giovedì 4 giugno 2009

Ambiente vs. lavoro. Il caso Baikal

La fabbrica di cellulosa di Baikalsk

Il terremoto socio-politico messo in moto in Russia dalla crisi globale sta producendo ripercussioni di ogni genere. Non bastava il “caso” di Pikalyovo, ora - e forse non per caso con un protagonista comune - si sta aprendo il “caso” Baikal. Baikal, il celebre lago della Siberia orientale considerato una delle meraviglie naturali del pianeta; e Baikalsk tselluloznij i bumashnij kombinat (BTsBK), la fabbrica di carta e cellulosa che sulle rive dello stesso lago da decenni costituisce un insulto e una gravissima minaccia all’ambiente. Da un paio di giorni 43 operai della fabbrica hanno iniziato uno sciopero della fame per protestare contro la chiusura della fabbrica - e contro il fatto che la stessa non ha pagato gli stipendi.
E’ una storia emblematica e drammatica. La BTsBK, aperta nel 1966 - nonostante le proteste che già allora furono clamorose, e videro tra i protagonisti lo scrittore Valentin Rasputin, dava lavoro a duemila persone nella cittadina di Baikalsk, che conta quindicimila abitanti e che quindi dipendeva in larga misura dalla fabbrica per la sua sopravvivenza. In compenso, scaricava nelle acque del lago, considerate tra le più pure del mondo (è perfettamente potabile) una gran quantità di cloro usato per sbiancare la carta. Per quarant’anni la produzione (200.000 tonnellate annue di cellulosa) è andata avanti inquinando il lago, che non è morto solo per le sue straordinarie dimensioni che hanno consentito di “assorbire” in parte il carico di veleni; ma alla fine le proteste generali hanno avuto il sopravvento e l’anno scorso il governo federale, tramite l’agenzia per la tutela dell’ambiente, ha ordinato all’azienda che possiede gli impianti - guardacaso: la stessa BasEl, facente capo al super-oligarca Oleg Deripaska, che ha chiuso il suo cementificio a Pikalyovo - di introdurre il ciclo chiuso dell’acqua per la lavorazione (cioè di non scaricare più nel lago). Dato che con il ciclo chiuso, e con la crisi generale, i margini di profitto si sarebbero ridotti troppo, BasEl ha deciso in settembre di chiudere baracca, annunciando qualche giorno fa che la chiusura era definitiva. Senza pagare gli stipendi arretrati e lasciando la città di Baikalsk a terra. Va notato che la BTsBK è per il 51% di BasEl ma per il 49% appartiene allo Stato: il quale, per ora, non ha mosso un dito per salvare la situazione.
Di qui la disperazione e il furore degli operai della fabbrica nonché di tutti gli abitanti di Baikalsk. Allo sciopero della fame, che vede impegnata per ora solo una piccola parte dei lavoratori, si aggiungerà presto l’assedio del municipio locale e soprattutto - seguendo l’esempio tracciato da Pikalyovo - il blocco delle due arterie vitali per l’intera Siberia orientale: l’autostrada M53 e la ferrovia Transiberiana. E adesso la palla passa nuovamente a Mosca: per tener fede all’impegno ambientalista preso l’anno scorso, il governo federale dovrà trovare il modo di far sopravvivere la città di Baikalsk e dar lavoro a duemila persone (senza contare il vasto indotto che la fabbrica produceva) in una regione dove le possibilità sono davvero pochissime; oppure seguire la strada, che già molti suggeriscono, di nazionalizzare l’azienda e rimetterla in funzione, mandando al diavolo l’ambiente.
di Astrit Dakli

