mercoledì 3 giugno 2009

Oggi Obama in Medio Oriente, mentre non si ferma l’agonia della Striscia

di Michele Giorgio

A Karem Shalom pochi e spesso inutili aiuti entrano a singhiozzo per le procedure imposte da Israele. Il presidente Usa a Riyhad.

“Obama domani (oggi) arriva in Medio Oriente, Mi piacerebbe fargli vedere le condizioni in cui siamo costretti a ricevere le merci destinate alla nostra gente. In una prigione si vive meglio che a Gaza, vi assicuro”. Abu Jafar scuote la testa mentre ci spiega il suo lavoro al valico di Darem Shalom, il punto dove si incontrano i territori di Israele, Egitto e Striscia di Gaza e, to l’unico transito per i rifornimenti: il minimo indispensabile approvato da Israele, per 1,54 milioni di palestinesi. Abu Jafar è un impiegato della Shabeir Company, l’unica impresa di Gaza autorizzata dagli israeliani ad avvicinarsi a Karem Shalom e a recuperare e trasportare le merci. Nessun altro può farlo e i proprietari della Shabeir non parlano con i giornalisti, temendo domande imbarazzanti. L’impiegato invece ha voglia di raccontare quanto avviene al valico a Kerem Shalom, piccolo e poco attrezzato per il passaggio degli autocarri. “I camionisti israeliani – riferisce – scaricano le merci imballate in un’area aperta e vanno via. Poco dopo arrivano i nostri autisti che, con l’aiuto di decine di operai, caricano tutto sugli automezzi e li portano a Gaza city, Rafah e Khan Yunis e nel nord”.
Le operazioni possono andare avanti, aggiunge Abu Jafar, solo se in giro non si vedono impiegati dei ministeri di Hamas e poliziotti. Israele mantiene rapporti solo con l’Anp di Abu Mazen e le procedure a Kerem Shalom vengono gestite da Ramallah (Cisgiordania). Ad avere il controllo del valico in ogni caso è sempre e solo Israele, sottolineano nell’ufficio di Ocha, l’agenzia che coordina le attività umanitarie. Se le operazioni non vanno per il perso giusto, allora le merci rimangono dove le hanno lasciate gli autotrasportatori israeliani, spesso per ore, sotto il sole cocente. I prodotti in molti casi non sono quelli più necessari e richiesti dalla popolazione. Di recente l’elettronica entra in abbondanza a Gaza, al contrario di generi alimentari che mancano da mesi. I cibi essenziali e le medicine invece li portano a Gaza le agenzie delle Nazioni Unite.
Del cemento per la ricostruzione non c’è neanche l’ombra. Israele lo ha vietato assieme a molti altri prodotti e quel poco che passa per i tunnel sotterranei tra Rafah e l’Egitto non copre neanche il 2-3% della domanda. Le cose invece “vanno bene” secondo il Cogat, che coordina le attività governative istaeliane nei Territori occupati, che parla di situazione sotto controllo e soddisfacente a Gaza, nonostante l’embargo abbia bloccato il 90% delle fabbriche della Striscia. Per Kerem Shalom passano quotidianamente tra gli 80 e i 110 autocarri con le merci per Gaza (in passato erano quasi 500) e a bordo hanno soprattutto aiuti umanitari gestiti dall’Onu destinati alla popolazione più povera. Tutto il resto è considerato da Israele non necessario. Nel Frattempo molti si chiedono dove siano finiti gli oltre quattro miliardi di dollari messi a disposizione dai paesi donatori al vertice tenuto tre mesi fa a Sharm el Sheikh.
Hamas viene boicottato ma, quanto pare, la comunità internazionale di fatto isola anche l’Anp di Abu Mazen che ha ricevuto solo una frazione dei fondi promessi dagli sponsor occidentali ed arabi. I donatori hanno versato appena 328 milioni di dollari per pagare regolarmente lo stipendio ai suoi dipendenti (alcune decine di migliaia). L’8 giugno i rappresentanti dei paesi donatori si incontreranno per fare il punto della situazione ma, senza interventi immediati, l’Anp potrebbe essere costretta a dichiarare la bancarotta.

