Non capita tutti i giorni di entrare in uno stadio e vedere bandiere palestinesi che sventolano assieme a quelle italiane. Né di ricevere accoglienza trionfale dalla tifoseria avversaria. Né tanto meno cantare l’inno di Mameli con il pugno alzato. Questo è lo scenario in cui si sono trovati domenica 5 aprile i 187 italiani e italiane della carovana del progetto Sport sotto l’assedio, che è in Palestina dal 4 aprile per continuare il "percorso di pace con il pallone nel cuore", come recita il motto della campagna, nata nel 2004 grazie alla mobilitazione di alcune tifoserie calcistiche e associazioni sportive italiane.
Allo stadio di Ar Ram (tra Ramallah e Gerusalemme), al campo di gioco della Nazionale palestinese, l’unico riconosciuto dalla Fifa nei Territori Occupati, le squadre italiane erano attese dalla Nazionale under 18, e dalle alunne della scuola femminile di Gerusalemme Est "Dar el Tefl el Arabi", che hanno aperto le danze con un saggio coreografico seguito dagli inni nazionali: mentre i palestinesi tenevano orgogliosamente le mani sul cuore durante le note del loro inno, italiane e italiani hanno preferito alzare il pugno e di seguito cantare Bella Ciao, che in Palestina è una canzone molto conosciuta. Viste le disfatte clamorose, delle partite vere e proprie da parte nostra sarebbe meglio non scrivere troppo, lasciando raccontare l’orgoglio delle vittorie alle cronache del diffusissimo quotidiano Al-Quds, che il giorno successivo ha dedicato tutta la prima pagina dello sport a questo evento. Basti sapere che la squadra maschile italiana è stata battuta per nove a zero, con un goal annullato ai palestinesi e con un rigore regalato all’Italia per dare almeno l’opportunità di salvare l’onore, che però non è stata colta: palla rigorosamente fuori! La squadra femminile ancora peggio: contro le 11 palestinesi, di cui solo una era in campo con hijab e tuta a maniche e gambe lunghe, le italiane hanno perso undici a zero, con nessun tiro in porta. Ma l’importante, forse mai come in questo caso, era partecipare.
Partecipare per portare solidarietà concreta e per "rompere l’assedio attraverso lo sport", dice Simone, 20 anni, che viene da Roma ed è qui per la prima volta per conoscere direttamente ciò che ha letto nei libri o sentito raccontare da "altri compagni dei centri sociali che frequento". Aggregatosi alla carovana per capire in modo diretto Giuseppe, 53 anni, giornalista precario ("scrivilo questo, precario da anni!") è rimasto molto impressionato dall’incontro con gli abitanti del campo profughi di Dehishe, nei pressi di Betlemme, dove si trova l’Ibdaa Cultural Center, una delle associazioni palestinesi partner del progetto. "Non avevo proprio idea di come si vive nei campi" ammette Giuseppe, "non puoi averla se non vieni a vedere di persona. Ma soprattutto non riesci a capire come sia possibile che queste persone non abbiano ancora avuto indietro la loro casa e la loro terra, dopo sessant’anni!". Stupore e indignazione sono i sentimenti che accomunano un po’ tutte le persone della carovana che sono in Palestina per la prima volta e che in questi giorni verranno a contatto con le esperienze quotidiane dei Palestinesi, impareranno che cosa significa nel concreto la presenza del muro dell’apartheid, dei check point, delle ingiustizie che non fanno notizia ma che ogni giorno sono perpetrate dall’esercito israeliano. "Spostarci dal campo profughi di Dehishe allo stadio mi ha fatto vivere in prima persona le difficoltà relative alla mobilità", dice Anna, 24 anni lavoratrice precaria di Milano, che ancora non riesce a farsi una ragione delle due ore passate sul pullman per percorre una ventina di chilometri, senza contare il fastidio dei controlli ai check point. Ma impareranno anche a conoscere e capire gli usi, i costumi e le tradizioni, con le quali a volte, soprattutto per le donne, non è facile confrontarsi serenamente: "E’ strano vedere certe donne coperte o che non mangiano assieme a noi", ammette Valeria, 29 anni, ragusana, precaria e anch’essa alla prima esperienza in Palestina, "so che non è giusto giudicare con i miei parametri, che non devo pensare che i miei stili di vita di donna occidentale siano migliori e che loro sono oppresse mentre io no; ma mi trovo a disagio. Certamente è un’occasione per mettersi in discussione", conclude con un sorriso.
Lunedì il gruppo si è diviso in tre, per prendere percorsi geograficamente diversi: la carovana può così attraversare gran parte delle città principali della Cisgiordania, da Nablus a Betlemme, da Jenin a Ramallah, da Tulkarem a Jayyus. La novità di questa edizione è il passaggio per Nazareth, città israeliana che, con un lavoro portato avanti da mesi, ha preparato una grande accoglienza a Sport sotto l’assedio. La conferma invece, è che anche per questa volta c’è il diniego dell’ingresso a Gaza, da dove il progetto manca dal 2007, poiché l’anno scorso, pur avendo tutti i permessi richiesti, le 101 persone che si recarono al valico di Eretz furono respinte con la solita scusa dei non ben precisati motivi di sicurezza. Stesso pretesto usato per negare l’uscita dalla Striscia di Gaza alle ragazze della squadra di calcio dell’università di Al-Aqsa, Gaza city, che nel novembre 2007 erano attese in Italia ma che non poterono lasciare la loro prigione a cielo aperto, sebbene anche in quell’occasione i permessi erano stati richiesti e la campagna Sport sotto l’assedio avesse sostenitori istituzionali quali enti locali italiani e università. Purtroppo nel nostro paese arrivarono solo le ragazze della squadra di basket di Betlemme, per un mese importante, soprattutto se si pensa che queste palestinesi non hanno affatto facilità di movimento, nel loro paese ma anche all’estero, a causa dell’occupazione, della povertà e delle tradizioni sociali patriarcali. Ma fu un mese molto significativo anche per le studentesse e gli studenti italiani che, in un susseguirsi di incontri sportivi, politici e culturali ebbero l’opportunità di conoscere realtà che ignoravano. Nessuno comunque si dimentica della squadra di Gaza: sebbene la carovana 2009 non possa entrare, la determinazione rimane."Prima o poi Gaza sarà libera", dice Mark, 29 anni, irlandese che ha saputo di Sport sotto l’assedio perché ha amici al centro sociale Strike di Roma e che ha deciso di unirsi al gruppo "e sarà libero anche il resto del paese, non ci saranno più i controlli all’aeroporto di Tel Aviv (mi hanno interrogato tre ore quando sono arrivato!), non ci sarà più il muro né occupazione". Mark ne è convinto, perché, "come molti Irlandesi, ho presente la nostra lotta di resistenza contro gli Inglesi: anche noi eravamo occupati e, come abbiamo vinto noi, vinceranno i palestinesi". Inchallah, si dice da queste parti che laicamente può essere tradotto: speriamo.
Scritto per PeaceReporter da Irene Panighetti