di Loretta Napoleoni*
Il 4 giugno nessuno poserà un fiore al centro di piazza Tiananmen in ricordo dei morti del 1989. Nell’immaginario collettivo cinese, quell’anno è legato solo al famoso slogan di Deng Xiaoping: “Arricchitevi”. Un incitamento che sintetizza l’esplosione del capitalismo
Il 4 giugno nessuno poserà un fiore al centro di piazza Tiananmen in ricordo dei morti del 1989. Nell’immaginario collettivo cinese, quell’anno è legato solo al famoso slogan di Deng Xiaoping: “Arricchitevi”. Un incitamento che sintetizza l’esplosione del capitalismo
La legge marziale e la decisione di sparare sui dimostranti chiusero un periodo di grande fermento politico. Ad alimentarlo fu la crisi economica, non il sogno di democrazia. Per quasi due anni, man mano che le condizioni di vita peggioravano, aumentavano le proteste di studenti e operai. Alla vigilia di Tiananmen il sindacato decise di appoggiarli e la direzione del partito ebbe paura di un evento impensabile: lo sciopero generale. Quindi scatenò la repressione.
All’origine di tutto c’era un’economia agonizzante. Dalla metà degli anni ottanta un’inflazione galoppante erodeva i salari reali. Nel 1988, quando l’aumento dei prezzi toccò l’apice, l’inflazione superava il 20 per cento. Anche la disoccupazione intellettuale cresceva e i giovani neolaureati erano costretti a tornare nelle campagne. Alla base della crisi c’era una serie di riforme affrettate che regolavano il meccanismo del controllo dei prezzi. L’inflazione strangolava l’economia di stato e le impediva di assorbire il flusso dei neolaureati. Erano problemi di cui soffrivano anche le economie occidentali a causa dei due shock petroliferi. Ma studenti e operai cinesi, digiuni di dottrina capitalista e ignari dei problemi economici dell’occidente, attribuivano l’inflazione e la disoccupazione alla corruzione, che consideravano figlia del partito unico. E questo binomio alimentava il malcontento verso la classe politica. La democrazia, cioè il contrario del partito unico, diventò una sorta di formula magica per spazzare via la corruzione e le diseguaglianze, e portare il benessere economico.
Deng era perfettamente cosciente del pericolo che correva la Cina. Dalla metà degli anni ottanta intuì che se il sistema voleva sopravvivere doveva evolversi e che a guidare il cambiamento doveva essere il partito, non il popolo. Però faticava a convincere gli alti dirigenti. Paradossalmente la repressione di Tiananmen gli fece guadagnare consensi e spianò la strada alle riforme economiche dei primi anni novanta, tutte ispirate alla visione “capitalista” del comunismo cinese.
L’idea che in Cina il fermento sociale e politico della seconda metà degli anni ottanta sia nato solo dal desiderio di “libertà politica” appartiene invece all’immaginario collettivo occidentale, e sarà infatti l’occidente a ricordare i caduti del 4 giugno. Nelle librerie sono già in bella mostra i libri in uscita per l’anniversario. Tra questi c’è Pechino è in coma (Feltrinelli) scritto dal dissidente Man Jian, dove si racconta la storia di un ragazzo che entra in coma dopo essere stato colpito da un proiettile della polizia il 4 giugno del 1989 e da allora vive tutti i cambiamenti degli ultimi vent’anni sprofondato in un mondo interiore. L’allegoria è forte. Con la repressione di vent’anni fa, la coscienza della società cinese è sprofondata in un coma vigile. Ma nonostante lo stato vegetativo, sopravvive prigioniera di un corpo non più in grado di agire o esprimersi. In ogni momento potrebbe risvegliarsi.
Storici, economisti ma anche ex studenti predono le distanze da questa visione romantica della Cina moderna. Wang Hui, studente di letteratura a Pechino nel 1989, racconta che in piazza quella primavera c’erano due gruppi di dimostranti: una manciata d’intellettuali che sognavano una Cina democratica sul modello occidentale, e una schiacciante maggioranza di operai e studenti che chiedevano riforme economiche reali per rimettere in carreggiata l’economia. La democrazia era solo uno strumento per raggiungere lo scopo, non un obiettivo politico.
A vent’anni di distanza è stato il capitalismo a far prosperare l’economia cinese, e nessuno si lamenta. Usando l’allegoria di Man Jian, se il paese è veramente in coma, non vuole uscirne. Oggi, come ieri, in Cina il concetto di democrazia è vago e spiegare ai dissidenti gli abusi di questo sistema politico è difficile. Come definire, infatti, le menzogne di Bush, le leggi ad personam del governo Berlusconi, lo spreco del denaro pubblico del parlamento inglese?
Vent’anni dopo Tiananmen e nel pieno della peggiore recessione dai tempi della grande depressione, il fascino discreto della democrazia ha comunque poca presa in Cina, un paese dove l’economia funziona, il livello di vita da quel lontano 1989 è aumentato vertiginosamente e la crisi economica è meno grave rispetto al resto del mondo. In autunno, aspettiamoci grandi feste per i sessant’anni del comunismo e i vent’anni del capitalismo made in China.
Loretta Napoleoni è un’economista italiana che vive a Londra. Ha appena pubblicato "La morsa. Le vere ragioni della crisi mondiale" (Chiarelettere)