domenica 6 settembre 2009

Il film degli zapatisti

Corazon del tiempo - Los de abajo
Un film con il cuore del tempo

articolo di Gloria Muñoz Ramírez

Questo fine settimana gli zapatisti appaiono negli schermi dei cinema commerciali in un film di fiction in cui si rappresentano da soli. Nel lungometraggio, diretto da Alberto Cortés, le basi d'appoggio del Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) sono protagonisti di una storia d'amore nella quale recitano come gente delle comunità, insurgentes e milicianos e, anche, e non senza emozione, come soldati dell'Esercito Messicano. Loro, uomini e donne, fanno quasi tutto. Recitano e producono.
Alberto Cortes è arrivato sette anni fa nella Selva Lacandona, dalla sua prima visita non ha mai smesso di frequentare le comunità ribelli. Il progetto "Corazón del tiempo" ha preso forma poco a poco; tanto lentamente che fu solo dopo cinque anni che si potè iniziare a filmare. Tra una cosa e l'altra, Alberto e Ana, con il loro figlioletto in braccio, arrivavano a La Realidad con un proiettore e un sacco di film. Quelli di Chaplin, erano tra i preferiti del pubblico tojolabal che poteva fare mattina di fronte allo schermo. Prima di ogni cosa, doveva guadagnarsi la fiducia della gente che voleva filmare. E ce l'ha fatta.
Nel 2007 arrivano nella Selva Lacandona dei giganteschi camion con tutta l'attrezzatura per filmare. Però per arrivare a questo punto, Alberto aveva già vissuto sulla propria pelle la complessità dell'autonomia zapatista. Non è stato facile e più di una volta si è trovato di fronte a questo mondo indigeno che non solo non si muove con la logica del cinema, ma anche e soprattutto è autonomo e ribelle. Gli zapatisti si producevano da soli. Mancava solo che si dirigessero da soli, ma Alberto, con attenzione e soprattutto con rispetto, ha accompagnato gli zapatisti attori a far uscire la fuori una vena artistica che è propriamente loro.
Abbiamo chiesto a Donna Aurelia, la donna anziana che con il nome di Zoraida seduce il pubblico durante tutto il film, se le era piaciuto il risultato del suo lavoro . La risposta è stata tagliente: "no". Perchè: "perchè mi vedo molto vecchia, il resto sta bene". Mentre Alicia, attrice infantile innata , continua a salire sugli alberi e a nuotare nella laguna. La vita non è cambiata per loro né per chi ha partecipato al film. Questo poteva accadere solo in una comunità organizzata che ha curato fino al minimo dettaglio la sua partecipazione. Ed ovviamente anche grazie ad una produzione rispettosa che non ha interferito nelle loro vite.
La donna è il tema centrale di questo film che arriva così all'ombelico dell'autonomia. In queste comunità il cambio è lento e irreversibile. Ed in questo hanno già vinto. Un pubblico non vicino alla ribellione e alla dignità zapatista potrà avvicinarsi a questa realtà attraverso una pellicola che è fatta, senza dubbio, con il cuore del tempo.

Gloria Muñoz Ramírez - losylasdeabajo@yahoo.com.mx
http://www.corazondeltiempo.com/

venerdì 4 settembre 2009

«Absolutely must go», ovvero fuori dai piedi gli abitanti

Un interessante dibattito svolto al No dal Molin Festival

Se ne devono andare: sono queste le parole con le quali l’ammiraglio statunitense più alto in grado ha deciso il destino degli abitanti di Diego Garcia, la più grande delle isole Chagos situate nell’oceano indiano. A ricordarle, nel primo dibattito del Festival NoDalMolin, è David Vine che ha ricostruito insieme a Marie Sabrina Jean la sconvolgente storia di questo lembo di terra.

