Intervento della Commissione Sexta del 27 dicembre 2017 al CoScienze per l’Umanità.
SupGaleano
DIPENDE…
27 dicembre 2017
Buon giorno, sera, notte, mattina.
Vogliamo ringraziare tutti i partecipanti, sia qui al CIDECI che a distanza per geografia e calendario, a questo secondo Incontro di CoScienze per l’Umanità il cui tema centrale si suppone è “le scienze di fronte al muro”.
Siamo lieti che abbiate deciso di partecipare come relatori o come ascoltatori o osservatori.
Il mio nome è SupGaleano e adesso non vi parlerò di scienza, né di arte, né di politica, e neppure vi racconterò una storia.
Invece, voglio parlarvi di un crimine e delle sue possibili analisi o spiegazioni.
E non è un crimine qualsiasi, ma un crimine che rompe i calendari e ridefinisce il tempo; che amalgama il criminale e la vittima con la scena del crimine.
Un crimine, dico. Ma…un crimine in corso? Uno già perpetrato? Uno ancora da compiersi?
E chi è la vittima? Chi è il criminale? Quale è la scena del crimine?
Forse qualcuna, qualcuno, algunoa, sarà d’accordo con me che i crimini sono già parta della realtà che si vive in Messico ed in qualunque parte del mondo.
Crimini di genere o femminicidi, di omofobia, razzisti, sul lavoro, ideologici, religiosi, per l’età, per l’apparenza, per affari, per omissione, per il colore, e così via.
Insomma: un territorio inondato di sangue. Tanto che le vittime non hanno più nomi, sono solo numeri, indici statistici, notizie interne o trafiletti sui mezzi di comunicazione. Incluso quando il sangue appartiene a chi, come loro, lavora nella comunicazione.
Migliaia di crimini con le minuscole, che si alimentano di un crimine maggiore.
L’aberrazione è talmente grande che i parenti delle vittime devono lottare non più per la vita dei loro cari ormai assenti, ma perché non muoiano due volte: una di morte mortale e l’altra di morte di memoria.
Per non andare troppo lontano, in Messico si può già dire che qualcuno “è morto per cause naturali” quando è vittima di violenza.
Ogni attività, ogni passo, ogni instante di una vita una volta normale, ora trascorre nell’incertezza…
Domani, arriverò viva al lavoro, a casa, a scuola? Troveranno il mio corpo? Sarà intatto?
Diranno che me la sono cercata e mi faranno responsabile della mia assenza? I miei cari dovranno lottare per trovarmi, per ricordarmi? La mia famiglia, i miei amici, la gente che mi conosce, chi non mi conosce, dedicheranno un pensiero alla mia morte, un tuit, un commento sotto voce, una lacrima? E poi? Continueranno ad andare avanti? Resteranno in silenzio? Come reagiranno quando non si dirà che hanno assassinato una donna, ma che una donna è morta? Quale sarà la loro reazione quando la notizia di cronaca descriverà i miei vestiti, l’ora, il luogo? La mia morte raggiungerà il minimo necessario affinché i governanti decretino un’allerta di genere? Il mio assassino, sì, al maschile, sarà punito? Chi spiegherà che il crimine che mi ha colpito è per il fatto di essere donna? Sì, giovane, bambina, adulta, matura, anziana, bella, brutta, debole, grassa, alta, bassa, ma sempre donna.
Perché non mi hanno avvertito che nascere e crescere donna in questo calendario, in qualunque geografia, riduceva la mia speranza di vita e che ogni maledetto minuto avrei dovuto lottare non solo per essere stimata e rispettata per i miei meriti, grandi o piccoli, per avere una retribuzione giusta per il mio lavoro, per avere opportunità di studio, di lavoro, di relazione, per essere felice o infelice, anche fosse strisciando o camminando o correndo per i calendari, per tirare avanti, o come ad ognuno vada di vivere; no, risulta che devo anche lottare perché non mi ammazzino, non una, due, tre, cento, migliaia di volte?