La Cina è lontana

di Loretta Napoleoni*

Il 4 giugno nessuno poserà un fiore al centro di piazza Tiananmen in ricordo dei morti del 1989. Nell’immaginario collettivo cinese, quell’anno è legato solo al famoso slogan di Deng Xiaoping: “Arricchitevi”. Un incitamento che sintetizza l’esplosione del capitalismo

Made in China. In occasione del quarantesimo anniversario della nascita della Repubblica Popolare Cinese furono varate delle riforme che in vent’anni hanno trasformato la Cina comunista nel gigante capitalista di oggi. Pochi però sanno che i due fatti sono strettamente legati.
La legge marziale e la decisione di sparare sui dimostranti chiusero un periodo di grande fermento politico. Ad alimentarlo fu la crisi economica, non il sogno di democrazia. Per quasi due anni, man mano che le condizioni di vita peggioravano, aumentavano le proteste di studenti e operai. Alla vigilia di Tiananmen il sindacato decise di appoggiarli e la direzione del partito ebbe paura di un evento impensabile: lo sciopero generale. Quindi scatenò la repressione.

All’origine di tutto c’era un’economia agonizzante. Dalla metà degli anni ottanta un’inflazione galoppante erodeva i salari reali. Nel 1988, quando l’aumento dei prezzi toccò l’apice, l’inflazione superava il 20 per cento. Anche la disoccupazione intellettuale cresceva e i giovani neolaureati erano costretti a tornare nelle campagne. Alla base della crisi c’era una serie di riforme affrettate che regolavano il meccanismo del controllo dei prezzi. L’inflazione strangolava l’economia di stato e le impediva di assorbire il flusso dei neolaureati. Erano problemi di cui soffrivano anche le economie occidentali a causa dei due shock petroliferi. Ma studenti e operai cinesi, digiuni di dottrina capitalista e ignari dei problemi economici dell’occidente, attribuivano l’inflazione e la disoccupazione alla corruzione, che consideravano figlia del partito unico. E questo binomio alimentava il malcontento verso la classe politica. La democrazia, cioè il contrario del partito unico, diventò una sorta di formula magica per spazzare via la corruzione e le diseguaglianze, e portare il benessere economico.
Deng era perfettamente cosciente del pericolo che correva la Cina. Dalla metà degli anni ottanta intuì che se il sistema voleva sopravvivere doveva evolversi e che a guidare il cambiamento doveva essere il partito, non il popolo. Però faticava a convincere gli alti dirigenti. Paradossalmente la repressione di Tiananmen gli fece guadagnare consensi e spianò la strada alle riforme economiche dei primi anni novanta, tutte ispirate alla visione “capitalista” del comunismo cinese.
L’idea che in Cina il fermento sociale e politico della seconda metà degli anni ottanta sia nato solo dal desiderio di “libertà politica” appartiene invece all’immaginario collettivo occidentale, e sarà infatti l’occidente a ricordare i caduti del 4 giugno. Nelle librerie sono già in bella mostra i libri in uscita per l’anniversario. Tra questi c’è Pechino è in coma (Feltrinelli) scritto dal dissidente Man Jian, dove si racconta la storia di un ragazzo che entra in coma dopo essere stato colpito da un proiettile della polizia il 4 giugno del 1989 e da allora vive tutti i cambiamenti degli ultimi vent’anni sprofondato in un mondo interiore. L’allegoria è forte. Con la repressione di vent’anni fa, la coscienza della società cinese è sprofondata in un coma vigile. Ma nonostante lo stato vegetativo, sopravvive prigioniera di un corpo non più in grado di agire o esprimersi. In ogni momento potrebbe risvegliarsi.
Storici, economisti ma anche ex studenti predono le distanze da questa visione romantica della Cina moderna. Wang Hui, studente di letteratura a Pechino nel 1989, racconta che in piazza quella primavera c’erano due gruppi di dimostranti: una manciata d’intellettuali che sognavano una Cina democratica sul modello occidentale, e una schiacciante maggioranza di operai e studenti che chiedevano riforme economiche reali per rimettere in carreggiata l’economia. La democrazia era solo uno strumento per raggiungere lo scopo, non un obiettivo politico.

A vent’anni di distanza è stato il capitalismo a far prosperare l’economia cinese, e nessuno si lamenta. Usando l’allegoria di Man Jian, se il paese è veramente in coma, non vuole uscirne. Oggi, come ieri, in Cina il concetto di democrazia è vago e spiegare ai dissidenti gli abusi di questo sistema politico è difficile. Come definire, infatti, le menzogne di Bush, le leggi ad personam del governo Berlusconi, lo spreco del denaro pubblico del parlamento inglese?
Vent’anni dopo Tiananmen e nel pieno della peggiore recessione dai tempi della grande depressione, il fascino discreto della democrazia ha comunque poca presa in Cina, un paese dove l’economia funziona, il livello di vita da quel lontano 1989 è aumentato vertiginosamente e la crisi economica è meno grave rispetto al resto del mondo. In autunno, aspettiamoci grandi feste per i sessant’anni del comunismo e i vent’anni del capitalismo made in China.

