Novembre 2019
Alle donne che lottano in tutto il mondo:
Al Congresso Nazionale Indigeno-Consiglio Indigeno di Governo:
Alla Sexta Nazionale e Internazionale.
Alle Reti in Resistenza e Ribellione o come si chiamino:
A chiunque si senta convocat@ alle attività:
Compagne, compagni, compagnei:
Sorelle, fratelli, hermanoas:
La Commissione Sexta dell’EZLN vi invita alla:
CELEBRAZIONE PER LA VITA: UN DICEMBRE DI RESISTENZA E RIBELLIONE.
Con le seguenti attività:
SECONDA EDIZIONE DEL FESTIVAL DEL CINEMA
PUY TA CUXLEJALTIC. Si terrà dal 7 al 14 dicembre 2019
Sedi:
Caracol Jacinto Canek (al CIDECI di San Cristóbal de las Casas, Chiapas, Messico) Caracol Espiral digno tejiendo los colores de la humanidad en memoria de l@s caídos. (Spirale degno tessendo i colori dell’umanità in memoria delle cadute e dei caduti, a Tulan Ka´u,
sulla strada San Cristóbal de las Casas – Comitán de Domínguez, a metà
strada tra queste due città – a circa 40 minuti da entrambi i lati,
guidando con prudenza-).
La programmazione e i partecipanti saranno resi noti alla prossima occasione.
Indirizzo per iscriversi come assistenti:
FORUM IN DIFESA DEL TERRITORIO E DELLA MADRE TERRA
Si svolgerà dal 21 al 22 dicembre 2019
I dettagli saranno resi noti dal Congresso Nazionale Indigeno, entità
organizzatrice, con il sostegno della Commissione Sexta dell’EZLN.
Sede:
Caracol Jacinto Canek (al CIDECI di San Cristóbal de las Casas, Chiapas, Messico).
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ATTENZIONE: Solo per donne che lottano:
SECONDO INCONTRO INTERNAZIONALE DELLE DONNE CHE LOTTANO.
Si terrà dal 26 al 29 dicembre 2019
Sede:
Semillero “Impronte del Cammino della Comandanta Ramona”, al
Caracol Torbellino de Nuestras Palabras, della zona Tzots Choj (nella
comunità di Morelia, MAREZ 17 Novembre), lo stesso posto in cui si è
tenuto il Primo Incontro, nel municipio filogovernativo di Altamirano.
Nota: al luogo dell’incontro del semillero, potranno accedere SOLO
le donne che lottano (con i loro piccoli se minori di 12 anni). In
questo luogo NON È CONSENTITO L’ACCESSO AGLI UOMINI, neanche per sogno. I
dettagli sul programma, la strada, ecc., saranno forniti alla prima
occasione dalle Coordinatrici delle Donne Zapatiste.
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CELEBRAZIONE DEL 26° ANNIVERSARIO DALL’INIZIO DELLA GUERRA CONTRO L’OBLIO
Si svolgerà dal 31 dicembre 2019 al 1° gennaio 2020
Sede:
Caracol Torbellino de Nuestras Palabras, della zona Tzots Choj (nella comunità di Morelia, MAREZ 17 Novembre).
L’America Latina, oggetto di una disputa egemonica feroce e globale tra Cina e Stati Uniti, è investita da una tormenta che rende instabile qualsiasi governo e ardua la possibilità di leggere i processi in corso. Trascorso il tempo in cui l’alto prezzo delle materie prime ha permesso alle politiche – comunque neoliberiste – dei governi progressisti di non comprimere sotto il limite della sopravvivenza i redditi delle popolazioni povere, s’è aperta una fase nuova nel caos sistemico. Così, la guerra estrattivista de los de arriba contro i poveri, sostenuta dai governi di ogni colore, produce grandi proteste e sollevazioni di diversa natura. Nel nucleo principale dei protagonisti, si distinguono le donne, le comunità indigene e i giovani, che vedono chiudersi ogni speranza di futuro che non umili la dignità. Raúl Zibechi, intervistato da Gloria Muñoz Ramirez, direttrice di Desinformémonos e storica firma de la Jornada, traccia una panoramica completa di quel si muove nella regione latinoamericana. Queste rivolte, spiega, non sono contro un presidente ma contro un modello predatorio che devasta il pianeta e prova a controllare la gente attraverso le politiche sociali e la militarizzazione, due elementi che si integrano alla perfezione con il fine di mantenere la popolazione soggiogata. Di fronte al diluvio che li colpisce e impedisce di vedere vie di uscita credibili, los de abajo non possono che resistere in modo organizzato e collettivo, costruendo le arche di una sopravvivenza che esprime già oggi i mondi nuovi.
