Un museo dell’Olocausto inaugurato in uno dei villaggi simbolo della lotta non violenta contro l’occupazione. I palestinesi riflettono sulle sofferenze passate del «nemico» e aspettano che gli israeliani facciano altrettanto.
Naalin era un nome sconosciuto al resto del mondo. Poi, circa un anno fa, questo villaggio palestinese a venti chilometri da Ramallah, a ridosso della Linea verde tra la Cisgiordania e Israele, fece la sua improvvisa apparizione sulle pagine dei giornali. I suoi 4.700 abitanti, assieme ad attivisti internazionali e ad alcune decine di anarchici israeliani, iniziarono una campagna di manifestazioni non violente per fermare la costruzione del muro di separazione sulle loro terre. Una battaglia simile a quella del non lontano villaggio di Bilin dove ieri si è aperta la Conferenza annuale sulla resistenza popolare e pacifica. Martedì Naalin è tornato a far titolo, quando, in occasione delle commemorazioni per la giornata della memoria dell’Olocausto, il sindaco Ayman Nafaa ha inaugurato il primo museo della Shoah nei Territori occupati, in un edificio a poche decine di metri dalla casa dove un tempo viveva Ahmad Musa, 10 anni, ucciso dai colpi sparati dall’esercito israeliano durante una manifestazione di protesta contro il muro. Stessa sorte toccata a un altro bambino di Naalin, Yusef Amira, 11 anni. «Più precisamente si tratta di una mostra di fotografie dell’Olocausto che rimarrà aperta per qualche mese, non sappiamo ancora se diventerà un museo vero e proprio», ci spiega Hassan Musa, uno dei promotori del progetto e zio di Ahmad Musa. Le foto, con didascalie in lingua araba, mostrano campi di concentramento, corpi ammassati, volti di bambini paralizzati dalla paura, adulti seminudi o con le uniformi con la stella gialla imposta dai nazisti agli ebrei. Sui tavoli sono disponibili libri e documenti sull’Olocausto. Ma non mancano anche immagini dell’occupazione israeliana, delle confische delle terre palestinesi, di giovani arrestati, della gente di Naalin impegnata nella sua lotta contro il muro. «Non abbiamo voluto mettere sullo stesso piano l’occupazione (israeliana) e la Shoah ma esprimere la nostra condanna di qualsiasi forma di brutale aggressione all’essere umano - aggiunge Hassan Musa -. Penso che sia importante che gli abitanti di Naalin e tutti i palestinesi conoscano cosa è accaduto al popolo ebraico durante il nazismo, così come è importante che gli israeliani comprendano che non possono negarci i nostri diritti e continuare a occupare la nostra terra». L’esibizione non è affollata ma non mancano i visitatori, in maggioranza giovani. Alcuni, oltre a guardare le foto, leggono con attenzione i documenti disponibili. «Con questa mostra - conclude Musa - Naalin si rivolge anche al resto del mondo e chiede: fino a quando i palestinesi dovranno attendere per realizzare i loro diritti? Abbiamo sofferto abbastanza». Jonatan Pollack, uno dei leader dei «Anarchici contro il muro» e tra gli israeliani più presenti alla battaglia di Naalin contro la barriera, considera la mostra «una scelta molto coraggiosa». «Questo villaggio - dice - soffre l’ingiustizia israeliana, si è visto confiscare 270 ettari di terre coltivabili che finiranno alle colonie ebraiche circostanti, verrà circondato da tre lati, i suoi abitanti verranno costantemente controllati da un posto di blocco militare e non dimentichiamo che Naalin ha avuto due bambini uccisi e un giovane (Ashraf Abu Rahma) ferito a sangue freddo ad una gamba da un poliziotto israeliano». «Eppure - prosegue Pollack - la gente di Naalin dimostra un’eccezionale capacità di voler comprendere la sofferenza subita in passato dal popolo che oggi manda i bulldozer ad occupare le sue terre e a costruire il muro. Naalin sta dicendo agli israeliani: smettetela con la repressione e l’occupazione, la memoria dell’Olocausto