lunedì 27 aprile 2009

Messico - Un fine settimana tra paure e incertezze

Inizia con brevi agenzie di stampa, intorno a venerdì 23 aprile, a circolare in tutto il paese la notizia che dietro la morte di una ventina di persone ci sarebbe qualcosa di strano. Le prime dichiarazioni ufficiali si affrettano a minimizzare la notizia affermando che non si può parlare di una epidemia.
Alla fine della giornata le agenzie di stampa battono la notizia della decisione, come mezzo preventivo di fronte all’epidemia di influenza, del Governo Federale di sospendere le attività scolastiche in tutta l’area urbana dello stato del Messico.
Di fronte all’alternarsi di rassicurazioni e preoccupazioni, accompagnate da una generale disinformazione puntuale, giustamente i messicani iniziano a domandarsi qual sia l’entità e la gravità della situazione. Vai all’editoriale della Jornada
Nel fine settimana le notizie si accavallano. Dopo vari tentennamenti le autorità riconoscono che è in corso un epidemia di influenza nella quale si identifica un nuovo virus proveniente dai maiali ma ora in grado di passare il contagio tra uomo e uomo.
Le autorità confermano il crescere del numero dei morti e parlano della necessità di imporre lo “stato d’emergenza” per 10 giorni.
L’allarme si sposta con la dichiarazione dell’Organizzazione della sanità a livello internazionale. Mentre la popolazione si chiude in casa il Governo vara una seri di misure che danno alla Ssa (Secretaría de Salud ) delle facoltà straordinarie che includono la facoltà di isolare persone infette o presunti portatori, di entrare in ogni tipo di locale o abitazione on il fine di controllare l’epidemia e di ispezionare i potenziali portatori del virus. Vedi le misure del governo
Il modo nel quale il Governo Calderon tratta tutta la vicenda non convince. Iniziano ad essere sempre maggiori le domande di chiarezza e trasparenza sulla situazione come si evidenzia nell’editoriale della Jornada di domenica 26 aprile.
Dopo un fine settimana di paura e apprensione il Messico si appresta ad iniziare la nuova settimana con più dubbi e domande che non certezze sulla nuova emergenza che tocca un paese già devastato dalla crisi economica, dove conflitti e contraddizioni sociali si fanno sempre più evidenti ed in cui la militarizzazione dell’intera società dentro la dimensione della cosiddetta “guerra al narcotraffico” è sempre più pesante.
Vedi gli aggiornamenti in tempo reale in La Jornada

domenica 26 aprile 2009

Bil’in, Cisgiordania - Un normale venerdì di resistenza, al di qua del muro

E’ venerdì a Bil’in. E come ogni venerdì gli abitanti del villaggio partono in corteo verso il muro costruito da Israele. Oggi sono più di duecento tra palestinesi, israeliani e internazionali a spingersi con passo deciso contro quella barriera. E’ passata solo una settimana, infatti, dalla uccisione del trentunenne Basem Abu Rahme. Venerdì scorso, appunto, durante una manifestazione analoga, per mano dell’esercito israeliano. E’ importante oggi essere in tanti. In memoria di Basem. E’ un corteo non violento. Per meglio dire è un corteo contro la violenza dell’esercito israeliano.
Parte immediata una pioggia di lacrimogeni. Saranno quindici alla fine di questa lunga giornata le persone ferite: alcune hanno perso conoscenza per i gas. Altre sono state colpite dai candelotti.
L’esercito israeliano fa sfoggio in queste occasioni di armi non convenzionali: oggi ha sperimentato una sorta di sirena assordante, come una bomba acustica che infastidisce da far male. Poi, ad un certo punto il lancio di una vera e propria pioggia di lacrimogeni: vengono sparati in aria contemporaneamente ottanta candelotti che circondano tutti i manifestanti.
Un giovane palestinese viene arrestato. Restano tutti lì davanti all’esercito. Le donne in prima fila e non arretrano di un passo fino al suo rilascio. Un corteo lunghissimo oggi, interminabile, estenuante e duro.
E’ un venerdì qualunque nei villaggi attorno a Ramallah, da oltre quattro anni.

