste della Comunità Cayun di cessare dell’esercizio delle manovre militari nella Paraje Trompul.
In piena democrazia, facendo uso di vecchi metodi che hanno lasciato ferite profonde in Argentina, il IV reggimento della cavalleria San Martin de los Andes del tenente colonnello Pablo Ruiz ha minacciato la Comunità Cayun, ... esercitando intimidazioni e denunciando penalmente le loro autorità, che dal 7 novembre passato si sono installate nella località chiamata Pampa de Trompul per salvaguardare la ‘ixofilmogen’ – biodiversità del territorio - messa in pericolo costantemente a causa delle esercitazioni militari che vi si svolgono.
Siamo nel posto in difesa e salvaguardia di:
La vita delle montagne – pu newen de la mawiza - che hanno iniziato a precipitare usate come bersagli delle armi di guerra. La vita degli animali, pu kujin, costretti a fuggire dallo spaventoso rumore e dalla paura della morte. La vita delle nostre piante medicinali – lawen – che stanno distruggendo. La vita dei laghi, fiumi e torrenti che hanno avuto un impatto frenetico producendo uno squilibrio nella natura che mette a repentaglio la vita umana. Per questi motivi facciamo appello a tutta la società neuquina e argentina a salvaguardare, accanto a noi, la vita di questi territori, unici in biodiversità. Perché è un dovere di tutti lasciare alle generazioni future vita e non morte. Alla società di San Martin de los Andes vogliamo dire ancora una volta che siamo a favore della vita, dei diritti e della riproduzione di una società diversa. Nella quale tutti possano vivere e crescere degnamente. Dove la diversità di cosmovisione ci consenta di creare nuove forme di utilizzo degli elementi naturali e non lo sfruttamento di queste forze che hanno vita. Esortiamo tutti a non essere semplici spettatori di questa situazione, ma a farsi parte attiva. Perché la riproduzione della nostra vita e del nostro territorio non la possiamo delegare, difenderemo la vita di wajmapu - territorio, alla partecipazione e al consenso, affermato costituzionalmente. Per la difesa del territorio, giustizia e libertà.

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!