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domenica 14 maggio 2017

Turchia - Così Erdogan punisce i giornalisti che denunciano la verità

Così Erdogan punisce i giornalisti che denunciano la verità in Turchia

KAZIM KIZIL È UN ATTIVISTA IN CARCERE DAL 17 APRILE 2017. E' STATO ARRESTATO MENTRE FILMAVA LE PROTESTE POST REFERENDUM. UNA SUA AMICA RACCONTA TUTTA LA STORIA.
 di Sara Tomasetta
Kazim Kizil è un attivista e giornalista indipendente turco. Si guadagna da vivere facendo il farmacista, ma da anni documenta e denuncia quanto accade in Turchia, dando visibilità alla popolazione e supportando i diritti fondamentali delle persone. Kazim ha documentato gli scioperi dei lavoratori, le azioni femministe e quelle del movimento Lgbtq, la rivolta di Gezi Park nel 2013, l'esplosione nella miniera di Soma del 2014 e le altre vicende che hanno segnato la storia recente della Turchia e del Kurdistan.
Kazim è stato arrestato dalla polizia turca a Smirne, mentre riprendeva le proteste popolari del 17 aprile 2017 sorte in seguito all’esito del referendum che ha sancito la vittoria del presidente Recep Tayyip Erdogan. Il sì alla riforma ha trasformato la Turchia da repubblica parlamentare a repubblica presidenziale.
L’attivista è stato accusato di aver violato le leggi insultando il presidente, incitando l’odio popolare tramite un tweet : “Il nostro popolo, con questo risultato, si dirige verso le strade :))”
Halkımız bu seçim sonuçlarıyla bize sokağı işaret etmiştir... :)) 
“Il 21 aprile il tribunale di Smirne ha confermato l'arresto con l’accusa di oltraggio al presidente Erdogan senza fornire nessuna prova”, ha raccontato a TPI una stretta amica di Kazim che per ragioni di sicurezza ha chiesto di rimanere nell’anonimato e che verrà indicata con D.
D. è a sua volta un’attivista, è andata via dalla Turchia per ragioni di sicurezza e sostiene che rivelare la sua identità adesso non sarebbe una scelta saggia. La ragazza spiega che se dovesse far ritorno in Turchia molto probabilmente l’aspetterebbe il carcere.
“Chiunque è all’opposizione è in pericolo in Turchia. Lo scorso anno abbiamo battuto il record di giornalisti detenuti. Io non sono conosciuta come Kazim e sono un obiettivo ancora più facile”, riponde D. alla mia richiesta di usare il suo vero nome. 
Perché Kazim è in prigione?
La vera ragione del suo arresto è stata confessata dal procuratore e dal giudice. Le autorità temono che persone come Kazim possano incitare alla rivolta come avvenuto a Gezi.
Kazim si definisce un giornalista indipendente e a causa di quel tweet ora è in carcere. Lui è solo uno delle migliaia di persone rinchiuse per presunti insulti al presidente Erdogan sui social media.
Pensi fosse già sotto osservazione?

lunedì 17 aprile 2017

Turchia - Erdogan “vince” il referendum, ma ha metà Turchia contro

Nessun plebiscito per il Sultano. Paese diviso. Il No avanti nelle grandi città e in Kurdistan. Denunce dei partiti di opposizione e proteste contro la sede della Commissione elettorale generale.
Poco più di un punto percentuale separa il risultato finale dell'Evet (sì) da quello dell'Hayir (no). 51,18% contro 48,82%. 24 milioni e 300mila voti contro 23 milioni e 200mila. Nel voto estero, invece, il sì raggiunge quasi il 60%, con poco più di 250mila voti di distacco. Per la prima volta da quando l'AKP è al potere, però, Erdogan perde l'appoggio delle grandi città. Ad Istanbul, Ankara e Izmir vince il No. E la stessa cosa accade in Kurdistan e sulla costa.
Il voto referendario mostra un paese spaccato, in cui il consenso del Sultano continua ad erodersi. Nonostante le operazioni militari, le minacce, gli arresti, il controllo quasi totale dei mezzi di informazione, i brogli, la vittoria nel voto sulla riforma più importante per i progetti autoritari di Erdogan è stata risicatissima.
La riforma accentra ulteriormente enormi quote di potere nelle mani del presidente. Questo sarà eletto direttamente dal popolo e acquisirà tutti i poteri esecutivi, dal momento che la figura del Primo Ministro viene eliminata. Potrà nominare e far dimettere gli esponenti del governo e sciogliere il Parlamento, nonché sospendere o limitare diritti civili e libertà fondamentali durante lo stato d'emergenza. Anche buona parte del potere legislativo viene consegnato nelle mani del presidente, che potrà emanare decreti legge senza alcun voto parlamentare. E anche rispetto al potere giudiziario, il presidente giocherà il ruolo più importante, nominando il Consiglio superiore della magistratura e agendo, anche formalmente, in una quasi completa immunità.

venerdì 31 marzo 2017

Kurdistan - Non combattiamo per il potere, ma portiamo avanti una rivoluzione

Xelil:Non combattiamo per il potere, ma portiamo avanti una rivoluzione
In primo luogo voglio ringraziarla sentitamente per aver trovato tempo per un colloquio. Per prima cosa potrebbe presentarsi?
Il mio nome è Aldar Xelil. Sono rappresentante del coordinamento TEV-DEM. TEV-DEM è il Movimento per una Società Democratica. Siamo per così dire l’istanza di coordinamento delle strutture di autogoverno di democrazia dal basso. E anche rappresentanti della società civile fanno parte del TEV-DEM.


L’ultima volta che abbiamo avuto un colloquio è stato nell’estate 2015 nel Rojava. Quali sviluppi ci sono stati da allora nella regione del Rojava?
Al momento viviamo una rivoluzione che si espande sempre di più. Viviamo in una fase della nuova costruzione sociale, del modello che chiamiamo Xweserîya Demokratîk – Autonomia Democratica. E ovunque respingiamo IS viene costruito questo sistema. Questo attualmente sta avvenendo in luoghi come Til Hemis, al-Hol, al-Shaddadi, Silûk, Mabrouka, Ayn Isa, Minbic e diversi quartieri di Aleppo che sono stati liberati. E inoltre è in corso l’operazione su Raqqa.


Cosa si è sviluppato in ambito civile?
In ambito civile sono da notare in particolare i lavori per la costruzione di una Siria federale. Così si è svolto un congresso fondativo di particolare successo per la Federazione Democratica Siria del Nord. È stato preparato un contratto sociale per la Federazione e una proposta per una Costituzione per l’intera Siria. Al momento vengono preparate le elezioni per la Federazione.
Inoltre ha continuato a svilupparsi il sistema dell’istruzione nel Rojava, in modo che ognuno riceva istruzione nella propria lingua madre. Si è sviluppata la socialità. Molte cose si sono istituzionalizzate.