Alcune riflessioni con Riccardo Carraro, Servizio Civile Internazionale, che si trova a Bil’in in questi giorni a conclusione della manifestazione venerdì 24 aprile.
- [ audio ]


Link
http://www.bilin-village.org/italiano/

sabato 25 aprile 2009

Francia - Conflitti sociali verso il 1° maggio

Continental, Caterpillar, Molex saranno in prima fila nel corteo del primo maggio, una giornata che ha perso ogni connotazione simbolica e che ripropone con forza la questione della crisi e del lavoro sul tavolo del governo, dei padroni dell’industria e delle imprese, ma anche su quello della confederazione sindacale. Il conflitto in queste tre fabbriche ha mobilitato l’insieme del ’cartello’ sindacale, gli otto sindacati che avevano previsto una primavera "movimentata" alla luce della serie di vertenze in corso nel mondo del lavoro salariato.
Le mobilitazioni dei lavoratori, in particolare quella della fabbrica di pneumatici Continental, hanno costretto i rappresentanti sindacali a dialogare diversamente, posti di fronte all’attacco della prefettura di Compiègne, al sequestro dei dirigenti delle multinazionali Sony e Conforama, alle occupazioni intermittenti o permanenti dei siti di produzione, hanno dovuto fare una revisione del "dialogo sociale" proposto dal governo Sarkozy. Il primo ministro ha lodato il "senso di responsabilità" dimostrato dai sindacati che si sono ritrovati a fare da ammortizzatori del conflitto sociale in un clima rovente e teso.
Ma i sindacati però sono consapevoli che in tempo di crisi patologica dell’economia mondiale non possono conservare il ruolo di mediatori all’infinito; dai sequestri in poi, si sono interposti tra i dirigenti e la ’loro’ base esasperata che, prima di chiudere il rappresentante-capo dell’impresa e gettare via la chiave, ha sempre voluto fare i conti con i propri rappresentanti.
Prima, le mediazioni erano gestite tradizionalmente con i ricorsi amministrativi presentati dai comitati d’impresa e vari tentativi di soluzione vertenziali ma ora, da qualche mese, di fronte all’intransigenza dei padroni, il sindacato si volge verso la ’sua’ base in cerca di vie di uscita. Come questo avviene è di dominio pubblico attraverso la cronaca più che attraverso la pagina economica ma questo vuole anche dire che di fronte ad una forma di autonomia sempre più marcata dei lavoratori salariati, il ruolo di rappresentanza è un ruolo difficile, come è accaduto a Grenoble dove l’assemblea generale dei lavoratori ha rimesso in causa l’accordo concluso a Parigi dai sindacati con la direzione di Caterpillar.
Un sindacalista della CGT (Confédération Générale du Travail) rappresentante dei lavoratori di Continental che hanno dato l’assalto alla prefettura, dice che "dopo cinque settimane, non ce l’ha più fatta a frenarli".
Altri sindacalisti, in particolare quelli del settore siderurgico che produce licenziamenti a catena, sottolinea l’aspetto umano e la dimensione di vita stravolta delle persone "che non hanno più niente", che hanno perso il lavoro. Quasi all’unisono, esprimono il disagio del lavoro di sindacalista che oggi consiste esclusivamente nell’evitare il peggio: le azioni ora sono interventi per "capire, canalizzare, calmare, sfinirsi a cercare soluzioni" per il grande corpo malato, il mondo del lavoro. Le imprese tentano invece di usare la via giudiziaria per rompere il rapporto tra sindacati e lavoratori come è accaduto con Continental e Caterpillar dove la direzione a confronto diretto con radicalità del conflitto ha denunciato i rappresentanti sindacali per rivendicare la legittimità delle dicisioni adottate dall’impresa. E si chiama a rapporto lo Stato che viene interpellato dagli imprenditori per "favorire la mediazione" ad incremento degli investimenti. Convinti che "le violenze e le occupazioni" compromettano il futuro del mercato più che la chiusura stessa delle aziende, i dirigenti si appellano a prefetti e ministri, i quali rispondono assicurando che identificheranno "la piccola minoranza di provocatori", trecento lavoratori "individuati" che saranno denunciati per devastazione e saccheggio.
Gli stessi rappresentati sindacali di Continental di fronte alla riduzione massiccia dei posti di lavoro e alla destabilizzazione generalizzata del settore industriale si rivolgono a giovani e vecchie generazioni di lavoratori dichiarando apertamente la fine di un ciclo e dei meccanismi che hanno permesso di gestire la crisi sociale che questo ciclo ha prodotto, come il lavoro interinale, i contratti a termine e la disoccupazione parcellizzata.
Oggi, operai francesi e tedeschi minacciati di licenziamento manifestano insieme ad Hannover, sede dell’impresa e dell’appuntamento degli azionisti di Continental.

