di Raúl Zibechi
Il massacro commesso il 5 giugno scorso contro gli indigeni amazzonici peruviani da parte del governo di Alan Garcìa è l'ultimo capitolo di una lunga guerra per l'appropriazione dei beni comuni, sostenuta dalla firma del Tlc tra Perù e Stati Uniti.
Alle sei del mattino di venerdì 5 giugno, tre elicotteri Mi-17 sono partiti dalla base della Polizia nazionale a El Milagro, hanno sorvolato la Curva del Diavolo – parte della strada che collega la selva con la costa nord del Perù – che era bloccata da dieci giorni da circa cinque mila indigeni awajùn e wampis. Dagli elicotteri sono partiti i gas lacrimogeni contro la folla [anche se altre versioni dicono che hanno sparato con le mitragliatrici], mentre nello stesso momento un gruppo di agenti è intervenuto a terra contro il blocco, a colpi di fucilate degli Akm. In quel momento sono state ferite un centinaio di persone e 20 o 25 sono state uccise. La popolazione della vicina città di Bagua, circa mille chilometri a nord est di Lima, vicino alla frontiera con l’Ecuador, è scesa in strada per appoggiare gli indigeni, incendiando palazzi pubblici nazionali e locali del partito del presidente Garcìa, l’Apra. Molti poliziotti sono stati assaliti e uccisi per vendetta, mentre altri indigeni venivano uccisi dagli agenti. Un gruppo di 38 poliziotti che presidiavano una stazione petrolifera in Amazzonia sono stati catturati come ostaggi, e alcuni sono stati uccisi, mentre alcune migliaia di indigeni minacciavano di far saltare in aria la stazione numero 6 dell’oleodotto nord-peruviano. Le versioni sono contraddittorie. Il governo ha assicurato, tre giorni dopo i fatti, che ci sono 11 indigeni e 23 poliziotti uccisi. Le organizzazioni indigene segnalano invece che i morti tra le proprie file sono 50 e che i desaparecidos sarebbero 400. Secondo testimoni, i militari hanno bruciato dei cadaveri e hanno lanciato i corpi nel fiume, per nascondere le prove del massacro, inoltre hanno fatto prigionieri i feriti ricoverati in ospedale. In ogni caso, è certo che il governo ha mandato le forze armate per stroncare una protesta pacifica, che durava da 57 giorni, concentrata nelle regioni impervie di cinque dipartimenti: Amazonas, Cusco, Loreto, San Martìn e Ucayali. L’8 giugno, la Commissione interamericana per i diritti umani [Cidh] appartenente all’Organizzazione degli stati americani [Oea], ha condannato la violenza e ha ricordato allo stato peruviano la sua responsabilità nel chiarire la dinamica dei fatti e rimediare alle conseguenze negative. La stessa Cidh ha chiesto alle parti di promuovere un processo di dialogo. Il 9 il Coordinamento nazionale per i diritti umani ha denunciato che «è stata registrata una serie di irregolarità e possibili violazioni dei diritti umani nella zona di Bagua». Il Cndh ha evidenziato la risposta negativa del governo, che ha non ha ritenuto di informare quale personale di polizia è incaricato delle indagini, la sua preoccupazione per la situazione delle 25 persone detenute nella caserma di El Milagro e per le 99 persone arrestate da quando era iniziata la protesta a Bagua. Il presidente Garcìa ha accusato gli indigeni di essere «terroristi» e ha parlato di una «cospirazione internazionale», nella quale, secondo i suoi ministri, sarebbero coinvolte Bolivia e Venezuela, che in quanto paesi produttori di gas e petrolio cercherebbero di evitare che il Perù possa sfruttare i propri giacimenti e diventare quindi un concorrente. Poche settimane fa, il Perù ha concesso asilo politico al dirigente antichavista venezuelano Manuel Rosales, accusato di corruzione, e a tre ex ministri boliviani del governo di Gonzalo Sanchez de Lozada, sotto processo per la morte di circa 70 persone durante la cosiddetta «guerra del gas» dell’ottobre del 2003. Il 9 giugno ci sono state anche le dimissioni della ministra per le donne e lo sviluppo sociale, Carmen Vildoso, in polemica con la forma scelta dal governo per gestire la situazione. Secondo il primo ministro Yehude Simon, però, le dimissioni sarebbero dovute al disaccordo per lo spot del governo in cui, su immagini di agenti di polizia uccisi e indigeni armati di lance e frecce, i nativi vengono qualificati come «selvaggi», «assassini feroci» e «estremisti», che seguono «ordini internazionali» per «bloccare lo sviluppo del Perù» e impedire che il paese «sfrutti i suo petrolio». Lo spot «spiega» che non c’è stata alcuna repressione, solo il «brutale assassinio di