Delle attuali rivolte latinoamericane, del ruolo dei popoli indigeni, dei giovani e delle donne, del ruolo degli Stati Uniti, delle elezioni in Bolivia e in Argentina, della congiuntura in Messico, dell’ultra-destra e di ciò che segue per chi cerca un mondo più degno, parla in questa intervista Raúl Zibechi, giornalista e scrittore uruguayano che conosce, percorre e accompagna diverse lotte dell’América Latina.
Cosa sta succedendo in América Latina? Perché adesso le rivolte in Ecuador, Haiti e Cile?
Siamo alla fine di un periodo segnato dall’estrattivismo, la fase attuale del neoliberismo o Quarta Guerra Mondiale. Credo sia l’autunno dell’estrattivismo perché il suo periodo d’oro è stato prima della crisi del 2008, quando i prezzi alti delle commodities hanno permesso di migliorare i redditi dei più poveri senza toccare i ricchi, senza riforme strutturali, come quella agraria, quella urbana, la fiscale e così via.
Le rivolte sono molto diverse in ogni paese. In Ecuador abbiamo una sollevazione – sono state una decina dal 1990 – ben organizzata e diretta dalla Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador (CONAIE), che per la prima volta è stata parzialmente scavalcata dai poveri delle città. In Cile, invece, c’è un’esplosione, senza che nessuno l’abbia convocata e senza direzioni ma con una crescente organizzazione territoriale attraverso assemblee popolari. I settori più organizzati sono i Mapuche, gli studenti e le donne, che stanno giocando un ruolo rilevante.
Credo che la gente ne abbia abbastanza, sia stanca e arrabbiata per tanta disuguaglianza e per il livello infimo in cui si trovano il lavoro, la salute e l’educazione. Quel che c’è sono servizi pessimi per gente di scarto. La vedono così soprattutto i più colpiti, le ragazze e i giovani, che si accorgono di non avere alcun futuro in questo sistema. La gente approfitta delle crepe (nella dominazione, ndt), come per lo sciopero degli autotrasportatori in Ecuador, per farsi sentire.
Qual è la tua lettura di ciò che sta succedendo in Bolivia? Nelle elezioni presidenziali è stato rieletto Evo Morales, ma poi sono seguite le mobilitazioni…
Un’altra frode. Evo Morales e la cricca che lo circonda, a cominciare dal vicepresidente Álvaro García Linera, si aggrappano al potere, la sola cosa di cui gli importa. È una lezione importante: avendo rinunciato a ogni etica ai dirigenti di sinistra rimane solo l’ossessione del potere. Questo merita un’analisi profonda. Come siamo arrivati a questo? Che cosa è accaduto perché il loro unico interesse sia il potere e tutto ciò che lo circonda, come il lusso o il controllo sulla vita degli altri?
Morales non doveva presentarsi a queste elezioni perché ha convocato un referendum e ha vinto il No alla sua candidatura. Ha violato la volontà popolare e adesso torna a farlo. È chiaro che la destra pretende di approfittare di questa situazione, ma non dimentichiamo che la Organizzazione degli Stati Americani, attraverso Luis Almagro, difende il regime di Morales, questo mi sembra molto significativo. Chi parla di colpo di Stato nasconde che c’è un patto con la destra, i militari e la OEA, cioè con gli Stati Uniti, per sostenere il governo di Morales.
Dobbiamo riflettere sul perché la sinistra non riesce a immaginare di potersi staccare dal potere, sul perché non concepiscono la politica senza aggrapparsi allo Stato. E sul perché, tra le altre cose, hanno abbandonato la costruzione di poteri popolari, sul perché non gli interessa che la gente si organizzi e fanno inevece tutto il possibile per evitarlo, perfino attraverso la repressione e il terrorismo di Stato, come in Nicaragua.
Che ruolo giocano i popoli indigeni nelle rivolte?
Sono il nucleo principale, insieme alle donne e ai giovani. Quel che sta succedendo in Cile ha tre precedenti: la lotta del popolo mapuche, quella degli studenti, molto viva da oltre dieci anni, e quella delle donne che l’anno scorso hanno occupato le università contro il patriarcato accademico. Mi sembra buffo quando dicono che il Cile s’è svegliato. Quelli che si sono svegliati sono stati i giornalisti e gli accademici che stavano nel limbo. Los de Abajo non hanno mai dormito. Un anno fa la risposta di tutto il Cile all’assassinio di Camilo Catrillanca è stata impressionante, con i blocchi stradali per un mese a Santiago e in altre trenta città.
I popoli originari hanno due grandi qualità. La prima è l’organizzazione territoriale comunitaria che sta diventando più profonda con la comparsa dell’attivismo dei giovani e delle donne, che democratizzano le comunità. La seconda è che incarnano modi vivere potenzialmente non capitalisti, cosa che nessun altro settore della società può offrire alle lotte. Educazione, salute e cibo in chiave non mercantile, a cui bisogna aggiungere la costruzione di poteri di un altro tipo, non statali.
