mercoledì 24 giugno 2009

Usa-Iran: la pistola sul tavolo


di Lucio Caracciolo

La Guida suprema iraniana Khamenei ha blindato la vittoria di Ahmadinejad perché voleva che fosse lui a trattare con Obama. Il presidente americano rischia, ma vuole trattare con Teheran. Il problema dell'atomica.

Barack Obama vuole passare alla storia come il leader americano della mano tesa alla galassia islamica. Ora sappiamo che la mano da stringere, sul decisivo fronte iraniano, sarà quella di Mahmud Ahmadinejad.Salvo che la crisi conseguente alla vittoria più o meno rubata dello "spazzino del popolo" porti, come oggi non pare, al collasso del regime.


Sapremo dunque presto di che pasta è fatto Obama: un Jimmy Carter al quadrato, ingenuotto e figlio dei fiori, come pensano molti dirigenti israeliani? Oppure un realista alla Kissinger, che non si perde in fumisterie e bada all´interesse nazionale, pur con un debole per la magniloquenza?

Perché se la Guida Suprema ha blindato il risultato elettorale
, imponendo il trionfo di Ahmadinejad al primo turno, lo ha fatto perché conscio che il 12 giugno non si eleggeva solo il presidente dell´Iran, ma l´uomo che dovrà trattare con Obama. Khamenei voleva che a questo scopo fosse deputato il leader da lui inventato, piuttosto che l´odiato Mussavi, o chiunque altro dietro cui si stagliasse l´ombra dell´ancora più detestato Rafsanjani. Naturalmente riservando a se stesso l´ultima parola.

In gioco, nella partita con l´America, non è solo la bomba atomica, la stabilità dell´Iraq e dell´Afghanistan, la rilegittimazione dell´Iran come potenza regionale. Molto più, in questione è la sopravvivenza del regime. Khamenei non si fida delle garanzie di Obama. Pensa che l´America non si darà pace finché non avrà abbattuto la Repubblica Islamica. Lo scopo ultimo della trattativa con Washington che quasi tutti i leader iraniani vogliono – con toni e in modi diversi – è la piena accettazione dell´Iran come grande potenza islamica nella regione e nel mondo. Dunque, se Teheran apre il tavolo del negoziato vero, a 360 gradi, la parola d´ordine è: vietato fallire.

Lo stesso vale per Obama. Per questo evita di impelagarsi nella partita iraniana, contando che la protesta si sgonfi abbastanza in fretta. Non è uomo da "rivoluzioni colorate". Crede che il cambiamento sia necessario e possibile, ma non attraverso interventi militari o complotti dell´intelligence – in Iran nessuno ha dimenticato la defenestrazione di Mossadeq per mano della Cia, più di mezzo secolo fa. è il dialogo che mina i regimi. Non lo scontro frontale che spesso li cementa.

E' chiaro che per Obama trattare con Ahmadinejad significa rischiare l´osso del collo. Moussavi, che nella sostanza non è così diverso dal suo eversore, ci avrebbe almeno messo una faccia nuova, non sporcata dalle contumelie antisemite del presidente attuale.

tratto da Limes

Perù: ritirati i decreti legislativi sull'estrazione petrolifera ed il TLC in Amazzonia

Dopo il massacro di decine di indigeni nell'Amazzonia peruviana il presidente aprista Alan Garcia fa marcia indietro.

Giornata storica per le comunità indigene peruviane.

L'Associazione Interetnica per lo Sviluppo della Selva Peruviana (Aidesep) ha espresso in un comunicato ufficiale soddisfazione per la decisione del Congresso Nazionale di ritirare i contestati decreti legislativi 1090 e 1064 sulle normative legate all'estrazione petrolifera e sugli accordi internazione del Trattato di Libero Commercio.

Daysi Zapata, portavoce dell'organizzazione indigena peruviana, ha inoltre esortato il governo a riprendere il dialogo sincero e trasparente con le comunità per il bene del paese.

Ha inoltre sottolineato come i decreti legislativi sono considerati come un'attentato all'Amazzonia ed ai suoi popoli e che se la decisione di ritirare tali decreti fosse stata presa in considerazione prima si sarebbero evitatati morti e scontri tra cittadini peruviani.

Leggi il comunicato del AIDESEP

Il dolore degli iraniani

Lettera aperta di un'iraniana al suo popolo e all'Occidente

Tutto e' nero.Tutto ha perso il significato. Anche la lotta virtuale su internet. Su Facebook vedi tutti gli utenti con la stessa foto con i nomi cambiati. Non riconosci più gli amici.