Quali sono i problemi maggiori?
Ci sono sviluppi a tutti i livelli nel Rojava, ma anche molti attacchi. Vogliono soffocare tutti questi sviluppi, distruggere il sistema nel Rojava. Ci sono attacchi a livello diplomatico, economico, politico. La Turchia ha in parte occupato il Rojava. Ora sono ad al-Bab, hanno occupato parti della regione di Shehba e cercano di portare sotto il loro dominio altri territori. La Turchia in questo modo vuole almeno partecipare alle decisioni sul futuro della Siria.L’opposizione è stata sconfitta. Ad Aleppo la Turchia si è messa d’accordo con il regime e gli ha consegnato Aleppo. Erdogan ha aiutato il regime nel passaggio di consegne. Nelle trattative per la soluzione non è stato trovato alcun tipo di soluzione, né a Ginevra né ad Astana. Da parte loro non c’è un progetto per una Siria democratica, ma tutti cercano di solo capire come possono aumentare il potere sulla Siria.


Qual è la situazione nel quartiere di Şêx Meqsûd di Aleppo?
Non si tratta solo di Şêx Meqsûd, una volta era così – ora sono sei quartieri liberati. L’embargo è stato un po’ allentato. Il regime ha cercato di esercitare repressione, ma noi continuiamo a resistere. Da ultimo sono intervenuti i russi e hanno mediato. C’è una zona cuscinetto tenuta dalla Russia tra noi e il regime. Il regime non entra nei nostri quartieri.


Quali sono le ragioni della Russia?

lunedì 20 marzo 2017

Kurdistan - Report sulla situazione attuale a Kobane – Marzo 2017

Questo report è stato preparato a seguito di un viaggio effettuato tra il 25 gennaio e il 12 febbraio 2017 nella Regione del Nord della Siria, e in particolare nella città simbolo di resistenza Kobane e dintorni, per osservare i lavori in corso da parte del Comitato di Ricostruzione di Kobane e i progetti sociali che seguiamo dall’Italia e dall’Europa.

Il report è il risultato di tutti gli incontri tenutisi con le amministrazioni, le associazioni e i comitati locali, e in particolare con il Comitato di Ricostruzione, col sostegno della Municipalità di Kobane e dell’Ufficio umanitario del cantone che ha dato l’opportunità di visionare tutti i lavori degli ultimi due anni.



a cura dell’Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia – Marzo 2017

lunedì 6 marzo 2017

Kurdistan - Facciamo del Ventunesimo Secolo il Secolo della Liberazione delle Donne!

Facciamo del Ventunesimo Secolo il Secolo della Liberazione delle Donne!
Nel primo quarto del ventunesimo secolo le donne del mondo intero si sono confrontate con una concentrazione estrema degli attacchi del patriarcato. Questi attacchi sistematici hanno raggiunto nel frattempo il carattere di una guerra contro le donne. L’asservimento delle donne yezide da parte dello Stato Islamico, il rapimento di donne nigeriane da parte di Boko Haram, l’odio verso le donne propagato da esponenti politici populisti come Trump, le violenze di massa o la privazione dei diritti e delle libertà, che le donne hanno contrastato, sono solo alcuni esempi che ci illustrano la gravità della situazione. Noi celebriamo, l’8 marzo, la Giornata Internazionale delle Donne di quest’anno con un simile scenario sullo sfondo.
Tuttavia, parallelamente all’accrescimento estremo degli attacchi ostili verso le donne da parte del sistema globale patriarcale, cresce anche la resistenza delle donne. Dappertutto nel mondo le donne si difendono, da attacchi fisici, psicologici, sessuali, politici, economici, culturali ed ecologici. Esse si riconoscono nella lotta mondiale delle donne per la libertà e l’autodeterminazione.
Un importante ruolo di conduzione in questa lotta su scala mondiale è rivestito dal movimento femminile kurdo, il quale, soprattutto attraverso la propria resistenza contro la mentalità patriarcale ostile verso le donne – sia che si manifesti nella forma dello Stato Islamico, sia dell’AKP, o in altre modalità – ha suscitato ammirazione, dappertutto nel mondo. Per il movimento delle donne kurde la resistenza non è da separare dai processi creativi. Mentre noi resistiamo, da un lato, agli attacchi ostili verso le donne, e difendiamo la nostra vita, la nostra libertà, i nostri sogni e le nostre utopie, costruiamo dall’altro lato, contemporaneamente, anche un nostro sistema alternativo. Ciò è essenziale, dal momento che soltanto così si può conseguire e garantire un reale cambiamento. Soltanto così, inoltre, possiamo davvero parlare di una rivoluzione delle donne.

venerdì 3 marzo 2017

Turchia - Ha vinto la paura

di Ilaria de Bonis
Turkey Purge è un collettivo di giovani giornalisti turchi «diventati la voce libera della gente comune», come loro stessi si definiscono. Il lavoro di questi attivisti è molto utile oggi, nella Turchia del post golpe: il loro sito web aiuta a visualizzare i numeri e i dettagli della ‘purga’ del presidente-sultano, che sta annientando la libertà del paese. Inoltre traduce (in inglese) notizie che parlano di violazioni e arbitri contro le persone. Turkey Purge tiene desta l’attenzione su tutte le violazioni dei diritti umani. 
Abbiamo rivolto ai giornalisti alcune domande per mail ed hanno risposto collettivamente, raccomandandosi di riferire soprattutto la loro “preoccupazione per il destino della gente comune”. Parlano di “una deriva autoritaria” che si sta allargando. Con la scusa del terrorismo Erdogan può far fuori chiunque: colpisce i funzionari, gli insegnanti, gli impiegati, i parenti dei giornalisti. Chi non è dichiaratamente col presidente, è contro di lui. Il risultato è che in Turchia domina la paura e la gente sta diventando “apolitica”..
Che ne è della gente comune in Turchia in questo momento storico?
Questa cosa ci turba molto. Nessuno sembra preoccuparsi più di tanto delle migliaia di persone che vengono “punite” quotidianamente con l’accusa di terrorismo o sostegno al terrorismo. Il rischio di finire nel calderone dei sospettati gioca un ruolo fondamentale nel creare una società sempre più “apolitica”. Nessuno mette più in discussione la narrativa ufficiale. Mentre il governo punisce tutto ciò che percepisce come nemico, la gente prende per buono il pretesto di Erdogan nel dire che la sicurezza nazionale è sotto attacco.
C’è una paralisi sociale diffusa. Perché?