Per questo i popoli originari sono referenti per tutti coloro che lottano. Per questo i “bianchi delle città” agitano le bandiere Mapuche e le donne, studentesse e contadine ecuadoriane accettano l’orientamento degli indigeni. Mi piacerebbe dire che i popoli originari sono oggi il principale referente delle rivolte, anche per i settori delle classi medie urbane. A Quito, le donne professioniste lavavano i bagni della Casa della Cultura, mentre donne e uomini originari discutevano in assemblee improvvisate. Lo hanno fatto come gesto di rispetto e di accettazione attiva della loro leadership, con un atteggiamento che dovrebbe farci riflettere dal cuore perché emoziona profondamente.
L’Uruguay rifiuta la Guardia Nazionale, che al contrario è stata approvata in Messico. Qual è il risultato delle forze armate nelle strade?
Nei prossimi anni vedremo sempre più i militari nelle strade. Lula e Dilma, in Brasile, li hanno portati nelle favelas e nessuno ha alzato la voce, perché lì sono neri e “delinquenti”. Il tema del crimine organizzato è un pretesto perfetto, perché serve a lavare la coscienza delle classi medie della sinistra, che sono poi quelle che meno soffrono la violenza.
Il futuro ministro degli Interni del Fronte Amplio in Uruguay, Guastavo Leal, sta già comportandosi come tale e si dedica a perseguire i punti di vendita di pasta base con una foga speciale, demolisce le case degli spacciatori quando vengono detenuti. Non si tratta di narcos, in senso stretto, ma di poveri che sopravvivono nella delinquenza e che vengono sottoposti a metodi repressivi identici a quelli che utilizza Israele con i Palestinesi. Tuttavia, in Europa sono state scoperte partite di cocaina fino a cinque tonnellate imbarcate nel porto di Montevideo.
La presenza nelle strade dei militari è inevitabile perché los de arriba hanno dichiarato guerra alla popolazione. Non c’è alcuna relazione con l’essere di destra o di sinistra, è una questione di classe e di colore della pelle, è la politica dell’1 per cento della popolazione che vuole restare arriba, sopra.
Che lettura dai del Messico in questo contesto latinoamericano?
Da tempo in Messico si sta incubando qualcosa di molto simile a quello che succede in Cile, una fenomenale esplosione che è stata ritardata prima dalla guerra e adesso dal governo di Andrés Manuel López Obrador. Però la pentola sta accumulando pressione ed è inevitabile che a un certo punto momento si verifichi una enorme sollevazione, accadrà quando la rabbia supererà la paura. Non sappiamo quando, ma il processo è in marcia, perché la politica di approfondimento dell’estrattivismo dell’attuale governo è un dispositivo di accumulazione di rabbie.
Dall’altra parte, in Messico vedo un potere debole, un governo che si tira indietro di fronte ai narcos, com’è successo a Culiacán, e invece mette sotto pressione le popolazioni come a Morelos, quando hanno assassinato il difensore della comunità Samir Flores Soberanes. AMLO sta negoziando coi narcos e calpesta i popoli originari, rivelando così la miseria etica del suo governo. Ha detto che si è trattato di salvare vite, e questo lo posso capire. Ma chi ha difeso la vita di Samir e di tanti altri assassinati in questo suo primo anno di governo?
L’Argentina e le elezioni. Il ritorno del progressismo è la soluzione?
Il problema è che torna un’altra cosa, non il progressismo. In Argentina non torna ilkirchnerismo del 2003, ma un regime peronista molto repressivo, che sarà più simile a quello del Perón del 1974 o del Menem del 1990. Il ciclo progressista è finito, sebbene ci siano ancora governi che si proclamano di quella corrente. Il progressismo è stato un ciclo segnato dai prezzi alti delle commodities, cosa che ha permesso di trasferire ai settori popolari le entrate degli alti avanzi commerciali. Oltre a questo fattore economico, il ciclo finisce per un’altra ragione decisiva: finisce la passività, il consenso tra classi, i movimenti si mettono in attività e questo segna un limite chiaro al ciclo che era possibile solo grazie all’accettazione abajo (in basso, ndt) delle politiche de arriba.
Credo che il nuovo governo dovrà affrontare enormi difficoltà per il peso del debito che lascia Macri e che costringe a una politica di austerità. Il problema è l’aspettativa popolare che le cose cambino rapidamente e si produca un miglioramento rilevante nell’attività economica e nei salari.
Sappiamo che questo non è possibile, si apre allora un periodo di imprevedibilità nel quale la gente non si metterà passiva ad aspettare che le vengano consegnati benefici. In Argentina vedremo un potente approfondimento dell’estrattivismo, in particolare per quel che riguarda il petrolio e il gas di Vaca Muerta.
