giovedì 29 ottobre 2009

Delirio Afpak

I talebani pachistani compiono un massacro nel bazar di Peshawar. Quelli afgani attaccano nel centro di Kabul. Intanto si scopre che la Cia paga da anni il più grande boss afgano della droga: il fratello del presidente di Karzai

Strage Pakistan

di Enrico Piovesana

L'autobomba che oggi ha ucciso quasi cento persone, ferendone e mutilandone altre duecento, ha distrutto il caratteristico bazar dei cereali e delle granaglie di Pipal Mandi, nel cuore della città vecchia di Peshawar. Si chiamava così perché sorgeva attorno a un antichissimo pipal, un fico sacro millenario: albero sacro per i buddisti. Non per i commercianti musulmani, che infatti avevano ingabbiato il suo grande tronco in una baracca circolare di legno che ospitava decine di venditori con le loro merci.
All'ombra del grande albero i mercanti chiacchieravano e prendevano il tè, i garzoni spingevano i carretti carichi di merci, talvolta inutilmente trainati da piccoli muli, facendo lo slalom tra i moto-risciò e le donne in burqa venute a fare la spesa.
Da questo ombelico sacro-profano si diramavano tortuosi i vicoli affollati e bui del bazar, su cui si affacciavano ininterrotti gli altri banchi del mercato e grandi portoni di legno da cui si accedeva ad antichi caravanserragli da mille e una notte: cortili ombreggiati da teli colorati e ingombri di casse, sacchi, bilance, carretti, animali e mercanti intenti a trattare, pesare e catalogare.
Tutto attorno a Pipal Mandi si snodavano, senza distinzioni nette tra l'uno e l'altro, il bazar delle spezie, quello delle pozioni magiche, quello degli ortaggi e quello delle donne, pieno di tessuti e accessori colorati ‘made in China'.
Ormai da anni nessun occidentale si spingeva da queste parti. Il personale straniero dell'Onu e della Croce Rossa Internazionale che lavora a Peshawar ha il divieto assoluto di avvicinarsi anche in auto alla città vecchia per il rischio attentati. Anche molti giornalisti preferiscono tenersi alla larga dai bazar. Chi, invece, decideva di tuffarsi in questo labirinto attirava gli sguardi di tutti, ma proprio tutti, come fosse un marziano. Sguardi curiosi, approcci amichevoli - "Hello sir! How are you sir? Where are you from sir?" - e in alcuni casi allarmati - "Don't stay here sir, it's dangerous! A lot of taliban here, sir".

Anche nel centro di Kabul ci sono tanti talebani. Oggi un piccolo commando di guerriglieri travestiti da poliziotti ha fatto irruzione nell'hotel Bakhtar di Shar-e-Naw, nel pieno centro di Kabul (a due passi dall'ospedale di Emergency), uccidendo dodici persone, tra cui sei dipendenti delle Nazioni Unite di cui non è ancora stata resa nota la nazionalità. Mentre la zona si trasformava in un campo di battaglia, con sparatorie, esplosioni, gente in fuga imbrattata di sangue, mentre centinaia di soldati circondavano la zona, altri talebani sparavano un colpo di mortaio contro l'Hotel Serena, il superblindato albergo cinque stelle che ospita gli stranieri a Kabul. Temendo anche qui un irruzione armata, gli ospiti sono stati rinchiusi nei bunker sotterranei, fino a quando l'allarme non è cessato.
Una dimostrazione di forza dei talebani alla vigilia del ballottaggio per le elezioni presidenziali, fissato per sabato 7 novembre: un voto illegittimo (poiché si svolge sotto occupazione militare) che confermerà al potere il sempre più debole e screditato Hamid Karzai.
E' di oggi la notizia che suo fratello Hamed Wali, il principale narcotrafficante del paese e l'organizzatore delle frodi elettorali nel sud a vantaggio di Hamid, è da otto anni sul libro paga della Cia. Qualcuno dice perché è suo l'ex residenza del Mullah Omar di Kandahar che oggi è diventato il quartier generale di migliaia di mercenari della Cia e delle forze speciali Usa - anni fa chi scrive ha avuto il piacere di venire fermato da questi ‘Rambo' vestiti da talebani davanti al cancello di Villa Omar: un calcio sul cofano della macchina e un fucile d'assalto puntato alla testa dell'autista accompagnato da un gentile "Get the fuck out of here!". Altri ricordano le accuse di coinvolgimento dell'intelligence Usa nel narcotraffico afgano: che il più grosso boss afgano della droga è stipendiato dalla Cia sarebbe solo una conferma.

