martedì 8 dicembre 2009

Copenhagen - Al via il vertice sul clima


Tutti i riflettori della stampa internazionale sono puntati sull'apertura del Vertice dell'Onu sui cambiamenti climatici che si è svolta ieri nella città di Copenaghen. Un vertice che nasce nel solco delle contraddizioni della crisi climatica e energetica e si profila come un fallimento dal suo avvio. Nessun trattato verrà probabilmente siglato a conclusione del vertice, solo vaghe promesse che i diversi paesi faranno sulla riduzione delle emissioni di CO2.

La verà novità rappresentata da questo evento sono le energie che i movimenti in tutto il pianeta stanno sprigionando in partenza per la città della sirenetta. Per affermare che l'unica inversione di rotta possibile è quella che in basso i movimenti sociali stanno cercando di costruire giorno dopo giorno.

Decine di migliaia sono gli attivisti in marcia in queste ore per partecipare alla settimana di contestazioni, mobilitazioni e azioni dirette che si terranno dall'11 al 18 Dicembre. Diverse centinaia gli attivisti dei centri sociali italiani con gli zaini ormai pronti.

Intanto ieri si è svolta anche l'inaugurazione del Klima Forum, uno spazio di discussione e analisi costruito dal basso, con l'intervento di Naomi Klein.

Riportiamo l'articolo dal sito del Klima forum:

Last chance to save the world says Naomi Klein

Speaking at Klimaforum’s opening ceremony in Copenhagen Naomi Klein expressed her doubt whether an ambitious deal would be made at the Bella Centre. “The Bella Center is the biggest case of disaster capitalism. The deal we really need is not even on the table,” she said.

The Canadian author emphasized the importance of civil society to come together to take action on the climate crisis. “There is a difference between a deal and success and Klimaforum09 needs to be the lie detector when the politicians come out with a deal,” she added.

Naomi also had critical words to say about Hopenhagen and its branding extravaganza. “The globe has Siemens logo on the bottom and the whole event is sponsored by Coke. That is a capitalization of hope but Klimaforum09 is where the real hope lies,” she said.

“Klimaforum is not about giving charity to the developing world its about taking responsibility and the industrialized countries cleaning up our own mess,” she concluded.

Klimaforum09 the peoples conference is open from Tuesday 8th till Friday 18th December. The programme features close to 200 workshops, 70 exhibitions and a comprehensive film, theatre and musical events.

The Danish organizers expect up to 10,000 daily visitors and guest speakers include Vandana Shiva, George Monbiot, Bill McKibben, Tim Jackson and Wangari Maathai.

“We would like to tell you that climate change is already seriously impacting us. It brings floods, droughts and the outbreak of pests that are all causing harvest failures,” said Henry Saragih, general coordinator of the global peseants movement Via Campesina, also speaking at the opening cermony.

Nnimmo Bassy, Head of Friends of Earth International, stressed the importance of people getting together to take action.

"At Klimaforum09 we find the real people taking real action. Poluters must be hold accountable and policy makers must start listening to the people," he said.

lunedì 7 dicembre 2009

Studente kurdo ucciso dalla polizia a Diyarbakir

amed7dic
Aydin Erdem aveva 23 anni. E’ morto ieri quando un poliziotto lo avrebbe colpito alle spalle. Un singolo colpo, partito dalla pistola di ordinanza. Alla schiena, a distanza ravvicinata. Aydin come migliaia di altri giovani stava protestando nella città kurda di Diyarbakir contro le condizioni di detenzione del leader del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan) Abdullah Ocalan. In realtà la protesta che da dieci giorni ha invaso le città kurde, le metropoli turche e molte città europee, è rivolta al governo turco che di fatto ha fin qui respinto la richiesta di dialogo ripetuta dal Dtp (partito della società democratica), dalla società civile kurda, dallo stesso Pkk e da Ocalan.

Anche in queste ore in molte città kurde continuano le manifestazioni e gli scontri.
L’avvocato e presidente della sezione di Diyarbakir dell’associazione per i diritti umani (IHD), Muharrem Erbey ha assistito all’autopsia sul corpo del giovane Aydin Erdem. L’avvocato ha confermato che il ragazzo è stato colpito alle spalle, a distanza ravvicinata.

Abdullah Ocalan è dal 1999 unico detenuto nel carcere di massima sicurezza dell’isola di Imrali. Ma da un paio di settimane il governo ha trasferito il presidente del Pkk in un nuovo edificio realizzato sull’isola. Qui Ocalan è in ‘compagnia’ di altri sei detenuti. In realtà continua a rimanere in isolamento in una cella più piccola di quella precedente. E’ stato lo stesso Ocalan a denunciare, attraverso i suoi legali, di sentirsi “quasi morto. La cella – ha detto – è di sei metri quadrati. Non riesco a respirare. C’è una sola finestra sul soffitto e questo mi impedisce di ricevere ossigeno”.

di Orsola Casagrande

Grecia - La lotta continua ad un anno dall'omicidio di Alexandros

Mentre in tutta la Grecia si ricorda Alexandros Grigoropoulos, la repressione colpisce chi combatte le crisi