Possedimento britannico, l’isola viene adocchiata dai militari statunitensi alla fine degli anni ’50; situata in una posizione strategica, l’atollo diventa un luogo imprescindibile per il controllo del Medioriente e gli statunitensi lo vogliono a ogni costo. Non solo vogliono realizzare un avamposto militare, proiettato verso i tesori dell’Asia e dell’Oriente – è da qui che, recentemente, sono partiti i bombardieri verso l’Iraq e l’Afganistan – ma ne pretendono il controllo esclusivo; e gli abitanti? «Absolutely must go», appunto, e così sarà, come pretendono i gendarmi del mondo.

A sporcarsi le mani, naturalmente, non sono coloro che esportano in punta di baionetta democrazia e diritti umani; e, del resto, con qualche bigliettone verde – «nel 1966 – racconta David – gli statunitensi versano segretamente 14 milioni di dollari nella casseforti inglesi» – c’è sempre un governo vassallo – o alleato, se si preferisce – determinato a prodigarsi in segno di servile deferenza.

Nel 1966 apre il cantiere per l’installazione militare; dal 1968 a chi lascia l’isola per motivi di lavoro o di salute non viene permesso di rientrare, mentre i rifornimenti di cibo vengono tagliati e le condizioni di vita via via deteriorate. Ma il peggio, per gli abitanti indigeni, deve ancora arrivare: nel 1971, infatti, gli inglesi organizzano e portano a compimento la deportazione dell’intera popolazione. «Gli animali domestici - racconta Vine - sono stati riuniti in alcuni magazzini e uccisi con i gas di scarico di alcuni automezzi; quindi, davanti agli abitanti, li hanno bruciati». Nemmeno il tempo di protestare e tutti gli abitanti «vengono caricati - aggiunge Marie - con la forza su alcune navi e portati alle Mauritius e alle Seychelles» dove sono abbandonati sui moli senza un lavoro, una casa o qualcuno a cui rivolgersi. Famiglie divise - i genitori su una nave e i figli su un’altra - e mai più riunite, un viaggio infernale – con le persone stipate nei container - per la sola colpa di abitare nell’isola che gli statunitensi devono adibire a base di guerra. Oltre il danno, poi, anche la beffa: gli inglesi, infatti, dichiarano che gli abitanti dell’isola non erano nativi di Diego Garcia, ma originari di altre isole: la storia riscritta per giustificare un crimine.

Ma le donne e gli uomini di Diego Garcia non hanno accettato chinando la testa l’arroganza dell’esercito a stelle e strisce; sono le donne a mettersi alla testa del movimento che rivendica il diritto della comunità a ritornare nell’isola. «Noi siamo - scandisce Marie - i discendenti degli schiavi; abbiamo la pelle nera e i nostri occhi non sono azzurri; ma il colore della pelle non può essere la nostra condanna, vogliamo gli stessi diritti di qualunque individuo: vogliamo la possibilità di vivere. Per questo – prosegue tra gli applausi di un tendone dibattiti pieno di ascoltatori – non ci stancheremo mai di batterci per i diritti della nostra comunità».

E, negli ultimi anni, il movimento ha ottenuto vittorie importanti; come le tra sentenze delle corti britanniche che hanno ritenuto illegale la deportazione. «Peccato - ricorda David - che la camera dei Lord abbia respinto questi giudizi». E ora tocca alla Corte Europea per i Diritti Umani esprimersi.

Una storia, dunque, sconvolgente; alla quale si farebbe fatica a credere, se a raccontartela non fossero persone in carne e ossa, con le loro emozioni e la loro determinazione. E se, ha concluso Enzo, «per gli abitanti di Diego Garcia la deportazione è stata fisica, reale, per i vicentini questa assume un significato etico, morale, sentimentale»: quello di vedersi privati del diritto di decidere il futuro della propria terra e, quindi, della propria vita.

Ma Diego Garcia rappresenta anche la faccia della speranza: quella di una comunità che non si arrende all’arroganza di chi vorrebbe comandare il mondo con la violenza e la sopraffazione.