Marina Nebbiolo

venerdì 24 aprile 2009

La memoria contro il muro - Naalin, prove di convivenza e resistenza

Un museo dell’Olocausto inaugurato in uno dei villaggi simbolo della lotta non violenta contro l’occupazione. I palestinesi riflettono sulle sofferenze passate del «nemico» e aspettano che gli israeliani facciano altrettanto.
Naalin era un nome sconosciuto al resto del mondo. Poi, circa un anno fa, questo villaggio palestinese a venti chilometri da Ramallah, a ridosso della Linea verde tra la Cisgiordania e Israele, fece la sua improvvisa apparizione sulle pagine dei giornali. I suoi 4.700 abitanti, assieme ad attivisti internazionali e ad alcune decine di anarchici israeliani, iniziarono una campagna di manifestazioni non violente per fermare la costruzione del muro di separazione sulle loro terre. Una battaglia simile a quella del non lontano villaggio di Bilin dove ieri si è aperta la Conferenza annuale sulla resistenza popolare e pacifica. Martedì Naalin è tornato a far titolo, quando, in occasione delle commemorazioni per la giornata della memoria dell’Olocausto, il sindaco Ayman Nafaa ha inaugurato il primo museo della Shoah nei Territori occupati, in un edificio a poche decine di metri dalla casa dove un tempo viveva Ahmad Musa, 10 anni, ucciso dai colpi sparati dall’esercito israeliano durante una manifestazione di protesta contro il muro. Stessa sorte toccata a un altro bambino di Naalin, Yusef Amira, 11 anni. «Più precisamente si tratta di una mostra di fotografie dell’Olocausto che rimarrà aperta per qualche mese, non sappiamo ancora se diventerà un museo vero e proprio», ci spiega Hassan Musa, uno dei promotori del progetto e zio di Ahmad Musa. Le foto, con didascalie in lingua araba, mostrano campi di concentramento, corpi ammassati, volti di bambini paralizzati dalla paura, adulti seminudi o con le uniformi con la stella gialla imposta dai nazisti agli ebrei. Sui tavoli sono disponibili libri e documenti sull’Olocausto. Ma non mancano anche immagini dell’occupazione israeliana, delle confische delle terre palestinesi, di giovani arrestati, della gente di Naalin impegnata nella sua lotta contro il muro. «Non abbiamo voluto mettere sullo stesso piano l’occupazione (israeliana) e la Shoah ma esprimere la nostra condanna di qualsiasi forma di brutale aggressione all’essere umano - aggiunge Hassan Musa -. Penso che sia importante che gli abitanti di Naalin e tutti i palestinesi conoscano cosa è accaduto al popolo ebraico durante il nazismo, così come è importante che gli israeliani comprendano che non possono negarci i nostri diritti e continuare a occupare la nostra terra». L’esibizione non è affollata ma non mancano i visitatori, in maggioranza giovani. Alcuni, oltre a guardare le foto, leggono con attenzione i documenti disponibili. «Con questa mostra - conclude Musa - Naalin si rivolge anche al resto del mondo e chiede: fino a quando i palestinesi dovranno attendere per realizzare i loro diritti? Abbiamo sofferto abbastanza». Jonatan Pollack, uno dei leader dei «Anarchici contro il muro» e tra gli israeliani più presenti alla battaglia di Naalin contro la barriera, considera la mostra «una scelta molto coraggiosa». «Questo villaggio - dice - soffre l’ingiustizia israeliana, si è visto confiscare 270 ettari di terre coltivabili che finiranno alle colonie ebraiche circostanti, verrà circondato da tre lati, i suoi abitanti verranno costantemente controllati da un posto di blocco militare e non dimentichiamo che Naalin ha avuto due bambini uccisi e un giovane (Ashraf Abu Rahma) ferito a sangue freddo ad una gamba da un poliziotto israeliano». «Eppure - prosegue Pollack - la gente di Naalin dimostra un’eccezionale capacità di voler comprendere la sofferenza subita in passato dal popolo che oggi manda i bulldozer