Di fronte a 50 dipartimenti universitari occupati la soluzione che il nuovo governo socialista riesce a dare è “tolleranza zero” per i manifestanti e l'annuncio di 13000 poliziotti a presidiare Atene durante le commemorazioni di Alexandros Grigoropoulos.Per comprendere meglio questo fine settimana ellenico bisogna ricordare che la crisi economica si è manifestata chiaramente ai greci. La disoccupazione non cessa a diminuire e trovare un part-time in un ristorante è tanto difficile quanto ottenere un posto fisso. Tra quella ufficiale e quella nascosta, la disoccupazione colpisce quasi una persona su cinque. Dati allarmanti a cui vanno aggiunti i problemi macroeconomici legati alla difficile situazione delle banche e quelli dovuti al titanico debito pubblico. Una situazione talmente chiara e tanto grave che non si può nascondere né all'opinione pubblica né, tanto meno, ai giovani e agli studenti; uno scenario tanto problematico per cui la classe politica non potrebbe più nascondersi dietro le colonne del parlamento. Eppure la storia si ripete con precisione visto che il potere politico sceglie la via più semplice e più ceca: la via della repressione. Il venerdì che ha preceduto le commemorazioni il Ministro per la Pubblica Sicurezza Chrisochoïdis ha affermato che “Atene non sarà consegnata alla violenza” e ha aggiunto “non tollereremo atti di terrore nella città”. Ma è passato troppo poco tempo per non ricordare cosa è successo in quel vicolo pedonale poco sopra la piazza di Exarchia. Il terrore è quello in cui si sveglia ogni giorno la generazione di Alexandros perchè alla disoccupazione e allo smantellamento dei beni comuni si aggiunge un altro pugno nello stomaco da sopportare. Nel tempo che scorrerà da un anniversario all'altro, la generazione di Alexandros dovrà trovare la forza per non dimenticare l'uccisione brutale di un proprio coetaneo. Un adolescente che a volto scoperto gridava il proprio dissenso. Tra sabato e domenica, ad un anno di distanza da quella tragica sera, sono scese in piazza migliaia di persone in tutta la Grecia: Lamia, Volos, Arta, Giannina, Salonicco, Preveza, Argo, Sparta, Karditsa, Kallithea, Patrasso, Xanthi, Corfù, Irakleio, Larisa, Mitilini e Atene sono state attraversate da cortei rabbiosi. E' con la sua memoria e con le ombre a mezzogiorno che i giovani non smettono di lottare e ricordare. Ma nel frattempo la repressione non si ferma e in riferimento alla giornata di domenica il partito Syriza ha parlato di violenza inaudita della polizia, mentre il Ministro Chrisochoïdis si è complimentato in serata per le operazioni delle forze dell'ordine: 41 arresti a Keratsini, quartiere a Nord-Ovest del Pireo, 33 arresti per gli episodi di domenica mattina ad Omonia, nel centro di Atene, ed 8 arresti nell'irruzione della polizia dentro l'Università Aristotele di Salonicco grazie all'autorizzazione del rettore.Intanto ad Exarchia e nei dintorni del Politecnico continuano i lanci di molotov e i fronteggamenti tra polizia e manifestanti. La lotta continua, l'eterno ritorna.


Il business della conoscenza

Speculazione immobiliare, speculazione formativa: l'economia della conoscenza cinese cambia le regole del valore



Il diario di viaggio di Paolo Do - Shanghai (Cina)

In Cina l’ammontare complessivo dei debiti non ripagati attraverso carte di credito è aumentato del 126.5% nel solo ultimo anno - secondo il portavoce di Bank of China. Beijing ha infatti incentivato le banche ad espandere il settore delle carte di credito con la speranza di far lievitare così anche i consumi. Il risultato di questa strategia è che nel giro di un solo anno il sistema bancario si è trovato di fronte agli stessi problemi dei paesi avanzati, seppure con le dovute proporzioni. La media di chi possiede una carta di credito in Cina é dello 0,13% a persona; tale dato è molto distante dai 300 milioni di americani e dalle loro 1.5 bilioni di carte di credito possedute (questo dato secondo l`ufficio statistico americano).

Mentre il credito al consumo sembra problematico, in Cina non lo é l`acquisto delle proprietà immobiliari, e questo grazie anche agli studenti. Se per i figli di migranti mandare un figlio all`università è un investimento, una chance per uscire dalla miseria, nella Cina di oggi per le famiglie ricche mandare un figlio a studiare a Pechino o a Shanghai rappresenta sì un investimento, ma di ben altra natura. Questi nuovi studenti hanno rotto di fatto le cinta del classico campus universitario con la speculazione immobiliare: secondo le agenzie immobiliari Zhongda Hengji e Zhujia, solamente nella città di Pechino il 10% delle transazioni delle proprietà immobiliari sono acquisti di case da parte di studenti che si trasferiscono per studiare.