- Da sapere

L’isola di Diego Garcia è un atollo di 44 km², ed è la più grande dell’arcipelago delle Isole Chago, nell’Oceano Indiano, circa 1600 km a sud dell’India. L’isola è un Territorio Britannico d’Oltremare e fa parte dei Territori Britannici dell’Oceano Indiano. Dal 1971 l’isola ospita una base militare della Marina statunitense. Con gli anni la struttura è diventata tra le basi più importanti delle forze statunitensi nel mondo. La base è stata il punto di partenza per attacchi aerei durante la prima guerra del Golfo (1991), la guerra contro i Talebani in Afghanistan, e la guerra contro l’Iraq del 2003.


Per ascoltare il dibattito che si è svolto al Festival No dal Molin clicca qui

Ecuador, accuse alla Chevron: danni ambientali per 27 miliardi di dollari

Alessandro Grandi - Peacereporter

Botta e risposta fra l’amministrazione ecuadoriana e la compagnia petrolifera statunitense Chevron, una delle maggiori aziende del mondo. La compagnia Usa è stata denunciata una decina d’anni fa per via di alcune procedure poco chiare nello smaltimento dei rifiuti tossici e di petrolio grezzo che riversava nelle acque del Rio delle Amazzoni, causando danni irreparabili alla popolazione locale e alla natura circostante. Danni che secondo il governo di Quito potrebbero ammontare a più di 27 miliardi di dollari, il doppio del bilancio 2008 del paese andino. Insomma, un periodo nero, sicuramente più del petrolio che maneggia, per la compagnia statunitense che se la deve anche vedere con un film che uscirà nelle sale il prossimo 18 settembre e che avrà come soggetto una delle maggiori stragi ambientale che l’umanità abbia conosciuto: i danni di Chevron in Amazzonia. Il film "Crude" racconta di come la popolazione che ha vissuto nelle aree di estrazione usate da Chevron abbia sofferto di malattie come cancro, aborti spontanei, malformazioni. Danni riconducibili all’inquinamento emesso dalla compagnia petrolifera. Che oggi cerca di fare tutto quanto possibile per bloccare la diffusione del film. Forse perchè teme ripercussioni. Di certo perchè è consapevole di aver sfruttato in modo scostumato la zona ecuadoriana.
Insomma, un film che smaschera le attività inquinanti della Chevron dettate dalla corsa al profitto e appoggiate dalla politica estremamente neoliberista.

Per mettere un freno alla diffusione delle notizie sui danni causati, oggi, i responsabili della compagnia Usa hanno fatto sapere di essere entrati in possesso di una serie di video in cui alcuni rappresentanti del governo ecuadoriano tentavano di corrompere un giudice del tribunale che si occupa della causa contro la Chevron per farle perdere il processo per danni ambientali.
Le immagini sarebbero, a dire della Chevron, eloquenti. Si vedrebbero, infatti, il giudice Juna Nuñez, Carlo Garcia, deputato della maggioranza e altri due uomini mentre discutono di una mazzetta da qualche milione di dollari che sarebbe stata spartita una volta terminato il processo con una condanna alla compagnia Usa.
Un tentativo, a dire dell’amministrazione di Quito, utile solo a sviare l’attenzione sul dibattimento che con tutta probabilità potrebbe far emergere una seria condanna all’azienda petrolifera.
Quito, intanto, conferma: mai e poi mai si è cercato di influenzare gli apparati di giustizia nazionale.

Corazon del tiempo - Arriva in Italia il film che porta nel cuore profondo della Resistenza Zapatista


Corazon del Tiempo è la storia di un amore che ci porta, attraverso le passioni, i sentimenti, le scelte delle donne e degli uomini, a conoscere il cuore profondo di quell@ che dal 1 gennaio 1994 conosciamo come "gli zapatisti".

In Italia il film arriva accompagnato da Hermann Bellinghausen, giornalista de La Jornada, che ne ha scritto la sceneggiatura.