Quando la lotta paga. Il caso Pikalyovo

Il blocco stradale di ieri a Pikalyovo
La lotta aperta condotta dai ventunmila abitanti di Pikalyovo, la cittadina del settentrione russo di cui abbiamo parlato il 20 maggio scorso in questa rubrica, sta incominciando a pagare: sul “caso Pikalyovo” si stanno muovendo il governo regionale, il parlamento federale e lo stesso premier Vladimir Putin. Ricordiamo che la città ha visto chiudere negli ultimi mesi tutte e tre le grosse aziende che vi avevano sede, il che ha provocato non solo la perdita di lavoro e salari per oltre metà degli abitanti, ma anche il taglio delle forniture di gas, acqua calda e riscaldamento, che erano “coperte” da una delle tre aziende. Esasperati per la situazione, gli abitanti il 20 maggio hanno occupato per qualche ora il municipio, poi hanno scritto una lettera al presidente Medvedev e infine ieri, mentre era in corso il forum dell’economia a San Pietroburgo (capoluogo della regione di Pikalyovo) hanno bloccato per tutto il giorno l’autostrada A114, provocando una coda di auto e camion lunga oltre 400 chilometri.Per togliere il blocco, mantenuto con estrema durezza e determinazione nonostante i tentativi fatti da vari rappresentanti delle autorità per convincerli, gli abitanti hanno chiesto che il premier Putin in persona, durante la sua permanenza a San Pietroburgo, venga a trovarli per rendersi conto della situazione. E Putin - dicono fonti vicine al governo - avrebbe accettato di andare a Pikalyovo stasera o domani.
Ma se la visita di Putin ha un valore politico, certamente grandissimo, altre cose più concrete bollono comunque in pentola, a significare che la vicenda di Pikalyovo è vista con estremo allarme nelle alte sfere moscovite. Le autorità regionali di San Pietroburgo hanno comunque incominciato a stanziare una piccola somma - circa 250.000 dollari - per aiutare le famiglie disoccupate; altri soldi potrebbero venire dal governo federale, e intanto un gruppo di deputati alla Duma per Russia Unita (il partito del potere) sta elaborando un progetto per nazionalizzare almeno una - la più grossa - delle tre aziende che avevano uno stabilimento a Pikalyovo, la BasElZement, o addirittura tutte e tre. Se si procedesse su questa strada, sarebbe una fortissima indicazione di nuovo percorso per l’intera economia russa, visto che in tutto il paese le aziende che per via della crisi stanno chiudendo i loro stabilimenti periferici (e non solo quelli) sono tantissime, e di casi come quello di Pikalyovo se ne potranno presto contare decine se non centinaia.
di Astrit Dakli

Lanciate le mobilitazioni contro il G8 dell’Aquila

Si è tenuta Lunedì 1 Giugno l’assemblea nazionale dei movimenti presso il capannone della Rete 3e32 all’Aquila. Un’assemblea partecipata da diverse esperienze di lotta provenienti da tutta Italia e naturalmente dalle realta’ di lotta che in questi mesi si stanno mobilitando in abruzzo per una ricostruzione sociale e per rivendicare case e ricostruzione al 100% subito.
La lunga assemblea ha deciso un piano di mobilitazioni diffuse che si terranno dal 2 al 10 Luglio, a cominciare dalle iniziative nel Sulcis in Sardegna, G Sott8, e dalla manifestazione di Vicenza contro il Dal Molin del 4 Luglio. Dall’Aquila viene lanciato un’appello alla mobilitazione diffusa e radicale in quei giorni sui temi della ricostruzione dell’Abruzzo, della militarizzazione e della crisi.
Le reti aquilane si impegnano a costruire una giornata di Forum Nazionale la cui data e le cui modalità verranno decise dalle reti abruzzesi nei prossimi giorni.

Ascolta alcuni interventi:
Francesco Pavin, Presidio permanente No Dal Molin. - [ audio ]
Antonio Musella, Presidio permanente contro la discarica di Chiaiano.
- [ audio ]
L’appello finale dell’assemblea.
- [ audio ]

Intanto ieri una nuova mobilitazione degli sfollati ha attraversato il centro dell’Aquila aperto da uno striscione della Rete 3e32 con la scritta "Ricostruzione dal basso". Una mobilitazione importante che giugne a pochi giorni dal primo corteo partito da Fontana Luminosa e che ha rotto l’assedio della città nella zona rossa dell’Aquila.