Ti dicono di fare la stessa cosa. Ti dicono che gli studenti che in Italia hanno partecipato alle manifestazioni al rientro in Iran sono stati arrestati o si sono visti ritirare il passaporto. "Non tornare in Iran", ti dicono e tu senti un vuoto nel cuore. Fino a poche settimane fa ti sentivi soffocata perche' avevi paura di dire quello che pensavi. Oggi tremi nella prigione dell'angoscia di non poter piu' tornare nel tuo Iran. Pensi agli occhi della ragazza pochi secondi prima della sua morte, li ha visti tutto il mondo. Sta morendo e le dicono "non aver paura" e muore. Non so se ha avuto paura. Non avevo visto morire nessuno. In lei ho visto morire il mio Paese. Nei suoi occhi che si perdevano nel nulla ho visto morire l'umanità. Ebbene ti dici che non hai niente da perdere. Tanto ormai abbiamo perso tutti. Siamo dei grandi perdenti.

Abbiamo perso il nostro Iran. Ha perso la democrazia, cosi' come hanno perso i nuovi amici occidentali dell'Hitler iraniano. Anzi. Qua dobbiamo parlare di tanti Hitler. Stringetevi la mano e fate un brindisi con l'Occidente adesso che l'Iran non esiste piu'. Il nostro grido soffocato verra' forse ricordato dalla storia.
Il nemico e' nostrano. Segue le orme d'Israele. Le folle disperate degli iraniani intorno ai cadaveri morti mi ricordano i palestinesi. Quasi la stessa disperazione, ma la stessa identica angoscia, perche' l'Iran e' ormai occupato.
Noi abbiamo votato, loro ci hanno ucciso e l'Occidente ha taciuto. Voi fate brindisi alla vostra vittoria. Noi piangeremo la nostra rovina.

Solo fino a pochi giorni fa, verde era il colore della speranza. Oggi e' il colore del sangue, del lutto, della perdizione, degli occhi che si spengono per un Paese.
"Non avere paura", mi dico. Eppure piango e tremo. Ho sempre pensato a quelli che per aver detto la verita' dovevano vivere lontano dal Paese. Oggi vedo me e i miei amici tremare afflitti dalla paura. E' immisurabile la profondita' di questo dolore.
Ci hanno dimenticato tutti. Perfino il buon Dio sembra non voler sentire le nostre grida. E io non so piu' cosa rispondere agli amici atei. Hanno un sorriso amaro. Come se mi volessero dire "avevamo ragione noi".
Urla un'intera nazione. E il mondo sta a guardare tutto in silenzio. Aiutateci a rompere il silenzio. Aiutateci a tenere vivo il verde. Aiutateci a salvare quel poco che e' rimasto dell'Iran. Aiutateci a credere che l'umanita' esiste ancora. Non vi chiediamo molto: basta portate qualcosa di verde, fosse anche una semplice foglia attaccata sulla camicia.
E tu, buon Dio Onnipotente, se esisti davvero muovi almeno un dito.

Nardana Talachian, per tutti i ragazzi in piazza a Teheran

martedì 23 giugno 2009

Contro l'impunità per la libertà e l'autonomia

Più di 350 delegati provenienti da oltre 13 paesi per due giorni hanno discusso nella sede della Giunta del Buongoverno di Morelia

