La resistenza degli indigeni ha obbligato il governo di Lima a fermare e derogare i decreti che permettevano alle multinazionali di spogliare l’Amazzonia che dovranno essere riesaminati in Parlamento a Lima. Il tempo e la tenacia dei popoli originari diranno se è un diversivo neoliberale, una semplice tregua per dirottare l’attenzione internazionale (poca ma combattiva) oppure l’inizio di una vittoria storica di chi difende la biodiversità dell’Amazzonia. Intanto, secondo l’indigeno awajún Salomón Aguanash, testimone diretto delle stragi, intervistato da IPS, l’ordine di Alan García era sparare per uccidere. Così, all’alba del 5 giugno, quando tre elicotteri MI-17 dell’esercito hanno aperto il fuoco su 3.500 indigeni che bloccavano la strada che collega la selva alla costa Nord, è iniziato il massacro in Amazzonia. Al termine dell’incursione sul terreno gli indigeni contavano almeno 25 morti e un centinaio di feriti ma erano più che mai disposti a resistere fino alla vittoria. I dati sulle violenze successive continuano ad essere contraddittori. Secondo fonti inconciliabili, il governo e gli indigeni, ci sarebbero 23 poliziotti morti da una parte e almeno 50-60 indigeni uccisi e fino a 400 desaparecidos dall’altra. Il presidente del Consiglio dei Ministri peruviano (in Perù, nonostante il sistema presidenziale, esiste tale figura) Yehude Simón, ha annunciato che il governo di Alan García si è impegnato a trattare con gli indigeni e revisionare in parlamento entro il prossimo 18 giugno i decreti sullo sfruttamento delle risorse naturali, forestali e idriche che hanno provocato la ribellione in Amazzonia e alle quali il governo è obbligato dal Trattato di libero commercio con gli Stati Uniti. Il nuovo portavoce del coordinamento indigeno dell’AIDESEP, che rappresenta 300.000 persone di 1.300 comunità, Daysi Zapata (Alberto Pizango è ancora nell’Ambasciata del Nicaragua a Lima dove ha chiesto asilo politico) si dimostra scettico: “Più che promesse dobbiamo vedere fatti concreti. Notiamo però che il governo fa adesso, con almeno 60 morti sulla coscienza, quello che noi avevamo chiesto da marzo”.Intanto è alta la polemica a Lima per le parole del presidente boliviano Evo Morales per il quale quello in corso in Perù è “un massacro voluto dal Trattato di libero commercio con gli Stati Uniti”, particolarmente punitivo per gli interessi del paese andino. “Quello che succede in Perù –ha sostenuto Morales- da noi in Bolivia non potrebbe succedere perché la nostra Costituzione obbliga alla consultazione con i nativi. In Perù invece il TLC consegna la selva amazzonica alle multinazionali che commettono un vero e proprio genocidio in America latina”. Il governo di Alan García, che ha affermato di considerare gli indios “cittadini di serie B”, gli ambientalisti il vero nemico del XXI secolo e considera i fatti di queste settimane frutto di un complotto internazionale orchestrato da La Paz e Caracas, ha concesso di recente asilo politico a tre ministri del governo di Gonzalo Sánchez de Lozada, accusati di aver assassinato più di 70 indigeni boliviani nella cosiddetta “guerra del gas” del 2003 e all’esponente dell’opposizione venezuelana Manuel Rosales sulla testa del quale pende un mandato di cattura internazionale spiccato dall’Interpol per decine di accuse di corruzione.
Gennaro Carotenuto