In Costa Rica e a Panama ci sono rivolte studentesche. Che ruolo giocano i giovani?
I giovani sono uno dei settori più attivi. Se gli indigeni subiscono l’espropriazione e le donne violentate e assassinate, i giovani sanno che non hanno futuro, perché una vita dignitosa non può consistere in un lavoro di otto o dieci ore in un Oxxo, che con il viaggio di andata e ritorno a casa diventa di quasi quattordici ore dedicate al lavoro. Non c’è tempo né animo per fare altro che consumare con quel poco che resta di un salario, quando pure ce ne sia uno di salario.
Solo una minoranza ha accesso a studi superiori, con borse di studio che garantiscono fino ai 40 anni una vita comoda. Un contrasto acuto con i giovani dei settori popolari, gli indigeni e i neri che, quando escono dai loro quartieri, subiscono la violenza della polizia o dei narcos, il che ci indica che vivono in una situazione di acuta fragilità. Questo li porta, in certi momenti, a entrare nella criminalità organizzata, che garantisce loro una vita più comoda. Ma, soprattutto, gli fa accumulare rabbia, molta rabbia.
In Ecuador, i vecchi dirigenti comunitari erano sorpresi del fatto che i giovani si scontrassero con i gendarmi a mani nude, per pura ostilità, senza calcolarne le conseguenze. Sono riusciti a prendere centinaia di poliziotti che poi sono stati consegnati all’ONU o ad altre autorità, perché i dirigenti sono intervenuti affinché non venissero feriti. Fosse stato per i giovani, li avrebbero liquidati lì per lì, ai piedi delle barricate. Perché questa gioventù povera non ha esperienze di lotta organizzata e tende a togliersi la rabbia attaccando i nemici, cosa che può produrre autentici massacri. Però sono lì, pronti a superare ogni restrizione immaginabile: della famiglia e del quartiere, fino agli apparati repressivi e, naturalmente, delle organizzazioni di sinistra. Qui dobbiamo lavorare duro per organizzarli.
Il ruolo dell’ultradestra e il caso di Bolsonaro in Brasile
Dal momento in cui è andato al governo, Bolsonaro ha incontrato una serie di ostacoli che hanno mostrato un’enorme incapacità di governare. Si sono scatenate crisi nel suo stesso partito, tra il presidente e gli alleati, con gli imprenditori e i grandi produttori agricoltori. La vera ultradestra sono le forze armate, in particolare l’esercito, che gioca il ruolo di stabilizzatore del governo.
Credo che il grande problema del Brasile sia la tremenda insicurezza nella vita quotidiana che soffrono le fasce popolari, generalmente povere e nere. Questo le porta a cercar rifugio nelle chiese evangeliche e pentecostali, così come in figure che mostrano un’immagine di “sicurezza”, come Bolsonaro. Quel che dobbiamo chiederci è perché i settori popolari hanno abbandonato il Partito dei Lavoratori (PT) e si sono rivolti all’ultradestra.
La risposta semplicistica è che sono influenzati dai media. Una posizione che difendono gli accademici che si credono immuni dai media e che sottostimano le capacità popolari. La realtà è che la vita di chi vive nelle favelas è tremenda: precarietà nel lavoro, opprimente presenza della polizia militare, crimini e assassinii da parte dello Stato, salute ed educazione di pessima qualità, timore per i figli, che cadono vittime dei proiettili in percentuali allucinanti. Le madri temono per i loro figli e per il loro futuro. È un clima ideale per cadere in mano all’ultra-destra, in particolare tra i giovani maschi che si sentono spodestati dalla legittimazione nei loro rapporti di coppia.
In questo contesto, qual è il ruolo degli Stati Uniti?
La regione sta diventando lo scenario di una disputa per l’egemonia globale tra Stati Uniti e Cina. La penetrazione cinese si sta mostrando perfino peggiore di quella yankee. In Ecuador si costruiscono opere dell’infrastruttura, dighe idroelettriche, ad esempio, con schiavi cinesi che scontano le proprie condanne lavorando in condizioni forzate, con punizioni corporali incluse. Nessuno deve credere che il capitalismo e l’imperialismo cinese siano meno opprimenti e aggressivi di quelli yankee.
Il problema è che gli Stati Uniti hanno bisogno di riposizionarsi in América Latina per compensare la crescente debolezza in Africa, Asia e Medio Oriente. Una delle tendenze che vedremo nel futuro immediato è la distruzione degli Stati-Nazione, un processo che è già cominciato in Messico e nei paesi del Centro America. Da questa parte, dobbiamo aspettarci il peggio.
Fino a dove?
