Il massacro di Tiananmen, venti anni fa, potrebbe indurre un senso di lontananza, quasi di precoce invecchiamento, messo a confronto con le immagini attuali della Cina, nuova potenza mondiale in ascesa politica e in crescita economica anche quando tutte le economie del mondo vanno sotto zero.
Potrebbe, ma così non è. Lo impedisce il silenzio di tomba, l’oblio forzato che il potere, oggi più che mai, impone su quell’evento terribile che ancora oggi non vuole affrontare apertamente, neppure alla luce del suo sfavillante presente. A dimostrazione di quanto in realtà il passato getti la sua ombra su un oggi gravato da problemi non diversi da quelli che tra l’aprile e il giugno dell’89 portarono a una mobilitazione sociale di cui gli studenti furono il cuore e la scintilla ma che, ben oltre le aspettative dell’élite studentesca, coinvolse anche milioni di cinesi di altri grandi centri urbani, appartenenti ad altre classi sociali che dieci anni di riforme avevano penalizzato.
Se, infatti, il dibattito sull’“incidente” di Tiananmen è tabù, e le generazioni più giovani possono solo inseguirne le tracce sui percorsi proibiti della Rete, resta la questione politica di enorme complessità che era stata sollevata da quella piazza: che cosa si decideva e chi lo decideva, considerato che la giustizia economica e l’equità sociale erano stati travolti dall’ “arricchirsi è glorioso di Deng”, frutto, più che di un inesistente libero mercato, di connivenze corrotte tra potere e denaro.
La questione della “democrazia” era stata posta in modo più profondo di quanto non fu compreso in quei giorni dai media occidentali, e va ricordato che la repressione colpì in modo particolarmente duro gli operai. Quel che molti chiedevano allora non era un formale quadro istituzionale di libere elezioni ma un meccanismo di coinvolgimento ben più comprensivo, come ha scritto Wang Hui, l’intellettuale cinese che più a fondo ha riflettuto sulle cause e le conseguenze di quel massacro. Una sostanza democratica che quella modalità di riforma economica non avrebbe mai potuto garantire. Lo mostrò l’inaudita violenza con la quale una parte della leadership cinese, quella che alla fine prevalse, pose fine a una protesta che stava già lentamente rientrando.
Quando i carri armati della 27ma armata finirono il lavoro sporco che altri corpi dell’esercito non avevano voluto fare, la politica di “apertura e riforma” di Deng Xiaoping, per tutti gli anni ’80 salutata dal resto del mondo come una grande svolta verso la “normalizzazione” della Cina, tornò rapidamente a essere una repressione “comunista” inzuppata di sangue.
Il mondo avvertiva la grande mutazione mondiale che si stava preparando: la politica di Gorbaciov in Urss, le elezioni polacche che quello stesso tragico 4 giugno avevano sancito il trionfo di Solidarnosc. Altri storici disgeli erano in corso. Tutti pensarono che il Pc cinese era finito: non sarebbe sopravvissuto all’enorme crimine di aver sparato sui suoi figli. Così non è stato. Per due anni, la Cina si richiuse, il Partito tornò a regolare a porte chiuse i conflitti che nell’89 erano stati portati sulla piazza dall’allora segretario Zhao Ziyang, fino all’ultimo aperto sostenitore del dialogo con gli studenti. Due anni di paralisi: mentre i cinesi elaboravano il lutto e lo shock, la crescita economica tornò prossima allo zero.
Ma intanto lo scenario mondiale si squassava nuovamente: Mikhail Gorbaciov, accolto con entusiasmo dagli studenti a Pechino come un grande statista riformatore, finito, l’Urss andata in pezzi, la Yugoslavia sull’orlo di una guerra fratricida. Il Pcc assisteva terrorizzato allo sfaldamento intorno a sé, cercando di trarne rapidamente lezioni. Alla fine Deng Xiaoping tagliò il nodo. Nel gennaio del 1992 il vegliardo di 88 anni organizzava il suo tour epocale nella zona speciale di Shenzhen, sud della Cina, per rilanciare alla grande le riforme. Cosciente del discredito dell’ideologia, pensava che solo la crescita economica avrebbe potuto ridare legittimità al Pc. “Riformarsi, senza porre questioni sulla natura socialista o capitalista della riforma” era il messaggio sostanziale del suo discorso. “Dobbiamo guardarci dalla destra ma cosa più importante, dobbiamo ostacolare la sinistra” il discorso di complemento. La vanificazione di destra e sinistra l’approdo finale.