Proiezioni a cura dell'Associazione Ya Basta! dal 25 settembre a Venezia e poi a Milano, Toscana, Roma, Napoli.


Trama

In un villaggio del Chiapas, nel più profondo della Selva Lacandona, Sonia mette tutti di fronte alle intime rivoluzioni del suo cuore nel tempo della lotta e della resistenza.

“Promessa” nella maniera tradizionale di sposarsi con Miguel, valoroso dirigente giovanile della comunità, che conosce dall'infanzia, Sonia si innamora, ricambiata del tenente insurgente Julio.

Intorno a Sonia si muove, in un mondo quasi magico, la sorella minore Alicia, insieme alla nonna Zoraida, che con l'esperienza della vita vissuta, riporta sulla terra gli occhi avidi e sognatori della nipote.

La decisione di Sonia mette alla prova le volontà e le convinzioni.

Come in un onda espansiva la commozione si allarga alla famiglia, alla comunità ed anche alla stessa organizzazione armata che si nasconde nelle montagne.

Intanto il mondo si muove. L'Esercito del Governo occupa le terre ribelli e cerca di stringere l'assedio. Sotto il rumore degli elicotteri di guerra, le donne indigene fermano i soldati facendo muro con i loro corpi.

L'elettricità che il Governo non ha mai voluto dare sta per arrivare alla comunità: Miguel riceve l'incarico di far passare la turbina attraverso l'assedio militare.

Fedeli al fatto di essere se stessi e di cambiare costantemente, i moderni Maya della Selva Lacandona hanno intrapreso una trasformazione profonda per il Messico e forse per il mondo.

Con questa intensità trascorrono i giorni del tempo indigeno.

Mezzo secolo prima l'amore aveva permesso a Zoraida di lasciare la schiavitù dei suoi antenati nel latifondo per andarsene a “fondare” la selva insieme al suo uomo. Ora alla fine del secolo, l'amore fa sì che Sonia sfidi la tradizione ed anche le nuove “abitudini” rivoluzionarie.

Mateo è il tormentato padre di Sonia, Alice ed anche dell'ironico Valente.

Susanna, la madre, vive le contrarietà che la mettono di fronte alle insoddisfazioni del suo passato.

Mateo, Susanna così come gli altrio padri e madri della comunità appartengono alla generazione che ha rotto i ponti e ha detto "Ya Basta!" il Primo Gennaio del 1994. Loro sono quelli che videro e vissero la necessità di ribellarsi contro il “mal governo” .

Anche la natura partecipa alla storia. La milpa, i fiumi, le montagne e gli animali sono personaggi che influiscono nel destino dei Tojol Winik , gli uomini “verdaderos”,

La famiglia, l'assemblea comunitaria e l'esercito insurgente, immersi nell'occhio dell'uragano della storia, dovranno vivere la commozione di Sonia innamorata.

In un mondo in cui tutto cambia, in una terra straordinaria di indigeni liberi, che hanno deciso di non arrendersi, la passione di una donna si gioca il senso della sua libertà nel cuore del tempo.

Vedi il trailer

Il film è sottotitolato in italiano

Equipe

Regia Alberto Cortes

Sceneggiatore Hermann Bellinghausen

Direttore della fotografiaMarc Bellver

Direttrice Artistica Ana Solares

Addetto al suono Emilio Sebastian Cortes Guerra

giovedì 3 settembre 2009

Focolai di conflitti.

L’autostrada invaderà diverse comunità in resistenza

Alcuni gruppi legati alla criminalità appoggiano la costruzione della strada San Cristóbal-Palenque

di Hermann Bellinghausen

San Cristóbal de las Casas, Chis. 1º settembre. Nella regione indigena che attraverserebbe l’autostrada tra questa città e quella di Palenque sono presenti focolai di conflitti, in apparenza isolati, ma che in comune hanno che sono in comunità in resistenza, zapatiste o dell’Altra Campagna, che si oppongono a sacrificare i loro territori sull’altare del turismo.