venerdì 10 febbraio 2017

Turchia - In sette mesi espulsi 4.811 accademici

In Turchia, dopo il tentativo del colpo di stato del 15 luglio 2015 le università attraversano un periodo molto difficile. Pochi giorni dopo il tentativo di golpe, il 20 luglio, è stato dichiarato per la prima volta lo stato d’emergenza, che ha avuto una durata di tre mesi ed è stato poi rinnovato per tre volte consecutivamente. Il paese vive quindi ancora oggi in questa condizione straordinaria. La presenza di numerosi controlli, l’impossibilità di svolgere manifestazioni di protesta, l’annullamento di numerose manifestazioni culturali sono soltanto alcune conseguenze dello stato d’emergenza.
Attraverso i decreti legge il Presidente della Repubblica, il Primo Ministro e il Consiglio dei Ministri hanno trasformato il paese su più fronti adducendo “motivi di sicurezza”. Cambiamenti radicali nella gestione degli enti pubblici, interventi straordinari nella gestione dei fondi pensionistici, apertura di nuovi cantieri edili per i privati, oppure per le grandi opere pubbliche in terreni prima appartenenti alle forze armate ed espulsione di numerosi impiegati statali presso vari ministeri. Tra queste persone allontanate dal posto di lavoro e finite sotto indagine ci sono 4.811 accademici universitari.
Dal 20 luglio fino a oggi sono stati pubblicati nella Gazzetta Ufficiale cinque decreti legge che riguardano i lavoratori dell’informazione e sono state chiuse 15 università su 191. Secondo i dati diffusi dalla Rete dei Giornalisti Indipendenti (BiaNet) queste strutture davano lavoro a 2.805 persone ed erano frequentate da 64.533 studenti.
Oltre alle università chiuse definitivamente, perché accusate di appartenere alla rete della comunità di Gulen – accusata a sua volta di aver progettato e messo in atto il tentativo di colpo di stato del 15 luglio – in diverse atenei sono stati licenziati e indagati 4.811 accademici. Osservando i nomi si nota che  molti compaiono tra i firmatari dell’appello per la pace lanciato nel gennaio del 2016 da 1.128 accademici appartenenti a 89 università in Turchia e all’estero, con la richiesta allo Stato di porre fine al massacro e alla politica di espulsione contro la popolazione delle regioni del sud est della Turchia e di punirne i responsabili. Il conflitto tra le forze armate turche e la guerriglia del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) è ricominciato nel luglio del 2015 dopo due anni di tregua. I firmatari dell’appello hanno subito numerosi attacchi politici e mediatici da parte del Presidente della Repubblica, del Primo Ministro, di numerosi esponenti del governo e di vari giornali e canali televisivi allineati con le politiche del governo. Nel giro di poche settimane alcuni accademici sono stati sospesi e denunciati e alcuni hanno passato parecchie settimane in detenzione cautelare.

mercoledì 11 gennaio 2017

Kurdistan - La rivoluzione delle donne in Rojava: vincere il fascismo costruendo una società alternativa


di Dilar Dirik

(attivista curda e dottoranda all'università di Cambridge)

La sua ricerca è incentrata sul Kurdistan e il movimento delle donne curde


La resistenza contro lo Stato Islamico a Kobane ha fatto conoscere al mondo la causa delle donne curde. Con la loro tipica miopia, i media non hanno preso in considerazione le radicali implicazioni del loro gesto, ovvero l’essere pronte ad abbracciare le armi in una società patriarcale, e per di più contro un gruppo che sistematicamente stupra e vende donne come schiave sessuali, anzi, persino riviste di moda si sono appropriate della lotta delle donne curde per i loro scopi sensazionalisti. Le combattenti più “attraenti” finiscono nelle interviste e nei servizi che ne fanno poi un’immagine esotica da toste amazzoni. La verità è che, per quanto possa essere affascinante – sopratutto in una prospettiva orientalista – scoprire una rivoluzione femminile tra i curdi, la mia generazione è cresciuta riconoscendo le donne combattenti come parte della nostra identità.

L’Unità di Difesa Popolare (curdo: Yekîneyên Parastina Gel, YPG) e l’Unità di Difesa delle Donne (curdo: Yekîneyên Parastina Jin‎ , YPJ) di Rojava, regione a maggioranza curda nel nord della Siria, affrontano il cosiddetto “stato islamico” da due anni e stanno opponendo una strenua resistenza nella città di Kobane. All’incirca il 35 per cento dei combattenti, un numero stimato di 15.000, sono donne. Fondata nel 2013 come un’armata delle donne indipendente, il YPJ dirige autonomamente operazioni e addestramenti. Ci sono centinaia di brigate femminili sparse nel Rojava. Quali sono le motivazioni politiche di queste donne? Perché Kobane non è caduta? La risposta si trova nella radicale rivoluzione sociale che accompagna i loro fucili di autodifesa.

Innanzitutto bisogna analizzare le implicazioni di stampo patriarcale, nella guerra e nel militarismo, per comprendere la natura della lotta delle donne contro l’ISIS e della sistematica guerra condotta dall’ISIS contro le donne. Normalmente, in guerra, le donne vengono percepite come parti passive nei territori difesi dagli uomini, mentre al contempo il sistematico ricorso alla violenza sessuale è strumento di dominio e umiliazione del nemico. 
Essere militante è “non-femminile” (un-womanly); scavalca le norme sociali e mina lo status quo. La guerra è vista come una questione maschile: suscitata, condotta e conclusa da uomini. Che “combattente” possa dunque essere anche donna, crea disagio generale. Nonostante la tradizionale divisione di genere esemplifichi e idealizzi le donne come delle sante, la punizione è altrettanto feroce una volta che abbiano osato violare il ruolo prestabilito. Questo è il motivo per il quale tante donne combattenti, ovunque nel mondo, sono soggette a violenza sessualizzata in quanto combattenti in guerra o prigioniere politiche. Come molte femministe hanno indicato, lo stupro e la violenza sessuale non hanno poco o nulla a che vedere con il desiderio sessuale, ma sono strumenti per dominare e imporre la propria volontà su un’altra. Nel caso delle donne militanti, il fine della violenza sessualizzata, fisica o verbale che sia, è di punirle per essere entrate in una sfera maschile.