Tratto da:

Honduras: Donne prigioniere politiche

A quattro mesi dal golpe.

Femministe in resistenza contro il golpe

Queste sono le condizioni giuridiche ed umane delle donne prigioniere politiche del governo dittatore di Roberto Micheletti. Video e comunicato.

PER LA DIFESA DELLA DEMOCRAZIA IN HONDURAS

Centoventitreesimo giorno di resistenza contro il colpo di stato

Intervista ad Augustina Flores e Mabel lopèz - Prigioniere politiche
Noelia Nunez - Avvocata in resistenza
Scene dalle mobilitazioni di piazza

Dichiarazione delle femministe in resistenza

Davanti al popolo honduregno e alla comunità internazionale, dichiariamo:

Continuiamo chiedendo la condanna nazionale ed internazionale al Colpo di Stato perpetrato i 28 di giugno che si è concretizzatosi con l'espulsione brutale del Presidente Costituzionale, Manuel Zelaya, dal nostro paese e l'instaurazione della dittatura fascista guidata da Roberto Micheletti Baín.

Denunciamo che il Dialogo intrapreso per superare la crisi generale propiziata dal Golpe, è stato caratterizzato da una vecchia pratica della classe politica tradizionale: la dilazione ed ambiguità nelle sue dichiarazioni ed attuazioni.

A ciò si sono sommati le misure di repressione contro il nostro popolo, violentando - a parole e nei fatti - tutte garanzie costituzionali ed i diritti umani fondamentali. Come esempio, valga ricordare che hanno perso la vita più di venti hondureñas/os, più di un centinaio sono stati feriti/te, si contano decine di donne oggetto di abuso sessuale e più di 3000 -tra donne, uomini e minori di età - hanno subito detenzioni arbitrarie.

In tali condizioni, è evidente che la Commissione negoziatrice del Presidente Zelaya sta affrontando serie difficoltà per stimolare normalmente i suoi sforzi di consenso e conciliazione.

Sosteniamo che la restituzione di Manuel Zelaya come Presidente Costituzionale del Honduras sia condizione previa ed ineludibile per effettuare le elezioni nel paese. Tuttavia, il regime di facto respinge questo tema e sta preparando una gran frode elettorale al fine di dare un'apprenza di legittimità ad un futuro governo.

Reiteriamo il nostro rifiuto alle inumane condizioni di isolamento, fustigazione e tortura psicologica alle quali è stato sottomesso il Presidente Manuel Zelaya nella sede diplomatica del Brasile accreditata in Honduras.

Sosteniamo incondizionatamente la pronta definizione delle procedure per la convocazione di un'Assemblea Nazionale Costituente democratica, aperta e partecipativa.

Pertanto, oggi più che mai, chiediamo:

  1. Dalle organizzazioni di donne di tutto il mondo, il loro appoggio deciso affinché il nostro popolo riconquisti il diritto a vivere in pace ed in libertà con la restituzione di José Manuel Zelaya Rosales come legittimo Presidente della Repubblica fino al compimento del periodo costituzionale del suo governo.

  2. Dai Governi degli Stati Uniti e Comunità Europea, l'Organizzazione degli Stati Americani, l'Organizzazione delle Nazioni Unite, l'adozione di nuove misure per velocizzare il processo di restituzione del Presidente José Manuel Zelaya e, quindi, la pacificazione sociopolitica in Honduras.



BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!