umili poliziotti». Il dirigente dell’Associazione interetnica per lo sviluppo della selva peruviana [Aidesep], che riunisce circa 300 mila indigeni di 1350 comunità, Alberto Pizango, è stato etichettato come «delinquente» dalla ministra dell’interno Mercedes Cabanillas, che ne ha ordinato la cattura. Per questo, Pizango ha chiesto asilo all’ambasciata del Nicaragua a Lima. La maggioranza parlamentare governativa ha accusato la sinista, il Partito nazionalista peruviano e il suo leader Ollanta Humala, nonché i mezzi di comunicazione amazzonici di «aver istigato atti di violenza degli indigeni contro la polizia» e ha minacciato di aprire un’inchiesta per terrorismo. Il conflitto era iniziato il 9 aprile con la mobilitazione dei popoli amazzoni, occupazioni di strade e condutture di petrolio e gas, contro l’applicazione di una serie di decreti presidenziali nel quadro delle norme del Trattato di libero scambio firmato tra Perù e Stati Uniti. Alcuni giorni dopo la protesta e il massacro, però, il governo è stato costretto a sospendere due decreti, i più contestati dagli indigeni, la Ley de aguas e la Ley de tierras.
Il cane dell'ortolano
L’inizio delle trattative con gli Stati Uniti risale al maggio del 2005, durante il governo di Alejandro Toledo [2000-2005]. Il trattato era destinato a sostituire la Legge di promozione andina e sradicamento delle droghe, firmata nel 2002 e in vigore fino a dicembre del 2006. Il Tlc elminia gli ostacoli allo scambio commerciale e inoltre facilita l’accesso a beni, servizi e flussi di capitale, ma include anche un’ampia gamma di temi legati alla protezione dei brevetti, agli appalti pubblici e per i servizi, e alla soluzione delle controversie. Il Tlc è stato sottoscritto a Washington l’8 dicembre del 2005, da Alan Garcia e George W. Bush. A giugno del 2006 è stato ratificato dal Perù e a dicembre del 2007 dal Congresso degli Stati Uniti. Il primo febbraio 2009 il Tlc è entrato in vigore, dopo un’ulteriore firma di Garcia e Bush, avvenuta il 16 gennaio di quest’anno. La firma del Tlc ha provocato grandi mobilitazioni nel 2005, soprattutto da parte dei contadini che si sono mostrati essere il settore più colpito dall’eliminazione delle barriere doganali e tariffarie. Anche se il governo aveva assicurato che ci sarebbero state delle compensazioni, non si è mai visto nulla. Il 18 febbraio 2008 c’è stata lo sciopero nazionale agrario, con occupazioni di strade in tutto il paese, e con un bilancio finale di quattro morti per la repressione poliziesca e l’imposizione dello stato di emergenza in otto province. Il 28 ottobre del 2007 Alan Garcia ha pubblicato un lungo articolo sul giornale El Comercio, di Lima, dal titolo «La sindrome del cane dell’ortolano». Garcia considera la natura come una risorsa e sostiene che sia una follia impedirsi di sfruttarla, lasciando da parte qualsiasi dibattito sulla protezione dell’Amazzonia : «Il vecchio comunista anticapitalista del secolo diciannovesimo si è trasformato nel protezionista del ventesimo e nel ventunesimo secolo cambia nuovamente casacca per diventare ambientalista», ha scritto. Secondo lui, quelli che si oppongono allo sfruttamento intensivo dell’Amazzonia sono come il cane dell’ortolano, che «non mangia e non lascia mangiare». «Ci sono milioni di ettari di legno che sono da sfruttare, e altri milioni di ettari che le comunità e le associazioni non hanno coltivato, né mai coltiveranno, e poi centinaia di miniere che non si possono sfruttare e milioni di ettari di mare, nei quali non entrerà mai l’itticoltura e la produzione. I fiumi che scendono da uno e dall’altro lato della cordigliera, se ne vanno al mare senza produrre energia elettrica», dice nel suo articolo. «La prima risorsa è l’Amazzonia», assicura Garcia. Sono 63 milioni di ettari, che secondo lui vanno divise in grandi proprietà da «5 mila, 10 mila o 20 mila ettari, perché in terreni più piccoli non ci possono essere investimenti di lungo periodo e di alta tecnologia». A proposito della terra, sottolinea che non si deve «consegnare piccoli lotti di terreno a famiglie povere che non hanno un centesimo da investire» e che «questa stessa terra venduta in grandi appezzamenti attrarrebbe la tecnologia». A Garcia importa poco che queste terre siano proprietà collettiva delle comunità, visto che, secondo lui, «sono solo terre incolte, perché i padroni non hanno formazione e risorse economiche, pertanto la loro proprietà è solo apparente».