serve per lottare affinché la giustizia prevalga ovunque, a favore di tutti, nessuno escluso». L’avvocato Khaled Mahamid, un palestinese con cittadinanza israeliana residente a Umm al Fahem (Galilea) - dove qualche settimana fa si è svolta una marcia di un centinaio di coloni ed estremisti di destra che ha causato tafferugli e diversi feriti - è stato il principale promotore della mostra sull’Olocausto a Naalin. Quattro anni fa divenne noto per aver aperto un museo della Shoah nella sua città. Mahamid è convinto che una maggiore comprensione del significato della Shoah può contribuire ad avvicinare le due parti, così come una maggiore consapevolezza da parte degli israeliani della Nakba (Catastrofe) - il termine con cui i palestinesi indicano la perdita della loro terra nel 1948 e l’inizio dell’esilio per circa 800mila uomini, donne e bambini, fuggiti o cacciati dagli israeliani (oggi i profughi sono quasi quattro milioni e continuano a vedersi negato il diritto al ritorno sancito da una risoluzione dell’Onu, la 194) - favorirebbe il raggiungimento della pace tra i due popoli. «Nei mesi scorsi ho incontrato il sindaco di Naalin, gli ho parlato dell’Olocausto e gli ho spiegato il trauma profondo che ogni ebreo si porta dentro da quando i nazisti hanno attuato lo sterminio - ha raccontato Mahamid al sito israeliano Ynet - Il sindaco non sapeva che sei milioni di ebrei sono morti nell’Olocausto e ha chiesto spiegazioni. Subito dopo ad entrambi è venuta l’idea di aprire un museo della Shoah nel villaggio». Ad aiutare l’avvocato di Umm el Fahem è stata la direzione del memoriale dell’Olocausto «Yad Vashem» di Gerusalemme che ha messo a disposizione foto e materiali in lingua araba. La mostra sulla Shoah tuttavia lascia perplessa una parte consistente degli abitanti di Naalin, ai quali l’iniziativa appare una sorta di «concessione» agli israeliani, destinata a non produrre risultati apprezzabili sul terreno mentre le politiche dell’occupazione proseguono e tante abitanti hanno perduto il lavoro e i mezzi per sostenere le proprie famiglie a causa della confisca dei terreni coltivabili. «Non sono contrario all’approfondimento dell’Olocausto da parte palestinese ma mi domando se tutto ciò favorirà davvero la comprensione tra i due popoli e, soprattutto, aiuterà a porre fine all’occupazione israeliana della nostra terra», spiega Hindi Mesleh, uno dei leader della lotta non violenta contro il muro. «C’è anche una questione di principio da tenere presente - aggiunge - la nostra indipendenza, il nostro diritto ad essere liberi, non possono essere collegati ad un riconoscimento palestinese dell’Olocausto che peraltro c’è, già esiste. Sono questioni nettamente distinte. I palestinesi non devono ignorare la Shoah ma, non dimentichiamolo, gli europei hanno storicamente perseguitato il popolo ebraico e i nazisti tedeschi hanno sterminato sei milioni di ebrei». Jonatan Pollack da parte sua lancia un messaggio alla popolazione israeliana che definisce «in gran parte cieca e sorda alla condizione palestinese». «Cogliamo il magnifico esempio di Naalin e - propone - studiamo la Nakba, dobbiamo capire, finalmente, che cosa ha significato per i palestinesi il 1948. E soprattutto mettiamo fine all’ingiustizia e all’occupazione». La gente di Naalin intanto attende un «primo segnale» dalla Corte Suprema israeliana alla quale ha chiesto - attraverso l’organizzazione per i diritti umani Yesh Din - di ordinare la restituzione di 13 ettari di terra del villaggio, dichiarati area chiusa dell’esercito all’inizio della seconda Intifada (2000) e trasformati in un parco dai coloni di Modiin Illit.
Michele Giorgio
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BOICOTTA TURCHIA
Viva EZLN
Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.
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