Le militanti curde stanno combattendo contro lo stato turco (secondo esercito più grande della NATO e primo ministro che si appella alle donne chiedendo loro di partorire almeno tre figli) , contro il regime iraniano (il quale disumanizza le donne apparentemente nel nome dell’Islam), contro il regime siriano (stupro sistematico come strategia di guerra) e contro i jihadisti, come quelli dell’ISIS. Inoltre, combattono anche contro il patriarcato, ancora insito nella stessa società curda. E ancora contro matrimoni precoci e forzati, violenza domestica, delitti d’onore e cultura dello stupro.

L’ISIS ha dichiarato una guerra alle donne con rapimenti, matrimoni forzati e schiavitù sessuale. Si tratta di una distruzione sistematica della donna, una forma specifica di violenza: femminicidio. La violenza sessuale è il castigo per le donne militanti che sono entrate in una sfera riservata agli uomini, al “ genere privilegiato”. Per i membri dell’ISIS, che dichiarano “halal” (lecito) stuprare le donne nemiche e che si aspettano 72 vergini in paradiso come ricompensa per le loro atrocità, le donne militanti sono certamente un perfetto nemico…

Nonostante l’esplicita natura sessista della guerra e della violenza, in tutto il mondo le donne si schierano in prima fila nelle lotte per la libertà ma, una volta che la “liberazione” è raggiunta, vengono respinte, rimandate nei ruoli tradizionali in modo di ristabilire la “normale” vita civile; considerando ciò, cosa possiamo imparare sulla liberazione da un punto di vista radicale?

La repressione delle donne curde avviene su vari livelli, e questa esperienza ha maturato in loro la consapevolezza che le diverse forme di oppressione sono interconnesse tra loro. Da qui scaturisce l’ideologia che ora anima la resistenza nei tre cantoni del Rojava dichiarati autonomi nel gennaio del 2014, tra cui, appunto, Kobane. È una resistenza che trova risonanza con gente in lotta in tutto il mondo, che sente la causa come propria.

Qual è il credo politico dietro la resistenza delle donne curde?

“Noi non vogliamo che il mondo ci conosca per le nostre pistole, ma per le nostre idee,”, dice Sozda, una comandante del YPJ a Amude, indicando le immagini che tappezzano la loro stanza in comune: guerriglieri del PKK e Abdullah Öcalan, il rappresentante ideologico del movimento, attualmente in prigione. “Non siamo soltanto donne che combattono l’ISIS. Noi lottiamo per cambiare la mentalità della società e mostrare al mondo di cosa siano capaci le donne.” Per quanto il PKK e l’amministrazione del Rojava non siano esplicitamente legati, condividono gli stessi principi politici.

Il PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan), fondato nel 1978, ha iniziato una guerriglia contro lo stato turco nel 1984. Inizialmente puntava all'indipendenza del Kurdistan, ma sorpassò ben presto i concetti di stato e nazionalismo, criticati in quanto oppressivi ed egemonici. Ora propugna un progetto di liberazione sotto forma di democrazia – inclusiva, femminista e radicale – e di autonomia regionale: “confederalismo democratico” ( parità dei generi, ecologia ) e democrazia diretta per tutti i gruppi (etnici, linguistici, culturali e religiosi). Abdullah Öcalan afferma esplicitamente che il patriarcato, insieme al capitalismo e allo Stato, sono alla base di oppressione, dominazione e potere: “L’uomo è un sistema. Il maschile è diventato Stato e lo ha trasformato in cultura dominante. L’oppressione di classe di genere si sviluppano insieme. La mascolinità ha generato il genere dominante, la classe dominante, e lo stato dominante”. Si ribadisce il bisogno di una lotta femminista autonoma e cosciente: “la libertà della donna non può essere assunta una volta che una società ha ottenuto generale libertà ed eguaglianza”. I quadri del PKK frequentano seminari contro il patriarcato e a sostegno dell’uguaglianza di genere, in modo di cambiare il senso di privilegio e diritto naturale dell’uomo sulla donna. Öcalan dimostra le connessioni tra differenti istituzioni di potere: “Tutte le ideologie, di stato e di potere, derivano da comportamenti sessisti […]. Senza la schiavitù della donna nessun altro tipo di schiavitù può esistere, e nemmeno svilupparsi. Il capitalismo e lo stato-nazione non sono che il maschile dominante nella sua forma istituzionalizzata. Detto con franchezza: il capitalismo e lo stato nazione sono il monopolio del maschio dispotico e sfruttatore”. Anche il movimento delle donne produce indipendentemente teorie e critiche sofisticate, ma che, nel Medio Oriente, il leader di una lotta per la liberazione metta la liberazione femminile come misura critica della libertà stessa, è pressoché straordinario. Solo leggendo, capendo la posizione di questo movimento e le sue azioni corrispondenti, è possibile comprendere la mobilitazione di massa delle donne di Kobane. Questa posizione non è emersa dal nulla, ma nasce da una tradizione radicata con un determinato sistema di principi.

Il PKK ripartisce ogni posizione nell’amministrazione tra un uomo e una donna, dalle presidenze del partito ai consigli di quartiere, tramite il principio di co-presidenza (co-chair concept, lett. “seggio in comune”). Oltre al fornire ad entrambi lo stesso potere decisionale, il concetto di co-presidenza mira a decentralizzare il potere, prevenire il monopolismo, e promuovere la ricerca del consenso (consensus-finding). Il movimento delle donne è organizzato autonomamente, socialmente, politicamente e militarmente. Mentre questi principi organizzativi cercano di garantire la rappresentanza femminile, la mobilitazione massiva sociale e politica mira alla coscienza della società in modo da interiorizzare i concetti appoggiati. Influenzate dalla linea femminista del PKK, la maggioranza delle donne nel parlamento turco e nelle amministrazioni municipali sono curde. Insieme al YPG/YPJ, unità del PKK realizzarono un corridoio umanitario per salvare i Yazida nelle montagne del Jebel Sinjār (Nord-Iraq) ad agosto. Alcune donne del PKK morirono difendendo la cittadina di Makhmour, nel Kurdistan iraqeno, a fianco dei compagni uomini. Ispirati da questi principi, i cantoni del Rojava hanno rinforzato i meccanismi di copresidenze e quote, hanno creato unità di difesa della donna, comuni femminili, accademie, tribunali e cooperative. Il movimento delle donne Yekîtiya Star è organizzato autonomamente in tutti i settori, dalla difesa all’economia, fino alla sanità. Assemblee e consigli femminili coesistono con quelli popolari e hanno potere di veto sulle decisioni di quest’ultimi. La discriminazione basata sul genere viene fronteggiata dalle leggi. Uomini colpevoli di violenze contro le donne non sono supposti a far parte dell’amministrazione. Nel bel mezzo della guerra, uno dei primi atti del governo è stata la criminalizzazione di fenomeni come matrimoni forzati, violenza domestica, delitti d’onore, poligamia, matrimoni precoci e il “prezzo della sposa”. Molte donne non-curde, specialmente arabe e siriane, si sono unite ai ranghi militari e amministrativi del Rojava e vengono incoraggiate ad organizzarsi autonomamente. In tutti i settori, incluse le forze di sicurezza interna, la parità dei sessi è parte centrale dell’educazione e dell’addestramento.Mentre alcuni editorialisti affermano arrogantemente che le donne di Kobane lottano “per valori occidentali”, le accademie femminili in Rojava criticano la nozione delle donne occidentali più libere, e dell’occidente detentore di un monopolio dei valori come la parità dei sessi. “Non c’è libertà individuale se l’intera società è schiavizzata”. In seminari pubblici, le donne esprimono le proprie critiche alle scienze sociali e propongono vie di liberare il sapere dal potere. Eppure questa rivoluzione femminista popolare ed esplicita è completamente ignorata dai media mainstream.