Tuttavia non sempre è necessario andare all`università per poter dire di avere una laurea. Ad Hong Kong si e` scoperto che sono molte le agenzie finanziarie che chiedono ai propri dipendenti di “inflazionare il proprio curriculum” formativo e lavorativo con false esperienze per procurarsi quei visti di lavoro più facilmente ottenibili riservati agli High Skill e per poter richiedere parcelle notevolmente più alte ai propri clienti.

Ma la menzogna è un campo di liberi battitori. Accade così che in una company dove tira aria di licenziamenti, un gruppo di impiegati scopre e pubblicizza il fatto che il loro datore di lavoro, il CEO Tseng Jinsui della Neo Neon di Hong Kong, una company quotata sul listino della borsa, non ha mai ottenuto quel dottorato che il suo CV invece vanta. In un mercato fondato sulle informazioni e sulla fiducia, la pubblicizzazione di questa notizia da parte di alcuni attivisti ha di fatto ribaltato i rapporti di forza e costretto chi voleva licenziare...ad essere licenziato.

domenica 6 dicembre 2009

15 mila in piazza in Turchia per Ocalan, un morto



Notizie di Agenzie


Uno studente e' stato ucciso da un proiettile sparato dai poliziotti durante una manifestazione a favore di Abdullah Ocalan, co-fondatore del Pkk. Circa 15mila persone sono scese in strada a Diyarbakir nel Kurdistan turco per esprimere il loro sostegno al leader del Partito curdo del lavoratori.

Quando gli agenti hanno cercato di fermare la marcia, dalla folla e' partita una fitta sassaiola e la polizia ha reagito con gli idranti e sparando gas lacrimogeni. Qualcuno pero' si e' messo a sparare con proiettili veri: uno studente di 23 anni e stato colpito a morte a altre due persone - tra cui un agente - sono rimaste ferite.

Secondo fonti di sicurezza i feriti sono 3 e le persone arrestate 113. Nella citta' sudorientale di Yuksekova, durante un'altra manifestazione, un 19enne e' stato gravemente ferito alla testa da un candelotto di gas lacrimogeno.

La manifestazione era stata organizzata dal Partito della societa' democratica curda che lamenta le condizioni in cui Ocalan viene detenuto nel carcere sull'isola di Imrali dove si trova dal 1999.

Fino al mese scorso il leader del Pkk era l'unico detenuto a Imrali, ma dopo le critiche della Commissione del Consiglio d'Europa per la prevenzione delle torture, le autorita' giudiziarie turche hanno deciso di rompere l'isolamento e di trasferire nel penitenziario altri detenuti.

Alcune immagini

Ci sono stati scontri anche a Mersin (dove i commerciati hanno chiuso i negozi) a Semdinli(8 arresti e camion dato alle fiamme) Siirt(13 arresti)Batman(100 arresti)barricate stradali a Nusaybin

Valuta umana

Come il negoziato Shalit ha cambiato i rapporti di forza nei Territori Palestinesi

"Non trattiamo coi terroristi". Un mantra recitato a lungo dalle democrazie d'Occidente. In realtà, presto o tardi tutte le maggiori potenze hanno abdicato a discussioni coi militanti, dall'Irlanda del Nord all'Iraq. Oggi Israele sembra vicina a concedere ai nemici giurati di Hamas l'opportunità di fare un gran bel colpo, con la (ventilata) liberazione di un numero di prigionieri vicino al migliaio. Quali conseguenze trarre da tutto ciò?

Ovviamente Israele rimane in credito di circa 10 mila palestinesi ancora in carcere, ai quali se ne sommano settimana dopo settimana numerosi altri. Ciononostante, la liberazione massiccia di prigionieri 'irriducibili', una concessione mai fatta ad Abu Mazen e all'Anp, rappresenta un deciso cambio di rotta nella politica israeliana.

Nel 2007, Israele ha rilasciato 429 detenuti, una mossa vista da più parti come un aperta manifestazione di sostegno al leader dell'Anp. La maggioranza di questi prigionieri ha commesso piccoli reati. Alcuni erano probabilmente innocenti. Da allora, Abu Mazen non ha dimostrato alcuna intenzione di usare la mano forte. La sua credibilità è precipitata all'indomani della cattiva gestione del rapporto Goldstone e per l'incapacità di controllare l'espansione degli insediamenti, al punto da portarlo all'annuncio di dimissioni. Sotto la sua leadership l'Anp ha tenacemente perseguito una politica di negoziato, invece di usare la forza e le minacce, solo per scoprire che i loro partner nel 'processo di pace' non stavano mostrando serietà alcuna nell'adempimento dei loro obblighi.

I fallimenti di Abu Mazen, determinati da Obama, Netanyahu e i suoi predecessori, hanno rafforzato il sostegno popolare ad Hamas. Questi ultimi stanno rapidamente diventando l'unica fazione palestinese che Israele prende sul serio, non per scelta, ma per forza. Sotto il loro vessillo, Gaza è rimasta libera da check-point e insediamenti. Hamas governa senza rivali, una cosa che le autorità della Cisgiordania possono solo sognarsi di fare. Non fosse stato per la raffica di arresti israeliani, da loro incoraggiati, dei leader di Hamas in Cisgiordania, è altamente probabile che avrebbero preso il potere anche lì.