Loretta Napoleoni è un’economista italiana che vive a Londra. Ha appena pubblicato "La morsa. Le vere ragioni della crisi mondiale" (Chiarelettere)

Articolo pubblicato su Internazionale 797, 29 maggio 2009.
Foto di Christian Als

Il massacro di ieri, la Cina di oggi

di Angela Pascucci

Il massacro di Tiananmen, venti anni fa, potrebbe indurre un senso di lontananza, quasi di precoce invecchiamento, messo a confronto con le immagini attuali della Cina, nuova potenza mondiale in ascesa politica e in crescita economica anche quando tutte le economie del mondo vanno sotto zero.
Potrebbe, ma così non è. Lo impedisce il silenzio di tomba, l’oblio forzato che il potere, oggi più che mai, impone su quell’evento terribile che ancora oggi non vuole affrontare apertamente, neppure alla luce del suo sfavillante presente. A dimostrazione di quanto in realtà il passato getti la sua ombra su un oggi gravato da problemi non diversi da quelli che tra l’aprile e il giugno dell’89 portarono a una mobilitazione sociale di cui gli studenti furono il cuore e la scintilla ma che, ben oltre le aspettative dell’élite studentesca, coinvolse anche milioni di cinesi di altri grandi centri urbani, appartenenti ad altre classi sociali che dieci anni di riforme avevano penalizzato.
Se, infatti, il dibattito sull’“incidente” di Tiananmen è tabù, e le generazioni più giovani possono solo inseguirne le tracce sui percorsi proibiti della Rete, resta la questione politica di enorme complessità che era stata sollevata da quella piazza: che cosa si decideva e chi lo decideva, considerato che la giustizia economica e l’equità sociale erano stati travolti dall’ “arricchirsi è glorioso di Deng”, frutto, più che di un inesistente libero mercato, di connivenze corrotte tra potere e denaro.
La questione della “democrazia” era stata posta in modo più profondo di quanto non fu compreso in quei giorni dai media occidentali, e va ricordato che la repressione colpì in modo particolarmente duro gli operai. Quel che molti chiedevano allora non era un formale quadro istituzionale di libere elezioni ma un meccanismo di coinvolgimento ben più comprensivo, come ha scritto Wang Hui, l’intellettuale cinese che più a fondo ha riflettuto sulle cause e le conseguenze di quel massacro. Una sostanza democratica che quella modalità di riforma economica non avrebbe mai potuto garantire. Lo mostrò l’inaudita violenza con la quale una parte della leadership cinese, quella che alla fine prevalse, pose fine a una protesta che stava già lentamente rientrando.
Quando i carri armati della 27ma armata finirono il lavoro sporco che altri corpi dell’esercito non avevano voluto fare, la politica di “apertura e riforma” di Deng Xiaoping, per tutti gli anni ’80 salutata dal resto del mondo come una grande svolta verso la “normalizzazione” della Cina, tornò rapidamente a essere una repressione “comunista” inzuppata di sangue.
Il mondo avvertiva la grande mutazione mondiale che si stava preparando: la politica di Gorbaciov in Urss, le elezioni polacche che quello stesso tragico 4 giugno avevano sancito il trionfo di Solidarnosc. Altri storici disgeli erano in corso. Tutti pensarono che il Pc cinese era finito: non sarebbe sopravvissuto all’enorme crimine di aver sparato sui suoi figli. Così non è stato. Per due anni, la Cina si richiuse, il Partito tornò a regolare a porte chiuse i conflitti che nell’89 erano stati portati sulla piazza dall’allora segretario Zhao Ziyang, fino all’ultimo aperto sostenitore del dialogo con gli studenti. Due anni di paralisi: mentre i cinesi elaboravano il lutto e lo shock, la crescita economica tornò prossima allo zero.