Le località dove questi “conflitti” risultano più evidenti, lungo i 174 chilometri che coprirebbe l’autostrada – con una velocità media calcolata dalla Segreteria di Comunicazioni e Trasporti (SCT) di 110 chilometri l’ora – sono: Mitzitón, Bosque Bonito (appartenente al municipio autonomo zapatista 17 de Noviembre), Jotolá (Ocosingo), aderente all’Altra Campagna, ed il suo vicino San Sebastián Bachajón (Chilón), anch’esso aderente. Più avanti, ad Agua Clara, dove basi di appoggio zapatiste del municipio autonomo Comandanta Ramona gestiscono lo stabilimento balneare del luogo.

In tutti i casi c’è una controparte filogovernativa, a volte legata alla criminalità, che contende le terre e l’usufrutto delle risorse in certe comunità. La maggioranza sono del PRI, ma anche del PRD, in municipi governati dal PAN o dal PRI. Benché siano alleati del governo statale, per questo risultano essere alleanze scomode, per la varietà di azioni violente ed illegali in cui incorrono questi gruppi.

Le organizzazioni filogovernative che osteggiano le comunità che si oppongono alla strada sono principalmente L’Ejército de Dios e la chiesa Alas de Águila (oggi della Confederación Nacional Campesina, priista); l’Organizzazione Regionale dei Coltivatori di Caffè di Ocosingo (Orcao), di filiazione perredista, e l’Organizzazione per la Difesa dei Diritti Indigeni e Contadini (Opddic), priista e camaleontica.

I conflitti, ammorbiditi nell’informazione ufficiale ma non nei fatti, cominciano dal “chilometro zero” dell’autostrada, nell’ejido di Mitzitón, dove gli alleati del progetto appartengono alla chiesa Alas de Águila ed all’Ejército de Dios, organizzazione di stampo militare che proclama non avere altre armi se non la Bibbia ma che dal 2008 ha realizzato diverse aggressioni contro l’assemblea ejidale; il più grave due mesi fa, quando un gruppo di “non cooperanti” evangelici ha investito intenzionalmente diversi indigeni causando la morte, fino ad ora impunita, di Aurelio Díaz Hernández.

Il punto conflittuale successivo si trova nelle vicinanze del crocevia di Cuxuljá, dove la Orcao ha occupato e commercializzato terre recuperate della regione autonoma zapatista Che Guevara, in particolare Bosque Bonito, che quelli della Orcao hanno battezzato Jetjá.

Non lontano, a Carrizalito e dintorni, la Organización Campesina Emiliano Zapata (Ocez), subisce le aggressioni della Orcao, che insistentemente si ritiene paramilitare.

Nelle comunità di Jotolá e San Sebastián Bachajón (entrambe dell’Altra Campagna), il gruppo filogovernativo che li aggredisce, e che collabora con la prevista autostrada dietro la promessa di partecipare all’abbondanza turistica che prevede il governo e gli impresari (turistici, delle pompe di benzina ed appaltatori) è la Opddic. A volte sotto altre sigle, ma sempre del PRI, nei municipi ufficiali di Ocosingo, Chilón, Tumbalá, Salto de Agua e Palenque.

San Sebastián Bachajón si trova tra le cascate di Agua Azul e la regione autonomo zapatista San José. Lì, come hanno recentemente ricordato gli ejidatarios, “poliziotti statali e federali continuano ad occupare illegalmente il nostro territorio, minacciando con loro paramilitari della Opdicc e spogliandoci del nostro diritto di controllare il nostro territorio e le risorse naturali”.

A sua volta, gli ejidatarios di Jotolá la settimana scorsa hanno denunciato minacce ed aggressioni da parte di membri della Opddic “che sparano con le loro armi spaventando le nostre compagne e compagni ed i nostri figli.”

http://www.jornada.unam.mx/2009/09/02/index.php?section=politica&article=015n2pol

(Traduzione Comitato Chiapas "Maribel" Bergamo)

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!