I massacri e l'assedio di Gaza hanno rafforzato la loro leadership, l'opposizione interna è stata polverizzata, e per la gente che ha votato per loro in maniera schiacciante, rappresentano la vera voce della resistenza. Con finanziamenti da altri Paesi musulmani come l'Arabia Saudita, sono stati capaci di forgiare uno stato a loro immagine e somiglianza, saldamente islamista, ben organizzato e intransigente. Hanno alleati potenti anche in Egitto, da dove traggono rifornimenti attraverso una rete di cunicoli sotterranei, e dove tengono nascosta la loro gallina dalle uova d'oro, Gilad Shalit.

Israele si trova progressivamente costretta a dare segnali di buona volontà, aprendo i confini per consentire l'ingresso a Gaza di 600 vitelli per l'Eid el-Fitr, la festa di fine Ramadan, o di libri e aiuti umanitari, precedentemente - e gli aiuti umanitari in maniera criminale - proibiti. Oggi ci sono linee di comunicazione permanenti tra Israele e quei 'terroristi' che - disse Olmert - "non potranno mai diventare un partner".

Che Ahmad Sadat e Marwan Barghouti siano materia di discussione all'interno dell'annunciato scambio, è il riconoscimento della ritrovata forza di Hamas. Barghouti avrebbe il cammino spianato verso la vittoria, in qualsiasi elezione presidenziale. E' lui la figura dotata del potere necessario a unire le fazioni belligeranti di Hamas e Fatah. Se Israele volesse davvero una Palestina unita come vicino di casa, avrebbe dovuto liberarlo tempo fa, a dispetto del crimine di omicidio per cui è stato condannato.

Naturalmente, l'annunciato rilascio di prigionieri di alto profilo, condannati all'ergastolo per reati gravi, sta alimentando un acceso dibattito in Israele. Consapevole di un potenziale disastro d'immagine, il governo israeliano non ha reso pubblica la lista dei prigionieri, innescando lo sdegno dei parenti delle vittime, nonché il loro ricorso all Corte Suprema per ribaltare tale decisione. Il portavoce dei familiari, Dan Sion, ha detto che "il governo lavora al negoziato in modo furtivo". Come dargli torto? Sebbene Netanyahu abbia promesso un dibattito pubblico, è del tutto verosimile che le scelte del governo rimangano le stesse.

L'esercito è determinato nell'assicurare con ogni mezzo il ritorno a casa di Shalit. Se questo significa trasformare Hamas in un eroe popolare, ebbene, è un prezzo che sono disposti a pagare. Per l'Autorità nazionale palestinese, che ha sprecato anni in colloqui sterili, si tratta di un boccone amaro. Per la comunità internazionale è un ulteriore monito che la forza è l'unica valuta con la quale tratta il governo israeliano.

Kieron Monks Giornalista di Electronic Intifada e Don't Panic
Traduzione di Luca Galassi
Scritto per
Peace reporter

Sahara Occidentale - Continua lo sciopero della fame di Aminetu Haidar

Peggiorano le condizioni di salute di Aminetu Haidar
in sciopero della fame ormai da più di venti giorni.


Haidar è la più famosa attivista del Sahara Occidentale e da anni lotta perchè sia riconosciuta l’indipendenza del suo paese, ex-colonia spagnola, ceduta al Marocco secondo gli accordi di Madrid del 1975.

Il governo marrocchino, su ordine del re Mohamed VI, ha rifiutato le richieste del governo spagnolo di concedere un passaporto marrocchino all’attivista sahariana Aminetu Haidar, espulsa dal suo paese il 14 novembre scorso, per questo la donna ha iniziato dal 16 novembre lo sciopero della fame nell’aeroporto di Lanzarote (Canarie).

Il caso è seguito con attenzione in Spagna.

Il governo marrocchino in un comunicato ha rifiutato “qualsiasi intervento straniero nel caso Haidar“, affermando, inoltre, di “non voler cedere al ricatto dell’attivista, il cui compartamento è una provocazione e una sfida alle autorità marrocchine”. Il ministro degli esteri spagnolo, Miguel Angel Moratinos, aveva offerto a Haidar la cittadinanza spagnola, ma la donna si è rifiutata perché “non vuole essere una straniera nel suo paese”.

Intanto crescono le prese di posizione a favore dell'attivista dei diritti umani.

Pubblichiamo un'intervista rilasciata da Aminetu Haidar

Ha appena ricevuto negli Stati Uniti il premio al valore civile della Fondazione John Train ed è ora nelle Canarie per parlare di violazione dei diritti umani nel Sahara Occidentale. Quale è la situazione attuale?