Venezia - Planet Kurdistan

Da giugno a novembre 2009

Ovvero, i kurdi non hanno uno stato e si prendono un pianeta. Anzi, lo creano, mettendoci dentro suggestioni, idee, emozioni. E chiedendo a quanti lo visiteranno di contribuire alla sua definizione
Planet Kurdistan è questo: una sorta di laboratorio permanente che per i cinque mesi della Biennale si modificherà e interagirà con visitatori e cittadini.
Ospitato nella centralissima ex chiesa di San Leonardo, a Cannaregio (a poche centinaia di metri dalla stazione di Venezia), Planet K ha cominciato la sua vita sperimentale già una decina di giorni prima dell’apertura ufficiale della Biennale (della quale è evento collaterale).
Un grande cantiere nel quale sono intervenuti gli archietti del collettivo francese Exyzt, Rebiennale (l’associazione veneziana, nata dagli occupanti di case, che ricicla e restituisce alla città i ’rifiuti’ delle precedenti biennali), artisti kurdi e non solo, giornalisti, architetti, sociologi. Insomma un mondo molto variegato che ha contribuito alla costruzione di questo nuovo pianeta
Un progetto artistico e politico molto ambizioso. Che è partito dalla visita di Leyla Zana, ex parlamentare kurda incarcerata per dieci anni per aver parlato di pace, con il sindaco Massimo Cacciari ma che strada facendo ha affascinato, coinvolgendole, persone come Emiliano Gandolfi, architetto e co-curatore del Padiglione Italia alla scorsa Biennale architettura, il regista kurdo iraniano Bahman Ghobadi, giornalisti e grafici, il collettivo Exyzt (che stava al padiglione francese della scorsa Biennale architettura), gli architetti di Stalker (che lavorano con i rom).
E poi scrittori, irlandesi e baschi oltrechè kurdi, che hanno dato il loro contributo scrivendo i testi di un catalogo che è un libro e un oggetto prezioso di per sè. Scritti inediti, che portano le firme di Gerry Adams (presidente del Sinn Fein) a Joseba Sarrionandia (scrittore basco in clandestinità), da Fito Rodriguez (presidente dell’associazione scrittori baschi) a Danny Morrison (scrittore irlandese che fu portavoce di Bobby Sands nel periodo degli scioperi della fame del 1981).
E poi ancora inediti di Mehmed Uzun (il grande scrittore kurdo scomparso nel 2007), Musa Anter (scrittore kurdo assassinato nel 1992).
Il sindaco Massimo Cacciari nel suo intervento scrive che “ Venezia, oggi, continua a svolgere e a onorare quel ruolo di luogo di incontro e di dialogo tra popoli e culture, ruolo di “città di pace”, che la ha caratterizzata nei secoli, specialmente quale “ponte” tra Oriente e Occidente: nelle manifestazioni della Biennale specialmente alle Esposizioni d’arte e alla Mostra del cinema, questo ruolo ha trovato e continua a trovare e ad accrescere luoghi e momenti di particolare significato e di grande importanza”.
Anche Dario Fo e Franca Rame sottolineano l’importanza di Planet Kurdistan sia nella sua valenza artistica (è la prima volta che artisti delle quattro parti in cui il Kurdistan è diviso possono incontrarsi e scambiarsi opinioni, lavorando insieme a un progetto comune) che nella sua valenza politica.
Gli artisti che espongono, tredici dalle quattro parti del Kurdistan più la diaspora, hanno storie e percorsi molto diversi. Lavorano anche con materiali e intuizioni molto diverse. Ma si sono messi in gioco, presentando non solo la loro opera ma contribuendo alla creazione di nuovi lavori in situ legati ai tre temi che Planet Kurdistan ha deciso di approfondire, identità, confini e lingua.
Che poi sono i temi comuni a tutti i popoli che lottano per l’autodeterminazione, da cui la stretta collaborazione e l’importante partecipazione anche di baschi e irlandesi nella creazione di Planet K. Ilter Rezan, nato a Dersim ma esule in Germania, lavora su foto e immagini che trasforma utilizzando altri materiali. Azad Nanakeli, di Hewler ma fiorentino d’adozione, presenta una video installazione. In questi anni la sua ricerca sperimenta le possibilità del video. E con il video lavora anche il collettivo Berxwedan, giovani film makers e artisti di Diyarbakir e dintorni, che presentano un lavoro sui guerriglieri del Pkk. La pittura rimane lo strumento più usato, soprattutto in Iran.
Dal Kurdistan iraniano arriva una giovane pittrice, Bahar Maleky. I temi dell’esilio, la guerra, ma anche la cultura, lingua, identità negata sono presenti nelle opere di tutti gli artisti.