“La nostra lotta non è solo per la difesa della nostra terra”, spiega una comandante del YPJ,
Jiyan Afrin. “Noi in quanto donne facciamo parte di tutte le estrazioni sociali, indipendentemente se combattiamo l’ISIS o la discriminazione e violenza contro le donne. Stiamo cercando di mobilitare e di essere le autrici della nostra stessa liberazione”. Quale liberazione?

L’esperienza del movimento femminile curdo illustra che per una rivoluzione sociale significativa i concetti di liberazione devono essere sciolti dai parametri dello status quo. Per esempio, il nazionalismo è un concetto patriarcale. Le sue premesse limitano le lotte per la giustizia. Similarmente, l’idea di uno stato-nazione perpetua il sistema egemonico, oppressivo e dominante. Piuttosto che sottoscrivere questi concetti, la liberazione dovrebbe essere vista come una lotta senza fine, il tentativo di costruire una società etica, solidarietà tra le comunità e giustizia sociale. Dunque, piuttosto che essere una questione basata sui diritti che carica il peso sulle donne, la liberazione e l’uguaglianza dei generi dovrebbe diventare una questione di responsabilità di tutta la società, perché misurano l’etica e la libertà della società stessa. Per una lotta radicale e rivoluzionaria, la liberazione della donna deve essere nel processo sia obiettivo intrinseco, sia metodo attivo. La partecipazione politica deve andare oltre al voto e ai diritti e deve venir radicalmente reclamata dalle persone.

In un'era nella quale grandi statiste alimentano guerre ingiuste in paesi del terzo mondo pretendendo di “salvare le povere donne oppresse”, insieme a gruppi razzisti e maschilisti che credono di contribuire alla causa femminile nel Medio Oriente tramite azioni sensazionaliste egocentriche che loro considerano radicali, e nella quale l’estremo individualismo e consumismo sono propagati come emancipazione, le combattenti di Kobane hanno contribuito a ri-articolare il femminismo radicale rifiutandosi di attenersi alle premesse dell’ordine costituito da stato-nazioni capitalisti e patriarcali, reclamando l ‘autodifesa legittima, dissociandosi dal monopolio di potere dallo stato, e combattendo una forza brutale non per conto degli imperialisti, ma per una liberazione nella quale loro stesse stabiliscono i termini.

Da Kobane, la combattente YPJ Amara Cudî mi racconta via internet: “Una volta ancora, nuovamente, i curdi sono apparsi sul palcoscenico della Storia. Ma questa volta con un sistema di autogoverno e autodifesa, specialmente per le donne, che ora, dopo millenni, scrivono loro stesse la loro storia per la prima volta. La nostra filosofia ha reso noi donne coscienti che possiamo vivere solo resistendo. Se non possiamo difendere e liberare noi stesse, non possiamo difendere o liberare altri. La nostra rivoluzione va oltre questa guerra. Per riuscire, è vitale sapere per cosa stiamo lottando”.

Senza questo impegno collettivo per scuotere la coscienza della società, per trasformare i senzavoce in attori politici, Kobane non sarebbe stata capace di resistere per così tanto. Questo perché la mobilitazione politica e ideologica della popolazione di Rojava sono imprescindibili dalle vittorie contro l’ISIS: una rivoluzione genuina deve prima sfidare la mentalità di una società. Perciò, la lotta delle donne contro l’ISIS non è solo militare, ma anche esistenziale. Esse non resistono solo contro la misoginia dell’ISIS, ma anche contro la cultura dello stupro e del patriarcato nella loro stessa comunità. Dopotutto, l’ISIS cavalca sopra il concetto di “onore” nella regione, costruito intorno ai corpi e alla sessualità delle donne. Per questo, un grande striscione nel centro di Qamishlo dichiara: “Noi sconfiggeremo gli attacchi dell’ISIS garantendo la libertà delle donne nel medio oriente.”

Uno non deve simpatizzare con il PKK, ma non può nemmeno sostenere la resistenza a Kobane negando il pensiero che la alimenta, per poi esprimere solidarietà alle donne coraggiose che combattono l’ISIS. Non puoi scrivere l’epos delle donne di Kobane senza aver letto la vita di Sakine Cansiz, cofondatrice del PKK , che aveva guidato un ‘insurrezione in un carcere turco e aveva sputato in faccia al suo torturatore. È stata assassinata insieme Fidan Dogan e Leyla Saylemez il 9 gennaio 2013 a Parigi. Donne come lei hanno aperto la strada alla lotta contro lo stato islamico – donne che erano state, prima dell’ascesa dell’ISIS, etichettate come prostitute, terroriste, streghe irrazionali e confuse, crudeli, perché combattevano lo stato turco, membro della NATO.

Oggi, le donne di Rojava decorano le loro stanze con foto delle loro compagne Sakine, Fidan, e Leyla.

La de-politicizazzione della lotta a Kobane priva i combattenti del senso del loro operato e estrae la mobilitazione collettiva dal contesto – questo per interesse della coalizione, che consiste di stati che non solo avevano ignorato e marginalizzato la resistenza di Rojava all’ISIS per due anni, ma anche rifornito di armi gli stessi individui che poi avrebbero formato questo sanguinario gruppo. Solidarietà con le donne di Kobane vuol dire anche interessarsi alle loro politiche. Vuol dire sfidare l’ONU, la NATO, le guerre ingiuste, il patriarcato, il capitalismo, la religione politica, il commercio mondiale di armi, il nazionalismo, il settarismo, il paradigma dello stato, la distruzione ambientale – i pilastri di un sistema che ha scatenato l’inizio di questa situazione. Non permettete che coloro che hanno proiettato ombre buie, violente sul Medio Oriente e che causarono l’ascesa dell’ISIS, pretendino ora di essere i “buoni”. Sostenere le donne di Kobane vuol dire alzarsi in piedi e diffondere la rivoluzione.