La situazione è realisticamente allarmante. Il Governo e le forze di occupazione marocchine hanno raddoppiato la repressione cambiando i metodi repressivi. Stanno trasformando i processi civili in militari, senza il rispetto di nessuna norma, facendoci praticamente ritornare all’epoca di Hassan II. Il regime marocchino sta rivelando il suo vero volto, che non ha proprio niente a che vedere con quello che cerca di trasmettere, in modo ingannevole, al mondo.

Attualmente, la maggioranza dei difensori dei diritti umani nel Sahara Occidentale è in prigione e coloro che non sono prigione sono praticamente agli arresti domiciliari, con i documenti requisiti e quindi sprovvisti di identità nella propria terra. Le scuole e le istituzioni educative sono sotto la vigilanza della polizia. Alcuni giorni fa, due studenti saharaui sono stati imprigionati senza avere diritto ad un avvocato o a qualcuno che li potesse difendere. Sono abbandonati.

A che cosa attribuisce l'aumento della repressione di cui lei parla?

Ci sono due ragioni. La prima è raggiungere l’obiettivo di far fallire in qualche modo il processo di pace già avviato dalle Nazioni Unite e le trattative che si stanno portando a termine tra il Fronte Polisario ed il Marocco per dare una soluzione al conflitto generato dall'occupazione del Sahara Occidentale.

Il Marocco si è accorto che questo processo non segue la strada desiderata, ma si indirizza verso il diritto del popolo saharaui all'autodeterminazione, con il riconoscimento della comunità internazionale.

L'altro motivo è che il Marocco si sta rendendo conto dell'attaccamento dei saharaui al loro legittimo diritto alla libertà e all'indipendenza. Questo si sta diffondendo nella popolazione e le nuove generazioni che stanno tenendo alta la loro bandiera in tutto il Sahara.

Quante persone calcola che stiano subendo direttamente questa repressione?

Ci sono più di 40 prigionieri politici saharaui nelle prigioni marocchine. Di questi, dieci sono difensori dei diritti umani, persone che semplicemente si battono per i diritti umani, come i sette rapiti l’8 ottobre all’aeroporto di Casablanca al loro ritorno dagli accampamenti dei rifugiati di Tinduf. Uno di questi rapiti è il vicepresidente della mia organizzazione, Alí Salem Tamek. Ci sono prigionieri politici sparsi in tutte le prigioni, compreso il Carcere Nero di El Aaiún.

Quella del Carcere Nero è una situazione molto dura in cui da un mese alcuni stanno facendo lo sciopero della fame.

Inoltre ci sono i 500 saharaui scomparsi dal 1974 ed altri 15 giovani scomparsi dal 2005. Un esempio lampante della repressione è quello che è successo alla sorella di uno dei compagni rapiti a Casablanca che solo per il fatto di essere andata a trovarlo, ora è in quella prigione da due mesi. Semplicemente per aver cercato di fare visita a suo fratello.

Come sta reagendo la comunità internazionale? Dà il proprio sostegno e supporto?

C'è una importante reazione di condanna, soprattutto dopo il sequestro dei sette attivisti difensori dei diritti umani. L'hanno denunciato Amnesty International, il centro Robert Kennedy, Human Rights Watcht o governi come quelli della Gran Bretagna, Svezia, Irlanda ed altri paesi.

E come vede la posizione della Spagna?

Con molto rammarico dobbiamo dire che il governo spagnolo rimane spettatore. Perfino sul tema della violazione dei diritti umani non abbiamo visto reazioni di alcun tipo, malgrado noi sperassimo e pensassimo che avrebbe dovuto essere il primo a reagire, perché gli scomparsi e gli imprigionati sono proprio spagnoli, figli o nipoti di spagnoli. Senza tener conto della responsabilità politica, storica e giuridica rispetto ad un territorio che fu una sua provincia.

Perché i partiti e le associazioni del Marocco non denunciano questa situazione?

C'è un partito marocchino, Via Democrática, che ha condannato duramente la repressione. Anche l'Associazione per i Diritti umani del Marocco ha chiesto la libertà incondizionata dei sette.

Gli USA hanno mediato in questo conflitto con poco successo. Crede che l'arrivo di Obama alla presidenza possa dare una svolta?

Nel discorso del signor Obama si notano i suoi desideri di cercare la pace e la stabilità nel mondo. Spero che il premio Nobel che gli hanno dato, lo porti anche a pensare e ad agire per una soluzione giusta e definitiva al conflitto. Il Fronte Polisario, di volta in volta mette in guardia e minaccia di ritornare alla lotta armata.

C’è questa possibilità o si è già scartata l'opzione della lotta armata?

Io sostengo i diritti umani nelle zone occupate, quello che mi domanda è una decisione che spetta al Fronte Polisario. Tutte le mie energie vanno verso la pace e la mia speranza è che regni la pace e che ciò non si trasformi in guerra. Ma desidero anche che la comunità internazionale cerchi una soluzione rapida e giusta per evitare che il Fronte Polisario possa prendere la decisione definitiva di ritornare alle armi. C'è una cosa che dal mio punto di vista è un'aberrazione ed è che la missione dell'ONU nel Sahara, la Minurso, è l'unica missione di pace nel mondo che non contempla la difesa dei diritti umani nel territorio sul quale agisce.