MASSIMO CACCIARI
sindaco di Venezia
Nel vasto panorama di eventi collaterali che arricchisce il pur già ampio panorama della 53° Esposizione internazionale d’arte della Biennale, spicca “Planet K”, nel duplice aspetto di laboratorio di idee e di programma di eventi, che trova ospitalità in Sala San Leonardo, dedicato all’incontro e al confronto sulla identità culturale kurda.
E’ importante e significativo che a esso partecipino artisti kurdi residenti nei quattro Paesi in cui il loro popolo è diviso, e altri provenienti dalla grande diaspora, diffusa specialmente in Europa, e con essi filosofi, giornalisti, sociologi, scrittori, registi, uniti nell’impegno di costruire un nuovo “pianeta”, in felice sintonia con il titolo della Biennale “Fare Mondi”.

Venezia, oggi, continua a svolgere e a onorare quel ruolo di luogo di incontro e di dialogo tra popoli e culture, ruolo di “città di pace”, che la ha caratterizzata nei secoli, specialmente quale “ponte” tra Oriente e Occidente: nelle manifestazioni della Biennale – grazie al concorso di artisti e di giornalisti d’ogni parte del mondo – specialmente alle Esposizioni d’arte e alla Mostra del cinema, questo ruolo ha trovato e continua a trovare e ad accrescere luoghi e momenti di particolare significato e di grande importanza.

Come evento collaterale, “Planet K” può ritagliarsi uno spazio prezioso in un palcoscenico di prestigio internazionale quale è l’Esposizione d’arte, e così divulgare ampiamente la conoscenza della produzione artistica e intellettuale kurda; nello stesso tempo si propone come spazio aperto a quanti vogliano incontrarsi e dialogare con gli artisti e gli intellettuali kurdi, in un libero scambio di opinioni. Due obiettivi ai quali auguro il migliore successo.