ad occupare le sue terre e a costruire il muro. Naalin sta dicendo agli israeliani: smettetela con la repressione e l’occupazione, la memoria dell’Olocausto serve per lottare affinché la giustizia prevalga ovunque, a favore di tutti, nessuno escluso». L’avvocato Khaled Mahamid, un palestinese con cittadinanza israeliana residente a Umm al Fahem (Galilea) - dove qualche settimana fa si è svolta una marcia di un centinaio di coloni ed estremisti di destra che ha causato tafferugli e diversi feriti - è stato il principale promotore della mostra sull’Olocausto a Naalin. Quattro anni fa divenne noto per aver aperto un museo della Shoah nella sua città. Mahamid è convinto che una maggiore comprensione del significato della Shoah può contribuire ad avvicinare le due parti, così come una maggiore consapevolezza da parte degli israeliani della Nakba (Catastrofe) - il termine con cui i palestinesi indicano la perdita della loro terra nel 1948 e l’inizio dell’esilio per circa 800mila uomini, donne e bambini, fuggiti o cacciati dagli israeliani (oggi i profughi sono quasi quattro milioni e continuano a vedersi negato il diritto al ritorno sancito da una risoluzione dell’Onu, la 194) - favorirebbe il raggiungimento della pace tra i due popoli. «Nei mesi scorsi ho incontrato il sindaco di Naalin, gli ho parlato dell’Olocausto e gli ho spiegato il trauma profondo che ogni ebreo si porta dentro da quando i nazisti hanno attuato lo sterminio - ha raccontato Mahamid al sito israeliano Ynet - Il sindaco non sapeva che sei milioni di ebrei sono morti nell’Olocausto e ha chiesto spiegazioni. Subito dopo ad entrambi è venuta l’idea di aprire un museo della Shoah nel villaggio». Ad aiutare l’avvocato di Umm el Fahem è stata la direzione del memoriale dell’Olocausto «Yad Vashem» di Gerusalemme che ha messo a disposizione foto e materiali in lingua araba. La mostra sulla Shoah tuttavia lascia perplessa una parte consistente degli abitanti di Naalin, ai quali l’iniziativa appare una sorta di «concessione» agli israeliani, destinata a non produrre risultati apprezzabili sul terreno mentre le politiche dell’occupazione proseguono e tante abitanti hanno perduto il lavoro e i mezzi per sostenere le proprie famiglie a causa della confisca dei terreni coltivabili. «Non sono contrario all’approfondimento dell’Olocausto da parte palestinese ma mi domando se tutto ciò favorirà davvero la comprensione tra i due popoli e, soprattutto, aiuterà a porre fine all’occupazione israeliana della nostra terra», spiega Hindi Mesleh, uno dei leader della lotta non violenta contro il muro. «C’è anche una questione di principio da tenere presente - aggiunge - la nostra indipendenza, il nostro diritto ad essere liberi, non possono essere collegati ad un riconoscimento palestinese dell’Olocausto che peraltro c’è, già esiste. Sono questioni nettamente distinte. I palestinesi non devono ignorare la Shoah ma, non dimentichiamolo, gli europei hanno storicamente perseguitato il popolo ebraico e i nazisti tedeschi hanno sterminato sei milioni di ebrei». Jonatan Pollack da parte sua lancia un messaggio alla popolazione israeliana che definisce «in gran parte cieca e sorda alla condizione palestinese». «Cogliamo il magnifico esempio di Naalin e - propone - studiamo la Nakba, dobbiamo capire, finalmente, che cosa ha significato per i palestinesi il 1948. E soprattutto mettiamo fine all’ingiustizia e all’occupazione». La gente di Naalin intanto attende un «primo segnale» dalla Corte Suprema israeliana alla quale ha chiesto - attraverso l’organizzazione per i diritti umani Yesh Din - di ordinare la restituzione di 13 ettari di terra del villaggio, dichiarati area chiusa dell’esercito all’inizio della seconda Intifada (2000) e trasformati in un parco dai coloni di Modiin Illit.
Michele Giorgio