Il resoconto dell'incontro del 20 e 21 giugno 2009 in terra zapatista


Alla presenza di 13 paesi del continente americano e un ventaglio di paesi osservatori provenienti dai cinque continenti, per un totale di più di 350 partecipanti, si è aperto sabato 20 di giugno il Primo Incontro Continentale contro l’Impunità. Dopo il saluto a cura della Junta del Buen Gobierno di Morelia, anfitriona dell’incontro, e del comitato organizzatore, hanno preso la parola, in modo alternato, un relatore messicano e uno proveniente dal continente americano.
Hugo Blanco, intellettuale peruviano, ha parlato degli indios amazzonici - giudicati primitivi e retrogradi dai paesi “civilizzati”, ma in realtà uniche popolazioni rimaste inconaminate dalla colonizzazione territoriale e culturale maya e successivamente spagnola - che lottano per la difesa dei loro territori contro le multinazionali appoggiate dal governo. La tematica ambientale sembra essere, in prospettiva, terreno di scontro tra le popolazioni indigene e i governi occidentali alla ricerca di nuove terre da svendere. Lo sfruttamento e la devastazione di queste ultima non solo causerebbe un danno ambientale irreparabile, ma andrebbe a cancellare la stessa esistenza delle popolazioni indigene. Il nemico comune è stato spesso identificato con il capitalismo che ha creato un sistema basato sulla persecuzione e ghettizzazione delle classi più deboli, quali quelle indigene, attraverso nuove forme di potere e di controllo (la lotta al terrorismo e il pericolo sicurezza). Dall’analisi della situazione di impunità imperante a tutte le latitudini è scaturita la proposta della creazione di un tribunale internazionale autonomo continentale, obbiettivo finale dell’incontro, avanzata nell’intervento dell’uruguagio Carlos Fazio e ripresa dai successivi relatori, il punto di ripartenza dovrebbe essere il riconoscimento della pluralità e delle diversità.
Barbara Zamora, avvocato messicano, ha sottolineato la necessità di una giustizia autonoma in quanto essa è un diritto fondamentale sancito dalla carta dei diritti dell’uomo e dalle Costituzioni Nazionali. Questa deve essere conseguita attraverso nuove forme di contrapposizione alla giustizia globale la quale, cancellando i diritti costituzionali in chiave anti terrorista, non corrisponde più al suo compito: cercare le prove di colpevolezza e punire chi ha compiuto crimini. Questa giustizia autonoma deve nascere da una rivoluzione che ricostituisca un nuovo immaginario e dei nuovi vincoli sociali, essa si fonda sulla legge naturale dell’istinto dell’autodifesa e del “farsi giustizia da sé”, da cui può scaturire una nuova forma di violenza nata dall’esigenza di preservare le proprie vite e i propri diritti.
Silvia Marcos ha analizzato le varie forme di violenza delle società patriarcali verso le donne, individuate come strumento di offesa nei confronti dei componenti delle loro comunità. Così stupro, prostituzione coatta, obbligo della dote e altre angherie subite dalle donne nel corso dei secoli sono stati strumenti della visione patriarcale della società. Da queste esperienze drammatiche si stanno costituendo in tutto il mondo delle ”Cortes de mujeres” con l’obbiettivo di ricercare nuove forme di giustizia che non siano basate sulla vendetta o sulla punizione, ma sulla presa di coscienza da parte della società, sul valore morale e sul ruolo di denuncia pubblica da cui deve scaturire un’”azione” verso il cambiamento.

Gli interventi di domenica 21 giugno sono stati caratterizzati dalle testimonianze di episodi di impunità nei vari territori nazionali in Amenrica Latina, e nelle comunità indigene del Messico (un rappresentante della Sociedad Civil Las Abejas di Acteal; la peruviana Gloria Cano; Edwin Paraison di Haiti; Beatriz Suárez della Asociación de Familiares de Detenidos Desaparecidos y Mártires por la Liberación Nacional in Bolivia; Julio Rosales de Comunicarte, Guatemala)
Uno degli interventi più incisivi ed emozionanti è stato quello dell’argentina Andrea Benítez, le cui parole hanno voluto far risuonare "la voz incómoda de los sobrevivientes". Alla fine dell’assemblea plenaria, a cui hanno seguito cinque “mesas de trabajo” tematiche, la pittrice cilena Beatriz Aurora ha concluso criticando parte della classe intellettuale, rea di condannare il passato ma di tacere sui crimini delle attuali dittature. Pertanto ha lanciato la proposta di dichiarare l’11 settembre (giorno del Golpe cileno del 1973) come “Giornata di lotta contro l’impunità”.
Ass. Ya Basta! Italia
San Cristobal de las Casas, Chiapas, Mexico. 22 giugno 2009
Entra nel sito dell'Incontro Continentale contro l'impunità.

Tornano in Grecia 50 curdi arrivati il 21 giugno al porto di Venezia

Due nuclei familiari hanno chiesto l'asilo politico

L’ennesima nave per la Grecia è partita dal porto di Venezia con a bordo decine di profughi. Stavolta ci sono tra loro tante donne e moltissimi bambini, circa trenta su cinquantanove.