IL NOSTRO KURDISTAN
DARIO FO E FRANCA RAME

Il Kurdistan esiste, ma da 80 anni viene negato, smembrato e colonizzato dagli interessi di potenza europei e planetari: questo hanno documentato e continuano a documentare tanti e per questo sono in carcere con pene anche lunghissime. Il Kurdistan esiste, ha una sua lingua, cultura e storia: questo ha gridato Leyla Zana, quando è stata eletta in parlamento. Per aver pronunciato in kurdo, la lingua vietata, il giuramento e parole di fratellanza tra i popoli kurdo e turco, Leyla Zana è stata condannata a quindici anni di carcere. Ne ha scontati dieci. E oggi ancora rischia di finire in carcere perché continua a parlare di pace. In parlamento oggi ci sono venti deputati kurdi. Ma il loro partito, il Dtp, partito della società democratica, è minacciato di chiusura. I deputati sono costantemente sotto processo (per i parlamentari kurdi non c’è immunità), dirigenti e militanti sono fermati, arrestati, torturati. Il Kurdistan esiste e brucia nella carne di ognuno dei 35 milioni di esseri umani privati della loro identità trasformati in profughi in Turchia, Iraq, Europa.Brucia e vive nei fuochi del Newroz e nelle carceri in cui stanno seppellendo nell’isolamento 12.000 prigioneri politici, nella memoria dei kayiplar (gli scomparsi) e nelle piaghe delle torture. I resti dei desaparecidos kurdi e turchi sono rinvenuti in questi mesi nei cosiddetti pozzi della morte, gettati in fosse comuni, discariche, come rifiuti. Il Kurdistan esiste e brucia e vive nelle montagne della Resistenza, chiamata in occidente terrorismo. Purtroppo il nostro paese fornisce da anni alla Turchia le armi con cui si combatte la guerra in Kurdistan. Noi siamo teatranti. Per il nostro lavoro abbiamo avuto qualche guaio e qualche persecuzione. Ma è ben poca cosa rispetto a ciò che, per fare teatro, musica o cinema in kurdo e sui kurdi, affrontano gli artisti del Centro Culturale della Mesopotamia. Sapere che esistono e resistono ci fa pensare che c’è ancora speranza e senso per il nostro mestiere.
Quest’anno il Kurdistan con tutta la sua ricchezza culturale è alla Biennale di Venezia. Un evento storico. Che cade in un momento altrettanto storico. Per la prima volta con insistenza si parla di dialogo. I kurdi sono pronti e lo ripetono in ogni occasione. La guerra non si può vincere, né dall’una né dall’altra parte. Lo abbiamo già visto in Irlanda del nord. E lì, seppure con estrema fatica, alla fine è prevalso il dialogo. La Biennale per sua natura offre la possibilità di scambi, intrecci, incroci. L’augurio è che Planet Kurdistan possa in qualche modo rappresentare un tassello nel mosaico difficile del dialogo e del confronto aperto e franco.
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LEYLA ZANA
LINGUA IDENTITA’ IMMIGRAZIONE
La lingua, la madre lingua, per un individuo, per un gruppo, per la società, per una nazione è importante quanto per la vita e per la morte. Ogni individuo fin dalla nascita e fino alla morte, vive nella propria madre lingua lutti, gioie, favole, tristezza, felicità. Impara a conoscere la vita nella sua madre lingua. La personalità di un individuo è forgiata dalla madre lingua. Che serve anche a fare entrare in contatto con la società le proprie idee, sentimenti, pensieri. Chi viene allontanato dalla sua madre lingua non riuscirà ad usare bene altre lingue. Non riuscirà ad esprimere al meglio i propri sentimenti e le proprie idee. Privare una persona della propria lingua è un atto di umiliazione, oltre che la violazione di un diritto fondamentale. Non esiste un’altra terra come quella kurda sottomessa all’assimilazione dei turchi, arabi e persiani. I bambini kurdi ogni giorno entrano a scuola negandosi. Inevitabili sorgono le domande sull’identità. Chi sono? cosa sono? di dove sono? Siamo kurdi e siamo in Kurdistan. Noi da migliaia di anni apparteniamo a queste terre, abitiamo in queste terre. Oggi, nel ventunesimo secolo, siamo 40 milioni di persone. Ma nelle nostre terre siamo senza stato e senza costituzione. Nel 1639 la terra dei kurdi, per via dei dissensi tra ottomani e persiani, venne divisa in due con la complicità dei paesi europei. Nel 1923 invece, con il Trattato di Losanna, è stata divisa in quattro parti. I turchi dicevano: "Voi non siete kurdi, siete turchi della montagna", i persiani dicevano: "Noi siamo cugini, il nostro capo Kyros è comunque cugino dei kurdi". Gli arabi hanno detto: "Apparteniamo tutti alla stessa religione, siamo tutti figli di Allah e siamo tutti musulmani. A cosa serve un’altra identità. Non c’è bisogno di lingua, storia, cultura: la religione basta". Ogni popolo viene riconosciuto con la propria lingua, storia, arte, acqua e terra. Tutto, dal dolore, alle proteste, dalle preghiere all’arte, dalle canzoni alle maledizioni, viene imparato nella madre lingua... tutto questo è quello che forgia l’identità di un individuo, di un gruppo, di una nazione. Quando pensiamo all’immigrazione, inconsciamente dentro di noi proviamo tristezza. Difficilmente si lascia il proprio paese volontariamente. Si fa diventare il paesi di altri il proprio paese. Normalmente sono tre i motivi per cui le persone lasciano il proprio paese. Per fame, povertà, disoccupazione, disperazione. Oppure per motivi economici. La terza causa dell’immigrazione dipende dalla repressione, dalle difficoltà che lo stato pone a molte persone. L’immigrazione dei kurdi per la maggior parte non dipende da ragioni economiche o dalla povertà. Le terre del Kurdistan sono fertili e ricche di acqua. Se altri stati non avessero attaccato i kurdi, non avessero cercato il loro annientamento, se non ci fosse stata la guerra, le torture, gli arresti di massa, i kurdi avrebbero continuato a vivere nelle loro terre. Oggi i kurdi chiedono pace. Ai paesi occidentali chiedono di spingere per il dialogo e la soluzione del conflitto. Molti kurdi chiedono di poter tornare nelle loro terre. Come tutti i popoli del mondo anche i kurdi vogliono vivere in pace, potendosi esprimere nella propria lingua, potendo condividere con tutti, con pari dignità, la loro cultura, esperienza, storia.