La principale caratteristica di questo periodo che segue il ciclo progressista è l’instabilità. Le destre non possono governare, come dimostrano Cile ed Ecuador. Però neanche i progressismi, come dimostrano Bolivia e Nicaragua. Attenzione, però, il problema non è questo o quel governo (il governo è sempre un problema), bensì il sistema. Queste rivolte non sono contro un presidente ma contro un modello di distruzione della natura e di controllo sociale di massa attuato attraverso le politiche sociali e la militarizzazione, due elementi che si integrano al fine di mantenere la popolazione soggiogata.
La risposta a quel “fino a dove” non può essere altra che l’organizzazione popolare in ogni territorio, per resistere e costruire i mondi nuovi. Mi piace parlare di arche, perché è necessario sopravvivere in modo collettivo al diluvio che viene. Desinformémonos può essere considerato come un’arca dell’inter-informazione de los abajo, come il meccanismo per collegare le nostre condotte, come direbbe Humberto Maturana. Cioè, un’informazione verso l’interno del campo popolare, o verso delle arche collettive, che è imprenscindibile per orientarci in un qualche senso di emancipazione, ma soprattutto per muover-ci in mezzo a una tormenta che non lascia vedere nulla, perché il diluvio è così forte che annebbia la vista.
A sostegno dei nuovi Centri di Resistenza Autonoma e Rebeldia Zapatista (CRAREZ)
“Qui siamo, siamo zapatisti. Perché ci vedessero ci siamo
coperti il volto, perché ci nominassero abbiamo negato il nostro nome.
Scommettiamo il presente per avere futuro e per vivere moriamo. Siamo
zapatisti, in maggioranza indigeni di stirpe maya. Non ci vendiamo, non
ci arrendiamo e non zoppichiamo.
Siamo ribellione e resistenza. Siamo una delle tante mazze che
romperanno i muri, uno dei tanti venti che spazzeranno la terra, e uno
dei tanti semi dai quali nasceranno altri mondi.
Siamo l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale.”
Comunicato EZLN - Abbiamo rotto l’accerchiamento - Agosto 2019
Nell’agosto 2019 gli zapatisti annunciano la nascita di nuovi Centri di Resistenza Autonoma e Rebeldia Zapatista (CRAREZ),
creando sette nuovi Caracoles, sedi delle Giunte di Buongoverno, e
quattro nuovi Municipi Autonomi, come risposta all’accerchiamento
militare portato avanti dalla Guardia Nazionale dispiegata in Chiapas
dal nuovo governo, pseudo progressista, di Andres Manuel Lopez Obrador, Per sostenere i nuovi Centri e l’autonomia zapatista abbiamo chiesto la collaborazione di artisti italiani nella raccolta fondi. Primo artista ad accogliere questo appello è stato Zerocalcare che ha donato un disegno dedicato agli zapatisti. I soldi ricavati con questa iniziativa andranno alle comunità indigene dell’EZLN in Chiapas, Messico.
SOSTENIAMO L’AUTONOMIA ZAPATISTA
Trovi: Taccuino tascabile – formato A6 – 96 fogli righe - 8 euro Quaderno – formato A5 – 240 fogli bianchi - 15 euro Tazza Mug – 330 ml – ceramica - 12 euro Presso: Associazione Ya Basta - Caminantes – Via Barbarigo 49 Padova tel. 049830969 mail padova@yabasta.it Cooperazione Rebelde Napoli – tel. 3357888115 - Napoli mail cooperazionerebeldenapoli@gmail.com Associazione Ya Basta Bologna - Centro sociale Tpo Via Casarini 17/4 Bologna mail yabasta.bologna@gmail.com Associazione Ya Basta Roma Moltitudia - per Roma Centro tel. 3464104107 - per Latina tel. 3394784890
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Quaderni e taccuini Zerocalcare
Dal 1994, quando apparvero sulla scena mondiale con un’insurrezione armata, gli zapatisti hanno costruito un inedito percorso di autogoverno ed autonomia.
Attraverso i Municipi Autonomi, le Giunte del Buongoverno le comunità
zapatiste amministrano in forma indipendente la vita sociale: salute,
educazione, produzione, giustizia, e comunicazione e tanto altro. Un cammino non facile, costruito giorno dopo giorno,
confrontandosi con mille contraddizioni e scontrandosi con i costanti
attacchi dei vari Governi messicani che si sono susseguiti: dall’uso
criminale dei gruppi paramilitari alla militarizzazione dell’intera
regione, accompagnata dalle false promesse racchiuse nei “programmi di
sviluppo” per gli indigeni. E’ un percorso che parte dal basso, coinvolgente, che oggi giovani ragazze e ragazzi, cresciuti negli anni dopo il 1994, nel pieno del processo di costruzione autonoma, continuano da protagonisti sulla strada aperta in quel ormai lontano 1 gennaio del 1994. Le donne sono sempre state in prima fila, cambiando
radicalmente le relazioni in un contesto in cui se è difficile essere
donna, lo è ancor di più se sei povera ed indigena. Raccontare quel che è cambiato in quelle lontane montagne del Sud Est messicano non è semplice, perché a vivere il cambiamento, come un processo continuo, sono migliaia di uomini e donne di ogni età. Appoggiamo e sosteniamo gli zapatisti, che non hanno mai
voluto essere un modello da imitare ma invece un’esperienza da
condividere con chi crede che un altro mondo sia possibile.