Cisgiordania, Naalin - Incontro con il Comitato Direttivo

Siamo arrivati a Naalin, a pochi chilometri da Ramallah. Da quattro anni a questa parte gli abitanti del villaggio stanno portando avanti la loro battaglia contro il muro costruito dal governo israeliano. Una battaglia che di venerdì in venerdì ha costruito una eco straordinaria facendo di questo e degli altri villaggi vicini un simbolo della resistenza contro l’occupazione e la repressione israeliana.
Vi proponiamo alcune delle riflessioni emerse durante l’incontro.

Che fase si sta vivendo a Naalin?
E’ una fase molto difficile per Naalin perchè qui non ci stiamo opponendo solo all’occupazione ma anche al muro. Siamo contrari all’occupazione per svariati motivi. Naalin è una città industriale, ci sono cinque fabbriche di succhi di frutta, della CocaCola e di raffinazione del petrolio che lavorano per tutta la West Bank e una volta che la città verrà completamente circondata dal muro e verrà costruito il tunnel d’accesso queste fabbriche non potranno più operare e i proprietari le chiuderanno. Questo è evidentemente un meccanismo di punizione della popolazione che va ben al di là del fatto fisico del muro e che comporta un’altra serie di ricadute sociali ed economiche che toccano la vita di ogni palestinese. Questa punizione è la risposta alla resistenza della città di Naalin alla costruzione del muro.

Cosa rende Naalin così forte, così particolare nella sua resistenza?
Tutti al mondo sanno dell’esistenza di una forte divisione fra Fatah e Hamas, ma qui a Naalin il Comitato Direttivo è composto da quattro partiti (Hamas, Fatah, Fronte Popolare e ....) e tutti condividono la stessa strategia di opposizione all’occupazione e alla costruzione del muro. Sappiamo tutti quale è la strategia di Hamas - la lotta armata - , e allo stesso modo conosciamo quella di Fatah - i negoziati -, ma qui a Nilin la strategia è comune ed è quella di proseguire con le mobilitazioni e con le proteste di tipo non-violento. Tutti qui a Naalin utilizzano la parola non-violenza, e condividono il ragionamento che sta dietro questo concetto all’interno del Comitato Direttivo.

Qual è la situazione delle proteste, quali le ricadute sulla popolazione e sulla libertà?
Negli ultimi nove mesi gli Israeliani hanno ucciso quattro bambini e ferito seicento persone. Hanno arrestato sessantatre persone, tutti adolescenti. La strategia è quella di punire non solo gli arrestati ma tutta la loro famiglia. Infatti per chiunque venga arrestato - o anche ucciso - la famiglia è costretta a pagare una cauzione, o nel secondo caso una multa. Per il rilascio di una persona si arriva a dover pagare fino a 12.000 scechel (più di 2500 euro) e all’intera famiglia viene in seguito negato l’ingresso in Israele. La repressione non colpisce solo gli abitanti di Naalin ma tutte le persone che si uniscono alle manifestazioni. Negli ultimi mesi sono stati feriti e arrestati molti israeliani e internazionali che hanno partecipato alle manifestazioni contro il muro che si svolgono ogni venerdì. Un italiano e un gruppo di francesi sono stati arrestai ed espulsi dal paese. Un ragazzo con passaporto americano/israeliano è stato per dieci giorni a Naalin partecipando alle manifestazioni. Alla fine di una di queste, quando il corteo si era già sciolto, i soldati israeliani sono entrati nel paese sparando lacrimogeni e lui è stato colpito in testa. Un attivista canadese è stato espulso per dieci anni dal paese.