Il TLC e i decreti legislativi
Il massacro nelle carceri
Il 18 luglio 1986, alle sei del mattino, i prigionieri politici di Sendero Luminoso nelle carceri di San Juan de Lurigancho e di El Fronton, nonché del carcere femminile di Santa Monica, a Lima e a Callao, si ammutinarono in modo coordinato. La rivolta scattò durante la celebrazione del congresso dell’Internazionale socialista a Lima, dove partecipava anche il Partito Aprista peruviano, guidato dall’allora presidente Alan Garcia. I prigionieri avevano un documento con 26 richieste legate al miglioramento delle condizioni di detenzione. Una riunione del consiglio dei ministri diede incarico alle forze speciali della marina di riprendere il controllo delle prigioni. Il primo fu il carcere femminile, di cui si fece carico la Guardia repubblicana, che abbatté una parete, lanciò gas narcotizzanti e liberò gli ostaggi, con un bilancio di due detenute uccise. A mezzanotte cominciò l’attacco all’isola-carcere del Fronton da parte della fanteria di marina. Il direttore del carcere, il giudice e il pubblico ministero protestarono per la presenza dei soldati, a cui venne negato l’accesso alla struttura. Nell’assalto morirono tre soldati, un ostaggio e 135 prigionieri, con appena 34 sopravvissuti. A Lurigancho operarono la gendarmeria e l’esercito, con un saldo di 124 prigionieri uccisi e nemmeno un soldato. Lo scandalo nazionale e internazionale fu enorme. Americas Watch assicurò che si era trattato «del più devastante attentato ai diritti umani in Perà negli ultimi decenni», e che «gran parte dei prigionieri furono uccisi a sangue freddo dopo che si erano arresi». La Corte interameicana per i diritti umani [Cidh] condannò gli eventi e una commissione parlamentare riuscì a trovare abbastanza prove da determinare la responsabilità politica del presidente. Tuttavia, Alan Garcia concesse l’impunità ai responsabili dei massacri. Il viceammiraglio Luis Gianpietri Rojas, capo delle truppe della marina a El Fronton, è l’attuale vicepresidente del secondo governo di Alan Garcia. La Commissione per la verità e la riconciliazione ha sostenuto che la mattanza è stato un punto di svolta nella politica antiterrorista, poiché fino a quel momento Alan Garcia aveva mostrato interesse a frenare le costanti violazioni dei diritti umani commesse dalle forze armate, ma a partire da quel momento scatenò la repressione. Con precedenti simili, si teme che la represione possa acutizzarsi anche in questo momento. La protesta amazzonica non è calata di intensità dopo il massacro: la quasi totalità dei 56 popoli indigeni amazzonici ha affermato di essere disposta a continuare la lotta fino a quando il governo non avrà ritirato i decreti legislativi che violano la Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro e i diritti sui loro territori. Secondo tutti i testimoni, la situazione è ancora esplosiva. Nel tardivo tentativo di disinnescare la tensione, il 10 giugno il Congresso con i voti dell’Arpa e dei fujimoristi (sostenitori dell’ex presidente Alberto Fujimori) ha approvato la sospensione di due dei nove decreti più contestati dagli indigeni. I decreti 1090 e 1064 sono stati sospesi indefinitamente. La decisione può essere solo una manovra per guadagnare tempo oppure aprire spazi per un negoziato. Tuttavia, tanto lo sciopero amazzonico quanto le marce nelle principali città del paese sono state confermate dopo che è stata resa nota la parziale retromarcia del governo. Hugo Blanco, leggendario attivista peruviano ed editore del mensile Lotta indigena, abbozza in un suo editoriale uno sguardo di lungo periodo: «Dopo 500 anni di silenzio, gli amazzonici hanno ricevuto l’appoggio dei popoli del Perù e del mondo. Può essere che la maggiore vittoria di queste giornate sia proprio dare visibilità a questi popoli, tessendo relazioni tra i diversi settori del paese, divisi da quelli che ci dominano. Difendendo l’Amazzonia, stanno difendendo la vita di tutta l’umanità e non cedendo davanti agli inganni del governo, stanno riscrivendo la storia e stanno recuperando per tutti il senso della parola dignità».