Ma intanto lo scenario mondiale si squassava nuovamente: Mikhail Gorbaciov, accolto con entusiasmo dagli studenti a Pechino come un grande statista riformatore, finito, l’Urss andata in pezzi, la Yugoslavia sull’orlo di una guerra fratricida. Il Pcc assisteva terrorizzato allo sfaldamento intorno a sé, cercando di trarne rapidamente lezioni. Alla fine Deng Xiaoping tagliò il nodo. Nel gennaio del 1992 il vegliardo di 88 anni organizzava il suo tour epocale nella zona speciale di Shenzhen, sud della Cina, per rilanciare alla grande le riforme. Cosciente del discredito dell’ideologia, pensava che solo la crescita economica avrebbe potuto ridare legittimità al Pc. “Riformarsi, senza porre questioni sulla natura socialista o capitalista della riforma” era il messaggio sostanziale del suo discorso. “Dobbiamo guardarci dalla destra ma cosa più importante, dobbiamo ostacolare la sinistra” il discorso di complemento. La vanificazione di destra e sinistra l’approdo finale.
Da quel ’92, sono seguiti 17 anni in cui la Cina ha corso a una velocità senza precedenti nella storia umana, sfidando ogni previsione. Ha stravolto i propri tratti sociali, economici, culturali, politici. La sua crescita ha cominciato a cambiare anche il mondo. Come tutto ciò è avvenuto è dunque questione che riguarda anche noi, e che fa emergere la linea rossa che unisce l’oggi all’89.
La volontà dello stato di ricorrere alla violenza, dimostrata dalla repressione dell’89, negli anni ’90 ha posto le condizioni per la creazione dell’economia di mercato attuale. In un contesto in cui lo scontento sociale non poteva più esprimersi, tutte le riforme necessarie alla ripresa sono state portate a termine e la Cina è entrata di slancio nel processo mondiale di globalizzazione che dal coinvolgimento cinese è stato enormemente rafforzato. Un sistema con queste caratteristiche porta inevitabilmente in sé i cromosomi dello squilibrio.
Risultato della corsa a spron battuto degli anni ’90 e dei processi di ristrutturazione che l’hanno accompagnata è stata un rimodellamento forte delle classi sociali e una crescente diseguaglianza che sconfina nell’iniquità. E’ stata creata una nuova classe sociale, il sottoproletariato dei migranti, incoraggiati a lasciare in massa le campagne per alimentare con le proprie braccia a buon mercato il processo di industrializzazione e urbanizzazione. Oggi sono 150 milioni i mingong che il sistema dell’hukou priva di ogni diritto di cittadinanza nei luoghi in cui lavorano, dunque fragili e ricattabili. La vecchia classe operaia, un tempo aristocratica avanguardia, è stata declassata e falcidiata dalle ristrutturazioni massicce delle imprese di stato ma è ancora fedele all’ideologia proclamata del Partito comunista (che infatti non si libera del suo apparato ideologico malo aggiorna in continuazione). Si è formata una classe media aggrappata alle proprie acquisizioni sociali che, percependo l’accerchiamento, teme l’instabilità e l’insicurezza, si affida al governo e rifugge il coinvolgimento politico. Si è consolidato al vertice un blocco di potere e di enorme ricchezza che poggia su alleanze e collusioni tra potere politico e nuovi gruppi economici di interesse interni ed esterni (il capitale straniero e quello dei cinesi d’oltremare).
Questa struttura economico-sociale, che negli ultimi venti anni ha fatto crescere la Cina al tasso medio del 10% l’anno, produce grande ricchezza ma non la distribuisce in modo equo. Il coefficiente di Gini (metodo di misurazione delle ineguaglianze) che nel 1978 era a 0,17 è arrivato nel 2007 allo 0,47, uno dei più alti del mondo.
Sono sistemi sociali incompatibili, per usare la definizione di Chalmers Johnson, quelli che il partito-stato cinese deve governare, ma lo fa con una capacità di risposta alle dinamiche così articolata e “pragmatica” da far porre al mondo la questione del “modello cinese” e della sua straordinaria tenuta. Sulla trama di repressione e di divide et impera politico che fa da fondamenta al sistema, l’apparato ha innestato anche una serie di politiche di governo che, nel rispondere alle richieste dei perdenti esasperati ma disorganizzati, hanno ben presenti i tumulti di 20 anni fa. Oltre che gli 85mila “incidenti di massa”, cioè proteste, rivolte, scioperi deflagrati nel 2005, ultimo anno in cui questo genere di dati è stato diffuso dal governo.

Articolo pubblicato sul quotidiano "Il Manifesto" il 3 giugno 2009.