(Titolo come apparso nel blog dell’autrice: The Women’s Revolution in Rojava: Defeating Fascism by Constructing an Alternative Society, dal capitolo “A Small Key Can Open A Large Door: The Rojava Revolution” in Strangers in a Tangled Wilderness, Marzo 2015, Combustion Books. Traduzione di Eugenia - tratto da Al di là del Buco)

martedì 20 dicembre 2016

Turchia - La via della Rojava. Reportage

fotoroj3Quando nel 2011 è iniziata la rivoluzione, sapevamo che il conflitto si sarebbe trasformato in una guerra tra sciiti e sunniti. Noi invece abbiamo scelto una terza via, quella della convivenza”, racconta Haval Jalil co-presidente di TEV-DEM, “la nostra è una rivoluzione culturale che passa innanzitutto per il rafforzamento delle comunità”. Siamo a Qamishlo, la capitale del cantone di Jazeera, una cittadina di duecentomila abitanti al confine con la Turchia.
 di X. Haval

sabato 10 dicembre 2016

Italia - Messico - Kurdistan: Un calendario per sostenere la dignità, la giustizia, la pace, la democrazia e la libertà


La rivoluzione delle donne

Il genere è sempre stato centrale nella rivoluzione zapatista.
La centralità della questione della liberazione delle donne, fin dall’inizio dell’organizzazione dell’EZLN affonda le sue radici nello sfruttamento, la marginalizzazione, i matrimoni forzati, la violenza fisica e la discriminazione a cui le donne indigene erano costrette.


Per questo il SubComandante Marcos in più occasioni ha raccontato come la prima insurrezione non fu nel 1994 ma nel 1993 con l’adozione della Legge Rivoluzionaria delle Donne, la base per la strutturazione dell’uguaglianza e della giustizia di genere, garantendo i diritti delle donne, l’autonomia personale, l’emancipazione e la dignità nel territorio ribelle.

Oggi le donne partecipano a tutti i livelli di governo autonomo e hanno le loro cooperative e strutture economiche per garantirsi indipendenza economica.

Le donne costituivano, e ancora costituiscono una parte numerosa dei ranghi delle forze dell’EZLN e occupano posizioni di alto comando.


Nell’occupazione di San Cristobal de Las Casas, la città più grande occupata nella notte del 1° gennaio 1994, gli zapatisti erano comandati da donne tra cui la Comandanta Ramona che fu anche la prima zapatista inviata a rappresentare il movimento a Città del Messico.

Non è difficile confrontare il massiccio coinvolgimento delle donne indigene negli incarichi zapatisti in Chiapas con la partecipazione delle donne nella difesa di Kobane e nelle YPJ (le Unità di Difesa delle Donne), descritte in modo puramente sensazionalistico dai media occidentali negli ultimi tempi.


Il loro coraggio e determinazione nella guerra contro lo Stato Islamico è il prodotto di una lunga tradizione di partecipazione delle donne nella lotta armata per la liberazione sociale nel Kurdistan.

Le donne hanno giocato un ruolo centrale nel PKK e questo è indubbiamente connesso con l’importanza del genere nella lotta kurda.

La rivoluzione nel Rojava pone al centro la liberazione delle donne come indispensabile per una vera liberazione della società. Il piano teorico che smantella il patriarcato nel cuore della lotta viene chiamato "gineologia" un concetto sviluppato da Abdullah Öcalan.

L’applicazione di questo concetto ha avuto come risultato un aumento di potere da parte delle donne mai visto in altri luoghi, non solo nel Medio Oriente ma anche nel contesto del femminismo liberale occidentale.


Le assemblee, strutture cooperative e le milizie di donne sono il cuore della rivoluzione, che si considera incompleta se non distrugge la struttura patriarcale della società, che è uno dei fondamenti del capitalismo.

Janet Biehl, una scrittrice artista indipendente, ha scritto, dopo una sua visita nel Rojava, che le donne nella rivoluzione kurda hanno il ruolo ideologico che ebbe il proletariato nel secolo passato.

mercoledì 9 novembre 2016

Kurdistan - "Il fascista Erdogan ci vuole sterminare" - Intervista a Zagros Hiwa, portavoce del PKK.

Non accenna a normalizzarsi la situazione politica in Turchia dopo gli arresti di Selahattin Demirtas e Figen Yüksekdag, i leader del partito filo-curdo Hdp, terza forza del parlamento e principale oppositore dell’Akp del Presidente Erdogan. I parlamentari dell’Hdp hanno annunciato che boicotteranno i lavori dell’aula, non presentandosi alle votazioni né nelle commissioni di cui fanno parte. La magistratura e i partiti di maggioranza continuano ad accusare Demirtas e i suoi di fiancheggiare il PKK, considerato un’organizzazione terroristica da Ankara, ma anche dagli Usa e dall’Unione Europea. «L’Hdp non ha relazioni con la guerriglia. È un partito che si è costituito secondo la legge e la Costituzione turca» replica in questa intervista Zagros Hiwa, portavoce del PKK.


di Andrea Milluzzi 

Qual è la reazione del PKK di fronte agli arresti e alle indagini contro militanti, giornalisti e politici curdi?
Fanno parte di una guerra a tutto campo iniziata da Erdogan contro i curdi e tutte le forze democratiche del Paese. Il principale scopo di Erdogan è rompere il movimento politico e risolvere la questione curda intimidendo la popolazione per forzarla a emigrare. Vuole cambiare la mappa demografica del Kurdistan del Nord (che corrisponde a buona parte dell’Anatolia e della Turchia sudorientale, ndr) e indebolire i curdi nel Kurdistan del Sud (la Regione autonoma nel Nord Iraq, ndr) e nel Rojava (i tre cantoni curdi nella Siria nordorientale, ndr). Erdogan sta usando l’Isis per attaccare i curdi in Turchia – con gli attentati suicidi a Diyarbakir, Ankara e altre città – e in Siria, dove i jihadisti hanno assaltato Kobane, Qamishli e Afrin. Ma Erdogan non è riuscito a raggiungere i suoi obiettivi attraverso l’Isis. Ecco perché ha deciso di intervenire direttamente. Gli arresti nel Bakur (il Kurdistan del Nord, ossia la regione curda della Turchia di cui sopra, ndr) fanno parte di questo piano. Ma noi reagiremo a questi attacchi battendoci per un’unità nazionale e democratica fra i curdi, impegnandoci a creare un blocco democratico più ampio fra le popolazioni della regione, unendo le nostre forze a quelle democratiche e rivoluzionarie che già ci sono in Turchia e difendendo la libertà dei curdi e di tutte le persone in Medio Oriente secondo il principio della legittima difesa contro gli attacchi militari.

