di Fabio Merone
Ma come è stato possibile che un apparato di sicurezza cosi potente sia crollato sotto i colpi dei giovani della rivoluzione?
La destrutturazione dell’apparato ideologico era evidente nella realtà dei fatti. Ma questo nessuno lo poteva sapere. E’ la riflessione del senno di poi che ci aiuta a capire. Il presente della vita delle persone normali è quello di sempre, ed è determinato dalla materialità delle condizioni di vita. Ognuno ha la sua lettura: il borghese che ha come orizzonte la sua città, è convinto che il paese stia sulla strada del progresso, nonostante le contraddizioni. Quello dei quartieri popolari, affogato fino in fondo nella materialità delle tradizioni sociali, oltre che della miseria materiale, ripete i suoi rituali pedissequamente. Ma anche la tradizione ha il suo peso, e può manifestarsi con la stessa forza oppressiva del regime di polizia. Anzi, a volte diventano alleate, e si confondono. Il poliziotto che ferma il ragazzino per la strada troppo agitato lo afferra e lo picchia come avrebbe fatto un padre di famiglia. L’intenzione era spesso paternalista. I rapporti di forza all’interno della società patriarcale si manifestavano e si giustificavano nella logica del sistema di potere. Il potente di turno del villaggio diventava l’“homda” (sindaco) e distribuiva i benefici degli aiuti pubblici secondo una logica clientelare assolutamente in coerenza con i rapporti di forza e le alleanze delle grandi famiglie.
Ma questi adolescenti, questi giovani voluttuosi in cerca di uno sfogo sociale, avevano uno strano moto di libertaà. Nessuno vi ha prestato attenzione. Io me li ricordo, e mi incuriosiva il fatto che, spesso, a giustificazione del loro progetto emigratorio, usavano la parola “libertà”.
Non si trattava dunque di fame? Non era soltanto la ricerca disperata di un’occupazione stabile. Ma voglia di libertà. E chi lo avrebbe detto? Chi era disposto a credere ad un’analisi che riconoscesse a questi ‘senza futuro’, a questi ‘sbandati’, un progetto di libertà?