Per info: Planet Kurdistan

mercoledì 3 giugno 2009

Turchia, centinaia di minori arrestati per terrorismo

Pochi classificherebbero Hebun Akkaya, diciassettenne dalla acuta voce nasale e dalle maniere educate, come sostenitore di una organizzazione terroristica. Ma il tribunale di Diyarbakir lo ha fatto. Capo d'accusa: l'aver protestato per le condizioni carcerarie di Abdullah Ocalan, capo del Partito dei Lavoratori Curdi (Pkk) attualmente in prigione.

Secondo la legge antiterrorismo del 2006, il manifestare a favore del Partito dei Lavoratori Curdi (Pkk), costituisce reato. Ma il tribunale di Diyarbakir lo ha fatto. Capo d'accusa: l'aver protestato per le condizioni carcerarie di Abdullah Ocalan, capo del Partito dei Lavoratori Curdi (Pkk) attualmente in prigione. Giudicata organizzazione terroristica dall'Unione Europea e degli Stati Uniti, il Pkk gode di un largo consenso tra la popolazione a maggioranza curda delle provincie del sud-est della Turchia."Non avrei mai pensato di finire in prigione per aver tirato una pietra", ha detto Hebun, che ha trascorso dieci mesi in carcere prima che iniziasse il suo processo. "Divento furioso quando penso che per il lancio di una pietra sono stati chiesti 28 anni. E' ingiusto". Attualmente rilasciato su cauzione ed in attesa di giudizio, il giovane rischia una pena ridotta di sette anni.Hebun è solo uno dei centinaia di minori, alcuni addirittura tredicenni, recentemente arrestati e imprigionati per effetto della nuova e rigida legge antiterrorismo; la quale consente di processare i minori al pari degli adulti e addirittura di condannarli "per crimini commessi in nome di un'organizzazione terroristica", per il solo fatto di aver partecipato ad una manifestazione. Critici e difensori del diritto sostengono che questa legge è profondamente ingiusta e vìola le convenzioni internazionali per la detenzione dei bambini."C'è una sproporzione tra il crimine e la pena", sostiene Emma Sinclair-Webb, ricercatrice turca presso Human Rights Watch (organizzazione per la difesa dei diritti umani con sede a New York). "Considerare ciò che questi bambini hanno commesso, come ad esempio il lancio di pietre o i danni a proprietà privata, al pari di un atto terroristico è molto grave. Questi bambini sono soggetti ad un sistema giudiziario che non li considera tali", aggiunge la Sinclair-Webb.Più di 1500 minori perseguiti per effetto delle leggi antiterrorismo. Come parte degli sforzi di avvicinamento all'Unione Europea, la Turchia ha modificato il suo codice penale per renderlo più simile a quello europeo e compatibile con il diritto internazionale. Ma gli osservatori indicano che nel 2006 il paese ha fatto un passo indietro a causa di un emendamento alla legge antiterrorismo, che ha reso possibile, in caso di crimini di tale natura, perseguire minori di età compresa tra i 15 e i 18 anni al pari degli adulti.In quello stesso anno, la Suprema Corte di Appello ha decretato che i bambini che prendono parte a manifestazioni di sostegno al Pkk possono essere accusati di agire in nome dell'organizzazione stessa.Secondo gli ufficiali turchi, 1572 minori sono stati perseguiti per effetto della nuova legge antiterrorismo e 174 di loro sono stati condannati tra il 2006 e il 2007. Altre centinaia di inchieste a carico di minori sono stati aperte da allora."La decisione della corte ha ripercussioni molto gravi in termini di legalità e libertà individuali", ha dichiarato Tahir Elci, un