L’Hdp è l’unica opposizione parlamentare all’Akp di Erdogan. Cosa succederebbe se venisse messo fuori legge?
Praticamente l’Hdp è già fuorilegge, perché gli vengono negati molti dei suoi diritti legali e costituzionali. I comuni dove l’Hdp ha vinto le elezioni sono stati occupati dalla polizia e assegnati a persone di fiducia dell’Akp. Ai parlamentari è stata strappata l’immunità e negato l’accesso ai media nazionali e i loro media sono stati oscurati. Cosa significa tutto questo? È un golpe contro sei milioni di persone. Chiudere tutte le possibilità di dialogo e negare il diritto di parola porterà sempre più violenza. È un regola che vale in tutto il mondo e il Kurdistan ne fa parte. Non è un’eccezione.

Erdogan accusa Demirtas e l’Hdp di supportare l’attività del PKK. Quali sono i rapporti fra voi?
Non ci sono relazioni fra noi. Finora non sono stati capaci di portare nemmeno una prova di quanto dicono. Accusare di questo l’Hdp è solo un modo per metterlo ancora di più sotto pressione. Il crimine di cui i curdi sono colpevoli è quello di esistere. Secondo la visione nazionalista di Erdogan tutte le persone in Turchia devono essere turche o assimilare la “turchità”. Adesso che i curdi insistono sul diritto all’esistenza per loro e gli altri gruppi etnici e religiosi e che sono risuciti addirittura a entrare in parlamento, Erdogan ha scelto una versione aggiornata di quello che fecero i fasciti turchi agli armeni all’inizio del ventesimo secolo. Quello che Erdogan vuole è applicare sui curdi una versione moderna del genocidio armeno, mascherandolo come lotta al terrore. Come forse ricorderete, il genocidio armeno cominciò con l’arresto degli intellettuali e dei leader armeni a Istanbul, Izmir e altre città.

Il governo turco vi ritiene responsabili dell’autobomba a Dyarbakyr esplosa dopo l’arresto di Demirtas.
Finora noi abbiamo rivendicato tutte le nostre azioni. Il PKK non ha mai voluto colpire i civili e ha fatto autocritica ogni qual volta abbiamo provocato involontariamente danni ai civili. Non abbiamo alcuna responsabilità per quest’ultimo attacco. Ci sono indagini contraddittore che accusano l’Isis o il Tak (gruppo nazionalista curdo operante in Turchia, ndr), ma la Turchia ha l’abitudine di accusare il PKK per qualunque attentato dell’Isis. Si spende molto per assolverlo e difenderlo.

Qual è la situazione nelle città curde della Turchia attaccate dall’esercito?
Molte sono sotto coprifuoco. I cittadini non possono tornare nelle loro case. A dirla tutta, non hanno più case a cui far ritorno. Larghe zone delle città sono state rase al suolo e ai loro abitanti non è permesso nemmeno di vivere nelle tende che hanno piantato fuori le città distrutte, perché sono state bruciate o sono diventate obiettivo dei cecchini. Questa è la situazione di città come Sirnak e Nusaybin. Erdogan vuole sostituire la popolazione locale con i cosiddetti profughi arabi dalla Siria, che altro non sono che i familiari di membri dell’Isis. L’obiettivo è creare un paradiso sicuro per l’Isis in Turchia.

Erdogan ha detto che la montagna del Sinjar sta diventando come quella del Qandil per la folta presenza di guerriglieri PKK. Cosa state facendo nel Nord Iraq?
Il PKK è arrivato sulle montagne del Sinjar quando gli yazidi stavano subendo un genocidio e avrebbero potuto morire di fame in qualsiasi momento. È riuscito a metterli al sicuro quando tutto il mondo stava semplicemente osservando quella brutta situazione senza fare nulla. Abbiamo aiutato gli yazidi a creare le loro forze di auto difesa e resteremo con loro finché non saranno più minacciati.

L’esercito turco è entrato in Rojava per combattere le milizie curdo-siriane dellp Ypg e del Ypj in quanto «amici del PKK». Qual è l’attività del PKK in Siria?
Il PKK non ha attività in Rojava, ma supportiamo la lotta di quella gente contro l’Isis. È vero che possiamo condividere l’ideologia di alcune forze del Rojava ma non ci sono rapporti organizzati fra noi.

lunedì 7 novembre 2016

Kurdistan - 12 Novembre giornata di mobilitazione a sostegno del popolo curdo

Appello per una giornata nazionale di mobilitazione a sostegno del popolo  curdo e per la libertà di Abdullah Öcalan

La repressione del governo e del presidente turco ha raggiunto un nuovo picco: Selahattin Demirtas e Figen Yüksekdag e altri 11 deputati del Partito Democratico dei Popoli (HDP) sono stati arrestati in tutta la Turchia. Da quando l'HDP ha ottenuto una storica vittoria alle elezioni del 7 giugno 2015, è diventato il principale obbiettivo delle politiche autoritarie dell'AKP. Nonostante la proclamazione di nuove elezioni nel novembre 2015 e numerosi attacchi contro dirigenti e strutture del partito, l’HDP è riuscito ad entrare di nuovo in parlamento superando l'antidemocratica soglia del 10%, ottenendo 59 seggi che hanno rappresentato il principale ostacolo all'introduzione di un sistema presidenziale in Turchia.

Il 30 novembre, Gülten Kisanak e Firat Anli, co-sindaci della Municipalità di Diyarbakir, eletti democraticamente, sono stati arrestati e messi in  carcere. Al loro posto è stato messo un funzionario Ankara. Il numero di municipalità curde gestite da burocrati designati dal governo centrale ora è arrivato a 28. Circa 30 sindaci eletti democraticamente si trovano in carcere e altri 70 sono stati destituiti dal governo centrale.

Dal tentativo di colpo di stato del 15 luglio 2015, l’AKP ha colto  l’occasione per eliminare qualsiasi opposizione. Con la dichiarazione dello stato di emergenza, migliaia di dirigenti, consiglieri comunali e provinciali, sono stati incarcerati con accuse prive di fondamento. Non c’è  libertà di espressione e di stampa, libertà accademica, né un sistema giudiziario giusto e indipendente. Sono stati epurati migliaia di accademici, docenti, avvocati e giuristi. Con i decreti del governo oltre 170 organi di informazione sono stati vietati. Più di 130 giornalisti sono in carcere, compresi autori e intellettuali di fama internazionale. Recentemente due agenzie stampa DIHA e JINHA (unica al mondo fatta di sole donne) e diversi quotidiani curdi sono stati chiusi; i redattori i e giornalisti del quotidiano Cumhuriyet sono stati arrestati. Da luglio 2015 più di 80.000 persone sono state poste in detenzione e in gran parte si  trovano ancora in carcere.

