Sembra un disco rotto, una canzona sentita a intermittenza di cui completare le parti del testo che che saltano. A bocca stretta, tra le labbra, e fuori dai denti. Il solito venerdì mattina di lotta contro il muro, si conclude con la caccia grossa, con preda la morente, con il sangue che traccia la scia di soccorsi su cui si è sparato ancora.è una storia questa come tante altre, raccontata tra le strade di una Palestina sempre più piccola, che fatica a raggiungere le assolate spiagge occidentali. Questa mattina a Nil’n abbiamo messo sotto terra 36 anni. Splendidi e appassionati 36 anni, di cui gli ultimi due passati a lottare in nome di ciò che calchiamo ogni giorno, in nome del sinonimo della vita: la terra. E' stato un proiettile in pieno petto a colpire Yousef Sadiq Srour, a farlo morire in nome della Grande Israele, mentre lo stesso prestava soccorso ad un altro ragazzo ferito.
Nil’in dista solamente una trentina di km da Ramallah, ma mai come questa mattina è stato difficile e per qualche attimo forse impossibile, raggiungere questo paesino palestinese simbolo di lotta e resistenza, per assistere ai funerali di Yousef Sadiq Srour. Passando attraverso Bil’in, già tristemente noto per analoghi motivi, ci siamo resi conto di non conoscere a fondo la strada che porta al paese successivo. A darci le giuste indicazioni è stato un ragazzo sul ciglio della strada. Iyad, anche lui in marcia verso Nil’in, ci ha accolti con un sorriso e prima di finire i convenevoli era già seduto sul sedile posteriore. La corsa è ripresa tra le chiacchiere. Poche, essenziali, ma importanti. "Vuoi che parli inglese o ebraico?" mi ha chiesto continuando a sorridere, dopo qualche secondo di silenzio gli ho espresso la mia preferenza per la lingua anglosassone. La sua è una domanda semplice, indicatore della presenza di non pochi attivisti israeliani, che affiancano le lotte dei loro vicini assediati.Vengo così a sapere che Iyad è uno dei coordinatori del Friends of Freedom anf Justice and Popular Committee in Bil’in, anche lui avvezzo alla resistenza, e troppo spesso alla morte. La corsa continua fino alla strada che porta all’imbocco di Nil’in. Ci accorgiamo fin da subito della massiccia presenza dei soldati israeliani, camionette ovunque, che non appena avvistano la nostra macchina ci sbarrano la strada. I giovani soldati si sono fiondati giù con i loro fucili intimandoci di fermarci e tornare indietro. Dopo aver risposto alla domanda di uno di loro sulla nostra provenienza, un altro ragazzo evidentemente nervosetto mi ha biascicato in un pessimo arabo "Italiani andate via". Probabilmente il soldato sa pronunciare solamente quella frase in arabo, ennesimo indicatore linguistico in meno di mezz’ora mi viene da pensare. Non insistiamo, da quella parte non si passa, mentre facciamo un’inversione azzardata ci accorgiamo degli innumerevoli cecchini appostati sopra le nostre teste. Iyad ci dice che probabilmente i soldati non vogliono che gli internazionali vedano cosa accade oggi all’interno del paese.Una buona tesi penso, a cui aggiungere che probabilmente l’esercito non vuole che nessuno passi a commemorare l’ultimo martire, visto che viene malamente cacciato anche un gruppo di ragazzi palestinesi arrivati a piedi. Torniamo verso Bil’in, chiedendoci in nome di cosa non si può presenziare ad un funerale. Dopo pochi minuti ci fermiamo nuovamente, Iyad chiede indicazioni, di tutta risposta ci ritroviamo in macchina un altro compagno palestinese che dice di avere una via alternativa. Il tragitto riprende, con il cuore in gola stavolta. L’esercito è ovunque, ma per fortuna la nostra macchina sembra scivolare via sotto poca attenzione. Dopo un’altra mezz’ora, prima di intravedere la piazza centrale di Nil’in, è un canto che ci raggiunge, siamo arrivati. Le bandiere verdi di Hamas sventolano numerose, giovani, vecchi e bambini sono sparsi in quella che non è altro che una piccola prigione che nessuno di loro vuole spingere verso la normalizzazione che tanto piace alla politica internazionale. Piccoli gruppi silenziosi sotto un sole cocente. Occhi lucidi, come la pelle che suda. La salma di Yousef è uscita dalla moschea dopo pochi minuti, il volto visibilissimo, come il resto del corpo era avvolto nella stessa bandiera verde del "Movimento di Resistenza Islamico". Amici e compagni hanno trasportato il corpo fino al cimitero, dove le loro stesse mani impastandosi con terra, acqua e lacrime, hanno fatto la tomba per un amico, un fratello, un figlio. Quei 35 anni lasciano una moglie e tre bambini, che non possiamo altro che augurarci non seguano il filone di odio dei loro aguzzini.
* attualmente nei territori occupati