Tazze Zerocalcare per gli zapatisti
Iniziativa in collaborazione con Oblò APS, associazione impegnata a divulgare il linguaggio del fumetto. La prima parte dei fondi raccolti verranno consegnati a dicembre 2019 dalla delegazione che partirà dall’Italia per partecipare al secondo Incontro Internazionale delle donne che lottano e per visitare le comunità zapatiste.
C'è un episodio che racconta più di altri le proteste in Cile
e le sue cause. È la telefonata intercettata e apparsa sui media in cui
la primera dama Cecilia Morel si sfoga con un'amica per quelle
marce e le violenze, l'ostilità di tante gente che non si spiega, non
capisce. “È come se ci fosse una invasione di alieni”, dice con voce
rotta, e la frase pur nella tragedia degli eventi diventa meme, la
signora irrisa, eletta a simbolo dello scollamento tra chi governa il
Cile e la realtà. Alieni? Gente che scende in strada a protestare contro
il miserabile stipendio minimo di 301milapesos (425 dollari) e una
pensione media che si aggira intorno ai 260 dollari grazie alla legge
sulle Afp, le assicurazioni obbligatorie varate da Pinochet e appena
ritoccate dai governi democratici, che spremono il lavoratore e
arricchiscono le assicurazioni in cambio di pensioni risibili? Quelle
che in tutto il mondo avevamo salutato come un successo, salvo capire
dopo un po' che non funzionavano, che non si vive con quelle cifre?
Eppure, con quel discorso pieno di terrore Cecilia Morel esprime i
sentimenti della sua classe, quella distanza siderale che separa in Cile
un pugno di ricchissimi che fanno parte del governo o lo controllano e
il resto del paese. Lontani nei quartieri raffinati alle pendici delle
Ande, sospesi in atmosfere rarefatte e vagamente irreali che fanno
somigliare il mondo sotto a un formicaio di miserie umane e di fatica e
delinquenza, le élite cilene anziché seguire il passo del Paese lo hanno
fermato, mummificati in quell'idea obsoleta di sistema (ricchi e
poveri, bianchi e indigeni) contro cui la gente è scesa in piazza. “Non
sono mai stato nel Centro”, ammettono con tranquillità molti di loro. “È
troppo pericoloso, capitano certe cose”. Il Centro è il cuore della
città, quello in cui c'è la Moneda e alcune delle principali università,
uffici e palazzi delle istituzioni, non è pericoloso affatto ma è off
limits per le famiglie dai cognomi europei e bianche come latte, perché
ci sono troppi indigeni e meticci e insomma il popolo e una certa qual
piccola borghesia e negozi ordinari e ristoranti a poco prezzo che si
contendono i clienti a colpi di offerte su completos e
coca-cola. È dalla plaza Italia a cui le proteste di questi giorni hanno
dato fama internazionale e che divide in due la città che comincia il
Centro: andando verso l'alto si allunga Providencia e la città bene,
sempre più chic a mano a mano che si sale; dall'altra parte c'è il
Centro, che è più scaciato e popolare mentre avanzi verso la Moneda e
dopo che la superi.
Alameda, @Javier Godoy Fajardo
Nel Cile privatizzato da Pinochet e appena modificato dei governi
democratici, le differenze di classe sono drammatiche e l'ascensore
sociale ha perso credibilità. Tutto è privato, tutto costa e tanto,
istruzione e salute. Le scuole private sono carissime, quelle pubbliche
offrono una preparazione scarsa che non garantisce il punteggio minimo
necessario per accedere alle università, tutte a pagamento e che si
dividono in due gruppi: quelle sovvenzionate e statali in cui occorre
oltre alla retta anche il punteggio alto e quelle private a scopo di
lucro in cui basta pagare e che assicurano in genere una preparazione
scadente e un titolo che vale poco in cambio di rette per cui le
famiglie si indebitano. Per inciso: il costo di una università parte da
3.500 dollari all'anno, ma per quelle più prestigiose come la
Universidad Católica si arriva a mille dollari al mese.