Vedi anche:La Cina è lontana di Loretta Napoleoni
Foto di Christian Als

martedì 2 giugno 2009

A Kiev pronto il ribaltone. Sotto assedio dei minatori

Mentre a Kiev sembra ormai imminente l’annncio della formazione di una nuova maggioranza politica “ad hoc” nella Rada (parlamento) ucraina, con la quale il partito della premier Yulija Timoshenko e quello di opposizione dell’ex premier Viktor Yanukovich vorrebbero assestare il colpo definitivo al presidente Viktor Yushenko, un migliaio di minatori di alcune miniere private sta assediando da stamattina i palazzi del potere nella capitale. Ad essere bloccati da rumorosi picchetti sono il palazzo della Rada e la sede del consiglio dei ministri: gli assedianti non hanno richieste politiche, ma chiedono che l’ente di stato ucraino per il carbone assicuri parità di trattamento alle miniere statali e a quelle private.
Il nodo è rappresentato dagli acquisti pubblici di carbone, che in tempi di seria crisi economica come quelli attuali (con l’industria siderurgica ucraina quasi ferma) sono fondamentali per la sopravvivenza delle miniere. Per pagare i salari ai lavoratori, le tasse e i costi vivi, una miniera come la “Chapaev” - ha riferito un sindacalista della stessa miniera, presente all’azione di oggi - “occorre che alneo sessantamila tonnellate di carbone vengano vendute ogni mese, ma l’ente di stato ce ne compra solo 2500, sì e no quel che basta a pagare la corrente elettrica”. Dato che sono mesi che questa situazione si protrae, e che ormai diverse migliaia di lavoratori sono senza paga e sull’orlo del licenziamento per chiusura delle loro aziende, i minatori delle miniere “Chapaev”, “Zhdanivska” e “Svitanok” (tutte e tre nella regione mineraria di Donetsk), organizzati dai loro sindacati, si sono imbarcati in alcune decine di pullman e hanno puntato sulla capitale, schierandosi a picchettare i palazzi del potere “fino a quando non saranno accolte le richieste” di intervento pubblico.
Non è ben chiaro come questo sia possibile, dato che il bilancio dello stato ucraino è ormai un disastro totale. Sembra ormai che l’ente di stato per il gas sia sull’orlo della bancarotta - il che fa presagire pessime notizie sul fronte dei rapporti Russia-Ucraina-Europa - e il governo stesso non sa più come fare per tenere insieme il paese senza pagare nessuno. Oltre a tutto, il conflitto politico interno a Kiev sta raggiungendo probabilmente il momento dello showdown, dopo mesi e mesi di paralisi e di veti incrociati fra il presidente Viktor Yushenko e la premier Timoshenko.
Oggi la maggior parte dei commentatori ucraini “vede” come imminente - questione di ore - l’annuncio di un accordo fra i due principali partiti della Rada, quello della premier e quello di Yanukovich, per costituire una nuova maggioranza parlamentare. Questa maggioranza avrebbe i numeri per cambiare la costituzione e abrogare l’elezione diretta del presidente per sostituirla con un’elezione da parte dei deputati: in questo modo Yushenko verrebbe fatto fuori definitivamente (del resto ormai solo il 2 per cento degli ucraini sostiene di apprezzarlo) e un accordo segreto (per modo di dire) porterebbe Yanukovich dritto alla presidenza mantenendo Timoshenko sulla poltrona di premier.
Tutto questo, se si realizzasse, darebbe certamente un po’ di stabilità al paese: ma la china da risalire sul versante economico resterebbe comunque terribilmente aspra, con il Pil in picchiata peggio di qualsiasi altro paese in Europa (e forse al mondo), le maggiori aziende ferme, lo stato quasi in bancarotta. Sia Timoshenko che Yanukovich probabilmente contano su un aiuto da parte di Mosca, ma data la situazione tutt’altro che rosea anche nel vicino gigante, è dubbio che il Cremlino voglia e possa fare granché - salvo forse dare una mano sulla faccenda del gas per evitare una crisi che danneggerebbe anche la Russia.
di Astrit Dakli

Amnesty International rapporto 2009 Turchia

I diritti umani hanno risentito del contesto di instabilità politica e di scontri militari. Sono aumentate le segnalazioni di tortura e altri maltrattamenti, mentre le voci del dissenso hanno subito persecuzioni e intimidazioni. Il diritto di riunione pacifica è stato negato e le forze dell'ordine hanno impiegato forza eccessiva per disperdere i manifestanti. Le disposizioni di legge anti-terrorismo sono state usate anche per ridurre la libertà di espressione.
leggi il rapporto annuale 2009 sulla Turchia: amnesty.it

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!