Su questa rotta, ormai è chiaro, lavorano varie mafie alimentate dall’impossibilità di attraversare legalmente i confini e dalla paura dei respingimenti. Ai migranti non resta altra scelta che pagare migliaia e migliaia di euro (di solito racimolati nel corso di anni), quando possono, per affidarsi ai contrabbandieri ed evitare così di viaggiare dentro i cassoni coibentati dei tir con il rischio di morire soffocati, oppure legati sotto i camion, con i pericoli che, come racconta la terribile storia di Zaher Rezai, un simile viaggio comporta. Questa volta la composizione, il numero, le modalità di arrivo di questo gruppo di migranti, ha costretto la polizia di frontiera a rendere pubblico questo arrivo. Nove macchine con altrettanti nuclei familiari, infatti, avevano cercato la mattina del 21 giugno di sbarcare dal traghetto muniti di documenti falsi. Un viaggio preparato nei minimi dettagli dai passeurs. Un viaggio che si è interrotto al porto. Pubblichiamo il comunicato stampa dell’associazione Razzismo Stop di Venezia presente sul sito www.meltingpot.org, che in questi giorni ha seguito l’intera vicenda.
La nave della Minoans partita il pomeriggio del 22 giugno alle 17:00 da Venezia porta via con sé parte di una storia piena di ombre, che non si dipaneranno certo quando attraccherà sulle banchine del porto di Igoumenitsa. 50 dei 59 profughi curdi arrivati la mattina precedente al porto, tra i quali la maggior parte erano donne e bambini sotto i dieci anni sono infatti stati reimbarcati su questo mezzo diretto verso la Grecia. Il numero di questi migranti e la loro composizione aveva impedito alla polizia di frontiera di procedere con i rimpatri informali che quasi sempre mette in atto in violazione di moltissime norme interne e internazionali. Nel pomeriggio del 21, inoltre, un presidio di associazioni, la comunità curda di Venezia, i centri sociali, avevano attirato l’attenzione sulla questione, preoccupati che anche stavolta tutti i migranti fossero respinti verso la Repubblica ellenica. Solo a tarda sera, dopo molte ore di attesa, l’assessore Luana Zanella è riuscita a entrare al porto insieme ad alcuni rappresentanti della comunità curda per accertarsi della situazione in cui versavano le persone. Da quel momento in poi si sono susseguite numerose informazioni confuse, la più accreditata delle quali diceva che tutti i 59 sarebbero stati portati in questura per ricevere un foglio di via ed essere lasciati a piede libero sul territorio con l’obbligo di abbandonarlo entro alcuni giorni. La mattina del 22, invece, sono state avviate, da parte del Cir, che agisce sempre e solo su chiamata della polizia di frontiera, pratiche di accertamento rispetto alla volontà di questi profughi di chiedere asilo politico. Due famiglie hanno inoltrato l’istanza, le altre hanno continuato a dichiarare di volere raggiungere la Germania dove avevano i loro congiunti. Alla fine, chi non ha chiesto asilo è stato reimbarcato con una procedura dubbia, che non si capisce bene a quale testo di legge faccia riferimento. Certamente, vista l’attenzione mediatica, questi migranti sono stati più fortunati di altri, e questa volta un minimo di procedure sono state rispettate. Questa, si potrebbe dire, è una sorta di eccezione che conferma la regola. Resta il fatto che le famiglie curde e i loro bambini sono ritornati nell’inferno della Grecia, da cui ogni giorni partono voli carichi di deportati diretti verso la Turchia. Per questo motivo rimane una forte preoccupazione per la sorte di queste persone che, questo è sicuro, cercheranno se possibile di ritentare la sorte affidandosi nuovamente alla mafie che li avevano fatti arrivare fino a Venezia. Il sistema dell’asilo in Europa e le leggi italiane, nei fatti, continuano ad alimentare la clandestinità e soprattutto le tasche dei contabbandieri di persone, rimasti l’unico mezzo possibile per cercare di attraversare i confini in cerca della vita che si vorrebbe poter scegliere. Queste preoccupazioni hanno espresso oggi centri sociali e associazioni che, insieme al Consigliere comunale Beppe Caccia, hanno fatto ingresso in porto per sincerarsi delle condizioni di questo respingimento e delle famiglie che invece sono rimaste in Italia.
L’articolo 19 della Carta dei diritti umani dell’Unione europea, siglata a Nizza nel 2000, recita: "nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani e degradanti". La Grecia non è uno Stato terzo sicuro, almeno nei fatti e nelle esperienze di chi lo attraversa e di chi vi viene respinto. Di queste 59 persone almeno si è conosciuta la storia. Di tutte le altre respinte quasi ogni giorno, invece, non si saprà ai nulla, a meno che non muoiano. L’estate è appena iniziata. è indispensabile, come le associazioni veneziane della rete tuttiidirittiumanipe-rtutti chiedono a gran voce, che dentro il porto, a tutela dei diritti dei richiedenti asilo e dei migranti, operino anche osservatori terzi e indipendenti, membri delle associazioni e del Comune che possano monitorare, con costanza e non una tantum, quel che avviene in questa zona di frontiera quando le telecamere si spengono.
Razzismo Stop

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!