Teme di essere oggetto di rappresaglia quando ritornerà la prossima settimana nel Sahara, dopo questo periodo passato negli USA e nelle Canarie denunciando la violazione dei diritti umani?

Non ho paura, ma sono quasi sicura di due possibilità: una, che possano sequestrarmi all’aeroporto, come hanno fatto coi miei sette compagni. L’altra che mi requisiscano tutti i documenti affinché io non possa più uscire dal Sahara. Una di queste due cose accadrà. Sì, temo che subirò la repressione del Marocco, quando tornerò nel Sahara.


Femminicidi: a Ciudad Juárez non si muore per caso


di Chiara Calzolaio

A Ciudad Juárez non si muore per caso. Questo il primo, atroce, pensiero che passa per la testa a chiunque abbia conosciuto un po’ da vicino la realtà della città alla frontiera tra Messico e Stati Uniti.

A una settimana dall’omicidio di Jesús Alfredo Portillo Santos, ventisettenne studente di disegno grafico all’Università Autonoma di Ciudad Juárez, attivista, genero di Marisela Ortiz Rivera, militante di una delle associazioni più conosciute al mondo di familiari di vittime dei femminicidi di Ciudad Juárez, Nuestras Hijas de Regreso a Casa, sento l’urgenza di tracciare dei fili, di sottoporre ad una riflessione comune alcune questioni e dire che la verità ufficiale non mi convince.

Il 29 novembre scorso Jesús Alfredo Portillo Santos è stato ammazzato da un commando di sicari mentre si dirigeva ad un negozio di quartiere, non lontano da dove viveva. I giornali locali riportano la dinamica dei fatti: due giovani che stavano scappando da un commando si sono rifugiati in un alimentari, i sicari hanno sparato provocando la morte dei due ragazzi ma anche di Jesús Alfredo e di un altro passante. Loro, e centinaia di altri uomini e donne finiti negli ultimi due anni sotto il fuoco della guerra tra e contro il narcotraffico, sono “vittime dell’insicurezza”, di quell’aumento esponenziale di violenze e criminalità che la città ha vissuto dai primi mesi del 2008, quasi in coincidenza con l’arrivo dell’esercito a Ciudad Juárez.

Dello stesso parere il rettore dell’Università Autonoma di Ciudad Juárez che, in una conferenza stampa a poche ore dall’accaduto, ha rivolto un appello alle autorità perché risolvano i crimini e rendano giustizia a chi, come Alfredo, “si è trovato nel luogo sbagliato, nel momento sbagliato”. Dal dicembre 2008, otto tra studenti e professori della sua istituzione sono stati uccisi, senza dimenticare le due giovanissime studentesse (Lidia Ramos Mancha e Mónica Janeth Alanís Esparza, di 17 e 18 anni) che risultano ancora scomparse.

Sembra tutto chiaro. Semplice e atroce. In una città in cui tra gennaio e novembre 2009 sono state uccise 2300 persone, in cui gli omicidi in strade e luoghi pubblici sono quotidiani, in cui commandos armati hanno attaccato locali pubblici e centri di recupero per tossicodipendenti, bruciato negozi e attività, le “vittime collaterali”, il passante che muore per una “bala perdida”, per un proiettile vagante, sono drammaticamente frequenti.

Tutto questo è vero. Eppure c’è qualcosa che non torna. Tra queste “vittime collaterali” ci sono nomi come quelli di Gerardo González Guerrero, professore di psicologia, ammazzato nel dicembre 2008, e di Manuel Arroyo, professore di scienze sociali e fondatore della OPI, l’Organizzazione Popolare Indipendente, ucciso nel maggio scorso, che sono ben conosciuti tra i movimenti sociali che fervono, malgrado tutto, in una città che da lontano sembra solo violenza. E c’è anche Armando Rodríguez, giornalista del maggiore quotidiano locale, El Diario, ucciso dopo anni di minacce nel novembre 2008, per il suo lavoro scomodo e pericoloso: fare informazione onesta sui temi del crimine organizzato, dei femminicidi, della militarizzazione della città e delle violenze ad essa connesse.

E il pensiero che a Ciudad Juárez non si muore per caso fa capolino. Non si muore per caso (neanche) a Ciudad Juárez, soprattutto se sei attivista e se tu e i tuoi familiari avete ricevuto minacce. Marisela Ortíz vive sotto scorta da anni. Ma Nakar, sua figlia, e Jesús Alfredo, che era il compagno di vita e di lotte di Nakar, no.

Non si muore per caso (neanche) a Ciudad Juárez, soprattutto se il giorno prima dell’omicidio di Jesús Alfredo è stata rapita, stuprata e ammazzata Flor Alicia Gómez López, nipote di due attivisti di Chihuahua (capitale dell’omonimo stato di cui fa parte anche Ciudad Juárez), Eduardo Gómez e Alma Gómez Caballero, di un’altra importante ONG per la difesa dei diritti delle donne, impegnata da anni per avere giustizia per i femminicidi con Justicia para Nuestras Hijas.