Anche la salute è privata, curarsi costa molto e le due assicurazioni
di Isapre e Fonasa salassano i cileni. La divisione è fisica e
architettonica. Nei cosiddetti quartieri alti gli spazi sono dilatati, i
giardini immensi, i mall lussuosi e la Univerdidad de los Andes,
la più cara e la più esclusiva, appare all'improvviso alla fine della
salita di San Carlos de Apoquindo come una cittadina in mezzo al verde
in cui si aggirano studenti che sembrano svedesi per quanto sono chiari,
un segno di opulenza e classe. I quartieri bene si chiamano Lo Curro, La Dehesa, Lo Barnechea, sono i quartieri alti, il Barrio Alto mentre i cileni bene sono chiamati cuicos: i
discendenti ricchi degli europei che arrivarono qui a ondate nel corso
dei secoli, i baschi spagnoli ma anche i tedeschi e i francesi, gli
inglesi. Cuicos è la parola che ho sentito pronunciare più volte nei
miei tre anni cileni. A volte con disprezzo, spesso con invidia. Cuico
non si diventa, è un marchio di razza, ma è il sogno di molti meticci
avere un giorno il nipotino biondo perché quella tua figlia che
massacrandoti con tre lavori sei riuscito a mandare alla Catolica chissà
che non sposi un cuico e ti regali quel salto di classe e il nipotino
quasi bianco a furia di incroci, con gli occhi azzurri come alla Dehesa.
Per inciso, non tutti i bianchi sono cuicos ma un meticcio non può
naturalmente essere cuico, e ci sono cuicos di sinistra che però non
vivono in quei quartieri così in alto.
Alameda, @Javier Godoy Fajardo
Per molto tempo il sogno americano del salto di censo e classe è
stato un drive formidabile che ha motivato i cileni a qualunque
sacrificio, poi a mano a mano si è sgonfiato, e insomma molta gente ha
smesso di crederci. Quelle decine di carte di credito che assicurano
l'accesso alla spesa anche ai più poveri attraverso pagamenti
dilazionati all'infinito si è capito che sono una fregatura, insomma il
sistema ha deluso e mostrato la corda: a furia di comprare la gente si
indebita fino alla morte. “Quante rate?”, mi aveva chiesto la cassiera
di un centro commerciale di Santiago mentre le consegnavo la maglietta
da venti euro, il mio primo acquisto in Cile. Avevo pensato fosse una
battuta, e invece era normale pagare a quel modo, ero io strana con i
miei pesos in mano. Nel suo saggio di culto Cile actual. Anatomia de un mito,
il sociologo comunista Tomás Moulian spiega con arguzia come l'accesso
al credito abbia dato ai cileni un senso di identità, l'essere
“comprante” ha preso il posto dell'essere sociale, con un senso
politico.
di Alessandro Guida e Raffaele Nocera* I media cileni non hanno fatto in tempo a etichettarlo come il «18 de octubre negro»
che gli eventi dello scorso venerdì sono stati già superati dallo
tsunami dei giorni successivi. Di fronte a una rivolta sociale
sicuramente disorganica, almeno in una fase iniziale, ma non per questo
meno “rumorosa”, il governo ha in una prima fase tentato di
strumentalizzare le circostanze, criminalizzando i manifestanti, ma nel
giro di poco tempo ha perso completamente il controllo della situazione
e, a conferma di un’estrema debolezza, ne ha delegato la gestione ai
militari.
Si è così fatto ricorso dapprima alla Ley de Seguridad Interior del Estado,
emanata alla fine degli anni ‘50 e poi riformata in piena dittatura
civico-militare; poi si è dichiarato lo “stato di emergenza” per
disturbi all’ordine pubblico nella capitale e successivamente in altre
zone del paese.
A ciò ha fatto seguito il coprifuoco, misura che, alla
pari delle precedenti, non veniva adottata dai tempi del dittatore
Augusto Pinochet. Infine, in preda al panico, il presidente Sebastián
Piñera ha sospeso il provvedimento che aveva dato il la alle
manifestazioni di dissenso, ossia l’aumento del prezzo del biglietto
della metropolitana, vanto del paese e già tra le più care del
continente (e di tante altre capitali del mondo).
Azioni che, tuttavia,
non hanno fatto altro che provocare un’estensione e una radicalizzazione
della protesta. Le dichiarazioni del leader del centrodestra relative
alla presenza di un vero e proprio stato di guerra interna – che hanno
richiamato alla memoria quel passato dittatoriale in cui la necessità di
combattere il “nemico interno” venne addotta a giustificazione delle
più atroci violazioni dei diritti umani che il Cile abbia mai conosciuto
– hanno chiuso il cerchio, rappresentando l’ultimo atto di una
settimana piena di disastrosi errori politici alla Moneda.