Da quel ’92, sono seguiti 17 anni in cui la Cina ha corso a una velocità senza precedenti nella storia umana, sfidando ogni previsione. Ha stravolto i propri tratti sociali, economici, culturali, politici. La sua crescita ha cominciato a cambiare anche il mondo. Come tutto ciò è avvenuto è dunque questione che riguarda anche noi, e che fa emergere la linea rossa che unisce l’oggi all’89.
La volontà dello stato di ricorrere alla violenza, dimostrata dalla repressione dell’89, negli anni ’90 ha posto le condizioni per la creazione dell’economia di mercato attuale. In un contesto in cui lo scontento sociale non poteva più esprimersi, tutte le riforme necessarie alla ripresa sono state portate a termine e la Cina è entrata di slancio nel processo mondiale di globalizzazione che dal coinvolgimento cinese è stato enormemente rafforzato. Un sistema con queste caratteristiche porta inevitabilmente in sé i cromosomi dello squilibrio.
Risultato della corsa a spron battuto degli anni ’90 e dei processi di ristrutturazione che l’hanno accompagnata è stata un rimodellamento forte delle classi sociali e una crescente diseguaglianza che sconfina nell’iniquità. E’ stata creata una nuova classe sociale, il sottoproletariato dei migranti, incoraggiati a lasciare in massa le campagne per alimentare con le proprie braccia a buon mercato il processo di industrializzazione e urbanizzazione. Oggi sono 150 milioni i mingong che il sistema dell’hukou priva di ogni diritto di cittadinanza nei luoghi in cui lavorano, dunque fragili e ricattabili. La vecchia classe operaia, un tempo aristocratica avanguardia, è stata declassata e falcidiata dalle ristrutturazioni massicce delle imprese di stato ma è ancora fedele all’ideologia proclamata del Partito comunista (che infatti non si libera del suo apparato ideologico malo aggiorna in continuazione). Si è formata una classe media aggrappata alle proprie acquisizioni sociali che, percependo l’accerchiamento, teme l’instabilità e l’insicurezza, si affida al governo e rifugge il coinvolgimento politico. Si è consolidato al vertice un blocco di potere e di enorme ricchezza che poggia su alleanze e collusioni tra potere politico e nuovi gruppi economici di interesse interni ed esterni (il capitale straniero e quello dei cinesi d’oltremare).
Questa struttura economico-sociale, che negli ultimi venti anni ha fatto crescere la Cina al tasso medio del 10% l’anno, produce grande ricchezza ma non la distribuisce in modo equo. Il coefficiente di Gini (metodo di misurazione delle ineguaglianze) che nel 1978 era a 0,17 è arrivato nel 2007 allo 0,47, uno dei più alti del mondo.
Sono sistemi sociali incompatibili, per usare la definizione di Chalmers Johnson, quelli che il partito-stato cinese deve governare, ma lo fa con una capacità di risposta alle dinamiche così articolata e “pragmatica” da far porre al mondo la questione del “modello cinese” e della sua straordinaria tenuta. Sulla trama di repressione e di divide et impera politico che fa da fondamenta al sistema, l’apparato ha innestato anche una serie di politiche di governo che, nel rispondere alle richieste dei perdenti esasperati ma disorganizzati, hanno ben presenti i tumulti di 20 anni fa. Oltre che gli 85mila “incidenti di massa”, cioè proteste, rivolte, scioperi deflagrati nel 2005, ultimo anno in cui questo genere di dati è stato diffuso dal governo.
Articolo pubblicato sul quotidiano "Il Manifesto" il 3 giugno 2009.