Non si muore per caso (neanche) a Ciudad Juárez, tanto più se la stragrande maggioranza di questi crimini sono ancora oggi impuniti, dall’omicidio di Armando Rodríguez ai più di 500 femminicidi, dai migliaia di morti ammazzati nella guerra tra e contro il narcotraffico al femminicidio di Flor Alicia, che aveva 23 anni e lavorava in una piccola scuola materna nella selva di Temochi, nello stato di Guerrero.

È quello che denunciano da tempo le organizzazioni civili di Ciudad Juárez. È quello che gridavano gli studenti e i professori scesi in piazza dopo l’omicidio di Manuel Arroyo (nella foto). È quello che sostiene oggi María de la Luz Estrada, direttrice dell’ Osservatorio Cittadino Nazionale del Femminicidio. L’assassinio di Flor Alicia e di Jesús Alfredo, di Manuel Arroyo e di Armando Rodríguez, sono atti intimidatori. Farli passare come crimini legati all’insicurezza e alla violenza diffusa, leggerli separatamente l’uno dall’altro senza riconoscere il filo rosso che li lega significa impedirsi di riconoscere e denunciare quel processo di criminalizzazione della protesta sociale che è in corso da anni. Significa non avere più gli strumenti per comprendere le lotte e le repressioni che agitano il Messico sotto la coltre mortifera della guerra tra e contro il narcotraffico.

Non ho avuto la possibilità, o forse il coraggio, di chiamare Marisela e Nakar. Quando ci siamo salutate prima del mio ritorno in Italia, nel novembre 2008, Nakar e Jesús Alfredo si stavano per sposare. Dovevano scegliere il luogo per la loro festa, un giardino accogliente per i colorati e allegri balli messicani. Con che parole, un anno dopo, dall’altra parte dell’oceano, si può anche solo sfiorare un dolore che non riesco neanche a immaginare?

Forse, per quanto poco questo possa significare, condividendo spunti per un’informazione che si spinga al di là del senso comune.

Chiapas - Campagne di stampa per confondere.


Un articolo di Gloria Muñoz Ramírez ancora sul tentativo di provocazione contro gli zapatisti

Il 25 novembre un collega tedesco mi scriveva allarmato: “È vero che gli zapatisti si sono arresi?”. La falsa informazione che l’aveva portato alla tremenda conclusione era quella che pubblicata circa il fatto che le giunte di buon governo instaurate dall’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) in Chiapas, avevano chiesto il riconoscimento giuridico del Congresso locale, cosa che, in parole povere, significava, effettivamente, l’abdicazione del progetto più importante fino ad ora della lotta zapatista: l’autonomia dei suoi popoli. E questo, se fosse stato confermato, sarebbe stata una notizia da otto colonne sui media del Messico e di tutto il mondo. Ma nessuno si era preso il disturbo di domandarlo a loro.

L’informazione diffusa dal governo di Juan Sabines, che si è caratterizzato durante i suoi tre anni per la repressione, la corruzione e le bugie, ognuna di queste asseverazioni con innumerevoli esempi che le confermano, ha provocato l’immediata smentita delle giunte zapatiste, ma anche l’indignazione di settori della società nazionale ed internazionale per la divulgazione di una notizia che forniva false informazioni (avere una “fonte” non giustifica un’informazione, soprattutto se la notizia è di rilevanza tale da meritare maggiore approfondimento).

La notizia si riferiva ad un punto di accordo preso il 19 novembre scorso dal plenum della 63a Legislatura statale, mediante il quale si era approvata “la creazione della Commissione Speciale di fronte alla realtà delle giunte di buon governo, su proposta della Giunta di Coordinamento Politico”. Perché, trattandosi di un’informazione tanto importante, il governo la diffonde sei giorni dopo? E, d’altra parte, perché non è stata chiesta la versione dell’altra parte coinvolta, cioè, quella degli zapatisti? Se il governo annunciava la resa dell’EZLN, valeva forse almeno la pena di domandarglielo.

Al governo di Sabines perfino le montature vengono male. Diffonde un’informazione insostenibile paragonabile ai peggiori momenti di Roberto Albores Guillén, che a suo tempo montò ridicole sceneggiate con la “consegna di armi” da parte di elementi dell’EZLN. Il teatrino allora durò il tempo di un lampo e non andò oltre. E così succederà con questa nuova offensiva mediatica di Sabines.

A questo punto, dopo 16 anni di lotta pubblica, d’accordo o meno con i progetti politici dell’EZLN, qualcuno può immaginare gli zapatisti seduti nei loro uffici autonomi con una commissione di legislatori locali? Qualcuno se li immagina a riempire moduli per chiedere riconoscimento giuridico, coperte, polli e tetti di cartone? Questo significa non conoscerli. Ma in termini mediatici non importa, perché con questo tipo di campagne la cosa importante non è convincere, bensì confondere.