In questo periodo segnato da una repressione forte e da atti - come quello dell’attacco a Gaza di inizio anno - di profonda violenza che ragionamento è in atto rispetto alla pratica non-violenta?
In questo momento è difficile mantenere come unica strategia quella della non-violenza, soprattutto per la repressione che c’è stata. Sicuramente Mustapha Barghouti è una delle personalità che sta sostenendo questa tipologia di opposizione, favorendo il fatto che questa diventi comune a tutti i territori palestinesi. E’ evidenti che ancora di più in questo momento è importante la presenza di internazionali a Naalin. Tale presenza da forza agli studenti, alle donne e a tutti gli abitanti del paese facendo capire a loro che quello che stanno facendo ha significato e ha la possibilità di essere comunicato a tutta la comunità internazionale. Questo per permettere di rendere ancora più chiara a tutti la strategia di Israele e la situazione in cui devono vivere le popolazioni palestinesi.

In che maniera i quattro partiti della coalizione partecipano alla manifestazione?
Alle manifestazioni di Naalin non ci sono bandiere di partito ma solo bandiere palestinesi. Il modello della resistenza di Naalin è quello che mette al centro l’essere palestinesi, e non è proprio questo il momento per ognuno di portare il proprio simbolo d’appartenenza. E’ infatti questo lo strumento che Israele continua ad usare, quello del dividere e mettere in contrapposizione le varie parti del popolo palestinese. Qui questo non succede.

Questo è l’unico esempio di unità delle varie parti nella resistenza Palestinese? Per quale motivo?
Per il popolo palestinese sono importanti gli esempi che i leader politici riescono a dare. Per quanto riguarda i partiti la difficoltà più grande è quella di riuscire a cambiare dall’interno. La cosa importante in questo momento è che ci siano nuovi leader, che siano i giovani ad assumere una strategia comune che porti ad una resistenza comune del popolo palestinese. Coloro che sono i leader dei partiti non devono più limitarsi a parlare per le persone, ma devono essere quelli che nelle manifestazioni, nelle attività proposte stanno davanti a tutti. Non si può più pensare che i leader si presentino solo nel momento di un intervento e poi stiano in mezzo ad una manifestazione, ma spetta a loro guidare la manifestazione. Naalin non è l’unica realtà nella quale si vive quest’unità nella resistenza. Situazioni di questo tipo stanno crescendo anche a Betlemme, Yayyus e altri villaggi. La resistenza di Naalin è inoltre in rete anche con altri paesi: Iran, Giordania, Siria, Libano. Con queste realtà si sta cercando di condividere la strategia comune che qui in Palestina si sta sperimentando.
Il comitato direttivo di Naalin parteciperà tra alcune settimane ad una conferenza organizzata nella città di Bil’in nel quale si proporrà la costituzione di un fronte comune all’interno della West Bank. Una delle proposte che stanno prendendo corpo è quella di organizzare manifestazioni comuni nei vari centri che si svolgano contemporaneamente in ognuno di questi luoghi. E’ importante in questa maniera far crescere una rete di mobilitazione sempre più ampia che sappia muoversi in maniera sinergica. In questo momento sono 12 i paesi in rete che stanno costruendo questo percorso comune di iniziative e manifestazioni e l’obiettivo è quello di raggiungere presto il numero di 20.

In Italia c’è stato negli ultimi anni una grossa discussione sul termine non-violenza. In Palestina che termini assume questa discussione?
Per noi non-violenza significa la conquista di una buona vita, di una vita dignitosa. La non-violenza è una pratica che sta all’interno di una vita che è degna di essere vissuta. Poi la questione della non-violenza si lega a ciò che stiamo contrastando. Da una parte l’occupazione, da una parte il muro e dall’altra anche la necessità di risolvere questioni legate alla politica e alla prospettiva di questa terra. Quindi i problemi dell’industria, dell’agricoltura, della scuola. Questi sono tutti aspetti da condividere assieme a tutta la popolazione. Solo condividendo tutto questo c’è la possibilità di trovare un linguaggio comune, che vada oltre i singoli modi di intendere la situazione. Un linguaggio che vada oltre l’islamizzazione della questione palestinese. Abbiamo capito che non si può modificare la situazione dell’occupazione solo con l’utilizzo delle armi e con il lancio delle pietre, ma ogni volta che ci muoviamo dobbiamo essere in grado di dare un segnale forte alla comunità internazionale.

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!