Esprimiamo preoccupazione per il perdurare della segregazione del leader del popolo curdo Abdullah Öcalan, vero artefice del processo di risoluzione democratica al quale ha messo fine unilateralmente il regime turco, che  invece sta scatenando una guerra senza confine contro il popolo e la  resistenza curda. Il 12 novembre è l’anniversario dell’arrivo a Roma del Presidente Abdullah Öcalan. Le sue proposte politiche per una soluzione politica della questione curda e per la democratizzazione della Turchia oggi si confermano più che mai valide. Anche per questo chiediamo la liberazione di Abdullah Öcalan e di tutti prigionieri politici.

Condanniamo l'arresto dei co-presidenti, deputati e dirigenti dell’HDP e ne chiediamo l'immediato rilascio. Condanniamo la detenzione e la rimozione dall'incarico dei sindaci nelle municipalità della regione curda in Turchia,  espressione della volontà democratica di milioni di cittadine e cittadini.Condanniamo la politica del governo turco, che con l'obbiettivo di cancellare le conquiste democratiche del movimento curdo - che rappresentano un possibile modello di convivenza per tutto il Medio Oriente - unitamente a vecchie rivendicazioni territoriali, rischia di trascinare la regione nel baratro.

Condanniamo l'atteggiamento dell'Unione Europea e delle Istituzioni Internazionali che per lungo tempo hanno assistito alla degenerazione autoritaria in Turchia senza assumere alcuna iniziativa politica concreta per indifferenza o opportunismo, come dimostrato nell'accordo Turchia UE sui profughi, che calpesta i diritti umani e alimenta un circuito di sfruttamento della disperazione. Condanniamo l’ipocrisia dell’UE e del  governo italiano che finge di non vedere civili uccisi sul confine turco o  attaccati nell’Egeo e ignora lo sfruttamento, in particolare dei bambini,gli innumerevoli casi di violenze e abusi sessuali su donne e minori.

Chiediamo l’immediata cessazione dei rapporti diplomatici e commerciali con  la Turchia e la sospensione delle trattative per l'ingresso nella UE. Invitiamo a promuovere iniziative di mobilitazione con il popolo curdo e i  deputati di HDP nella giornata di sabato 12 novembre 2016. Salutiamo e sosteniamo la mobilitazione nazionale dei e delle migranti che a Roma nellostesso giorno manifesteranno per i loro diritti. La loro lotta è la nostra lotta.

Ufficio d'Informazione del Kurdistan in Italia - Rete Kurdistan Italia

venerdì 4 novembre 2016

Kurdistan - Lo stato turco e il suo capo Erdogan moltiplicano gli attacchi che mirano ad annientare il popolo curdo e i suoi rappresentanti

Quindici deputati del HDP (Partito democratico dei Popoli rappresentante maggioritariamente i Curdi) sono stati arrestati nel corso della notte tra il 3 e il 4 novembre. Tra di loro figurano i Copresidenti del HDP, Selahttin DEMIRTAS e Figen YUKSEKDAG, e i Deputati Sirri Surreyya ONDER, Nursel AYDOGAN, Ferhat ENCU, Gulser YILDIRIM, Leyla BIRLIK, Pervin BULDAN, Leyla ZANA, Abdullah ZEYDAN, Idris BALUKEN.
Dopo questa violazione senza precedenti della volontà del popolo curdo, che si aggiunge alle distruzioni delle città curde, al massacro di centinaia di civili, alla destituzione e all'arresto di numerosi Sindaci ed eletti locali, è giunto il momento di dire STOP a Erdogan e allo Stato turco !
Noi chiediamo alla comunità internazionale, in particolare all'Unione Europea, alle Nazioni Unite e agli Stati ad uno ad uno, a reagire di fronte ad Erdogan, di fronte al suo fascismo messo in atto sotto gli occhi del mondo intero, senza alcun riguardo per le norme internazionali. Noi chiediamo che delle misure di embargo siano prese contro lo Stato turco.
Il solo modo di fermare Erdogan è di prendere contro di lui delle misure coercitive politiche, economiche, diplomatiche e militari.
Il fatto di inviare a Erdogan e al suo governo dei messaggi di condanna della sua politica, senza prendere delle misure concrete, non lo farà indietreggiare.
Dopo quest'ultima aggressione, noi, popolo curdo, dichiariamo di iniziare delle manifestazioni continue e illimitate.
E' per questo che, a partire da oggi, venerdi 4 novembre, manifestiamo in massa davanti al Parlamento europeo, a Bruxelles.
Chiediamo al nostro popolo, così come a tutti i progressisti e democratici, di mobilitarsi per protestare contro il genocidio politico condotto dallo Stato turco e le gangs del « Sultano » Erdogan.

È giunto il tempo di denunciare e di fermare gli attacchi compiuti conto la nostra volontà da questo Stato, le cui mani sono sporche di sangue.
È tempo di denunciare questo crimine contro l'umanità commesso sotto gli occhi indifferenti del mondo e dell'Europa, così come l'ipocrisia degli Stati europei.
Dei deputati curdi e dei rappresentanti delle organizzazioni curde prenderanno la parola durante tutta questa lunga massiccia manifestazione.
Per difendere la volontà del popolo curdo, noi manifestiamo oggi, in tutte città del europa! 

Congresso delle Comunità democratiche del Kurdistan in Europa (KCDK-E)
4 novembre 2016

lunedì 24 ottobre 2016

Kurdistan - Le forze politiche curde dichiarano la mobilitazione contro il violento attacco genocida

Le forze politiche curde in Turchia e nel Kurdistan del nord si sono incontrate ieri nella città curda di Amed. Circa mille politici guidati dal Congresso della Società Democratica (DTK), del Congresso delle Donne Libere (KJA), del Partito Democratico delle Regioni (DBP) e del Partito Democratico dei Popoli (HDP) hanno discusso gli sviluppi nel Medio Oriente, in Kurdistan e in Turchia e hanno assunto decisioni significative. Tutti i co-sindaci delle municipalità governate dal DB e i dirigenti delle istituzioni curde hanno partecipato all’incontro.
La risoluzione finale dell’incontro, che si è svolto con lo slogan “Organizziamoci nello spirito della mobilitazione e trionfiamo con la resistenza” è stata rilasciata oggi.

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!