avvocato di Diyarbakir chiamato a difendere alcuni bambini attualmente in prigione. "Secondo la decisione dell'alta corte, gli inquirenti non necessitano di prove per affermare che qualcuno abbia commesso reato in nome del Pkk. La sola partecipazione ad una manifestazione di piazza costituisce prova sufficiente"."Possiamo ammettere che questi bambini abbiano lanciato delle pietre, ma non lo hanno fatto in nome del Pkk," - aggiunge - "sono bambini".La legge turca è in contrasto con il diritto europeo ed internazionale. La convenzione delle Nazioni Unite del 1989 sui diritti del bambino tratta nel dettaglio la questione dell'arresto e della detenzione di minori. Secondo quanto sancito dalla convenzione, che anche la Turchia ha sottoscritto, "l'arresto, la detenzione o l'imprigionamento di un bambino dovrà avvenire in conformità alla legge e dovrà essere impiegata solamente come misura estrema e per una durata di tempo limitata". Un ufficiale dell'Unione Europea presso Ankara afferma che l'arresto e la detenzione di minori desta "preoccupazione". Lo stesso ufficiale, rimasto anonimo per la delicatezza della materia trattata, ha aggiunto: "Non sono trattati come ragazzi e questo costituisce violazione delle convenzioni internazionali. Sono trattati alla stregua di terroristi e non sanno nemmeno per quale reato". Bruxelles aveva già in passato espresso preoccupazione per quelle che vengono considerate deficienze del sistema giudiziario turco in materia di minori. Lo scorso autunno un rapporto sui progressi della Turchia come potenziale membro dell'Unione ha sancito quanto segue: "Nonostante alcuni progressi del sistema di giustizia dei minori, il numero di tribunali minorili è ancora inadeguato, c'è carenza di assistenti sociali e il loro carico di lavoro è eccessivo". Per esempio ad Adana si è dovuto procedere al giudizio dei minori all'interno del tribunale ordinario per mancanza di quello minorile.Parla un giovane incarcerato: la prigione è stata un'autentica 'rivelazione' delle idee del Pkk. Gli inquirenti hanno difeso le pesanti sentenze emesse contro i bambini arrestati durante le proteste, affermando che queste costituiscono una risposta al tentativo del Pkk di mobilitare la gioventù curda contro lo stato. Ma Sinclair-Webb, di Human Rights Watch, sostiene che mandare i bambini in prigione potrebbe avere conseguenze molto gravi, anche sul piano della sicurezza nazionale. "Costituisce un processo di irrigidimento per i bambini ed è inoltre psicologicamente molto dannoso" continua Sinclair-Webb. "Se finisci dentro da bambino a causa di uno sconsiderato lancio di pietre, potresti uscirne da militante pienamente indottrinato". "Se si cerca di conquistare i cuori e le menti e far si che la gente non si unisca al Pkk, non è questo il modo di farlo", aggiunge. Un giovane, dopo tredici mesi di carcere per aver partecipato ad una manifestazione ed ora fuori sotto cauzione e in attesa di giudizio, dice di essere stato "cambiato" dalla sua esperienza in prigione. "Ora sono più consapevole", afferma il ragazzo sedicenne che ha chiesto di rimanere anonimo in attesa del processo, e che rischia una condanna a sette anni di detenzione. "Le cose che ho appreso in prigione su me stesso, sui Curdi, sul Pkk sono state come una rivelazione".

di Yigal Schleife, corrispondente del Christian Science Monitor dalla Turchia
traduzione a cura di Simone Luperti

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!