In molti, fra gli osservatori, anche in Italia, si sono detti sorpresi
da questa “improvvisa” esplosione sociale e dalla successiva reazione
dello Stato, autoritaria e antidemocratica, che ha riportato i militari
nelle strade del paese dopo oltre trent’anni, causando un numero
imprecisato di morti (che le autorità stimano in 18 ma che secondo fonti
indipendenti sarebbero più del doppio), centinaia di feriti e migliaia
di arresti in pochi giorni. Per non parlare dei saccheggi e delle
devastazioni delle stazioni della metropolitana e di edifici pubblici e
privati.
Com’è possibile, si è affermato, che in quello che, da qualche
decennio a questa parte, viene presentato come l’esempio stesso di
transizione democratica perfettamente riuscita, possano accadere cose di
questo tipo? Del resto si tratta di un paese modello, stabile
politicamente e fra i più avanzati economicamente dell’America Latina,
si è detto e scritto.
E, se realmente è così che stanno le cose, da dove
viene questa “inattesa” esplosione di rabbia collettiva? Si tratta,
forse, del prodotto di qualche trama “sovversiva” internazionale, o
della destabilizzazione ordita dai “claudicanti” (e non numerosi)
governi della “sinistra radicale” latinoamericana, nei palazzi del
potere all’Avana o a Caracas, con la connivenza di frange estreme
locali?
In realtà, se si guarda agli ultimi decenni di storia cilena e, in modo
particolare, al modo in cui si è prodotto il lento, graduale e
incompiuto (ebbene sì, incompiuto) processo di transizione dai 17 anni
di feroce dittatura pinochetista alla democrazia, il quadro assume
contorni ben diversi e gli accadimenti odierni ci appaiono, non soltanto
meno sorprendenti, ma addirittura per certi versi prevedibili. La
visione “positiva” della transizione cilena che si è affermata nel corso
degli anni è stata favorita, infatti, soprattutto da fattori di
carattere macroeconomico.
I risultati a lungo termine di quella che
alcuni autori hanno definito la «rivoluzione capitalista del Cile»,
iniziata dalla dittatura a metà degli anni Settanta con la «politica di
shock» avviata dal regime su impulso dei Chicago boys, sono stati,
invero, indiscutibili: smantellamento del settore pubblico,
privatizzazioni, razionalizzazione industriale con conseguente mobilità
della forza lavoro, sostegno agli investimenti, svalutazione del peso
rispetto al dollaro per favorire le esportazioni, controllo da parte
della Banca centrale dei tassi d’interesse e così via, avevano permesso
al regime autoritario cileno di consegnare alle forze democratiche un
paese con i conti sostanzialmente in regola.
Non a caso, fra il 1990 e
il 2009, il Prodotto Interno Lordo cileno crebbe mediamente ad un ritmo
del 5%, i salari reali lievitarono a loro volta in maniera vigorosa,
così come aumentò vertiginosamente il volume delle esportazioni
(addirittura del 102% solo fra il 1990 ed il 1997). In breve, il Cile
venne presentato come la manifestazione concreta della possibilità di
coniugare, e con successo, democrazia e libero mercato.
Non è un caso
se, nel corso degli anni Novanta, si giunse a parlare di «modello cileno
di sviluppo», del Cile come un esempio, come un possibile riferimento
per i paesi della regione e anche per le nazioni appartenenti ad altre
“periferie” del pianeta .
A questa sostenuta crescita economica, senza
precedenti nella storia nazionale, che avrebbe portato alla definizione
del paese in questione in termini di «giaguaro dell’America Latina»,
corrispose, peraltro, in quegli anni, un notevole attivismo sul piano
internazionale, finalizzato a rompere l’isolamento politico ed economico
in cui era stato confinato il vecchio regime per i crimini commessi e a
proiettare all’esterno una nuova immagine del paese.
Basti ricordare
che, già alla metà degli anni Novanta, il Cile entrò a far parte
dell’Asia-pacific economic cooperation, per poi aderire, poco dopo, all'Organizzazione mondiale del commercio; praticamente nello stesso
periodo iniziò a partecipare attivamente ai lavori delle Nazioni Unite.
Nondimeno, il Cile è stato il secondo paese latinoamericano, dopo il
Messico (ma il primo dell’America meridionale) a firmare un Accordo di
Associazione Economica con l’Unione Europea (entrato in vigore nel
2003), nonché la prima nazione occidentale a siglare un trattato di
libero commercio con la Cina (2005), con accordi analoghi anche con
Canada, Messico, Stati Uniti, Corea del Sud.
In realtà, ad analisi un po’ più attente e, se vogliamo,
“disinteressate”, sono emerse tutte le profonde contraddizioni di questa
transición pactada, e, più in generale, dell’evoluzione del
processo politico ed economico cileno post-dittatoriale.
Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.