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

venerdì 4 dicembre 2009

Obama in war



La decisione di Obama di aumentare i militari presenti in Afghanistan di altre 30.000 unità e la richiesta agli alleati tra cui l'Italia di aumentare gli effettivi, accompagnata dalla "promessa" di andarsene entro il 2011 rappresenta l'immagine della debolezza del Presidente Usa.

Da quando Obama è Presidente le truppe americane sono triplicate in Afghanistan e l'affermazione che questa volta l'aumento sarà il "colpo definitivo" appare un escamotage con cui prendere tempo per cercare di dipanare una situazione che assomiglia sempre più ad un pantano, peraltro collegato alla complessa geopolitica asiatica e non solo.

Per approfondire cosa sta succedendo attorno alla "guerra di Obama" come titolava The Guardian vi proponiamo alcuni articoli.

- Da The Guardian: Commento di Malalai Joya attivista afghana

- Da Znet: Commento di Tom Hayden

- Da PeaceReporter: Ignobel per la pace articolo di Enrico Piovesana

giovedì 3 dicembre 2009

Chiapas - Ucciso attivista dei diritti umani

La denuncia del Centro dei diritti umani
Fray Bartolomé de Las Casas


Malgrado esistesse una denuncia di minacce di morte, la Procura Generale di Giustizia dello Stato non ha adottato sufficienti misure cautelari per salvaguardare la sua vita. Le organizzazioni civili, sociali, difensori dei diritti umani che si battono contro il settore minerario sono in imminente serio rischio.

Il Centro dei Diritti Umani Fray Bartolomé de Las Casas, A.C., condanna l’assassinio del difensore dei diritti umani Mariano Abarca Roblero e si unisce alla domanda di giustizia affinché si svolga un’indagine esaustiva, efficace ed obiettiva, punendo gli autori materiali ed intellettuali così come le autorità responsabili per omissione nell’obbligo di garantire la vita e l’integrità personale di Mariano Abarca.

Il giorno 27 novembre del presente anno alle ore 19:45 circa, nel capoluogo municipale di Chicomuselo, Chiapas, è stato assassinato Mariano Abarca Roblero, membro dell’organizzazione Dos Valles Valientes, movimento che si oppone allo sfruttamento minerario ed aderente alla Rete Messicana delle Vittime della Miniera (REMA)..

Secondo le testimonianze raccolte dal Centro dei Diritti Umani, Mariano Abarca si trovava in auto all’esterno della sua abitazione a conversare con Orlando Velásquez, quando un uomo a bordo di una motocicletta si è avvicinato al veicolo ed ha aperto il fuoco. Mariano Abarca è stato raggiunto da tre pallottole al collo ed al petto ed è morto sul colpo, mentre Orlando Velásquez è rimasto ferito. Dopo aver sparato l’uomo a bordo della motocicletta si è diretto all’angolo della strada dove un altro uomo era in attesa e i due sono fuggiti sempre sulla motocicletta.

Mariano Abarca Roblero si opponeva allo sfruttamento minerario nel municipio di Chicomuselo dove la compagnia canadese Blackfire Exploration Ltd da oltre un anno sta estraendo barite. Nei giorni scorsi Mariano Abarca aveva sporto denuncia al Pubblico Ministero per aver ricevuto minacce da parte di Ciro Roblero Pérez e Luis Antonio Flores Villatoro, il primo impiegato dell’impresa ed il secondo Direttore delle Pubbliche Relazioni della Blackfire Exploration Ltd. Le autorità della procura di giustizia non hanno garantito la protezione necessaria malgrado nella denuncia Mariano Abarca avesse specificato che le minacce erano di morte.

Sito del Centro dei diritti umani


mercoledì 2 dicembre 2009

Guerra d’inchiostro e Internet




Articolo di Luis Hernández Navarro su La Jornada – Martedì 1 dicembre 2009

Chiapas: l’altra guerra d’inchiostro e Internet

Nell’aprile del 1995 José Ángel Gurría, allora segretario agli Esteri, dichiarò che lo zapatismo era una guerra d’inchiostro e Internet. Ora, 14 anni dopo, sono i governi federale e del Chiapas ad aver lanciato un’offensiva di disinformazione contro i ribelli, i gruppi che difendono i diritti umani ed i movimenti sociali dissidenti in quello stato.

L’attuale strategia di comunicazione del governo si iscrive nell’arena della “guerra di reti” (netwar). Secondo gli analisti della RAND, Arquilla e Ronfeldt, “Netwar si riferisce al conflitto strettamente legato all’informazioni ad un alto livello tra nazioni o società. Intende tentare di disgregare o danneggiare quello che una popolazione obiettivo sa, o pensa di conoscere su sé stessa ed il mondo che la circonda. Una Netwar può concentrarsi sull’opinione pubblica o d’élite, o entrambe. Può comprendere diplomazia, propaganda e campagne psicologiche, sovversione politica e culturale, discredito o interferenza con media locali, intrusione in reti di computer e database, e attività di promozione di movimenti dissidenti o di opposizione attraverso reti di computer.”

Questo è esattamente ciò che lo Stato messicano ha fatto nelle scorse settimane nello stato meridionale. La lista delle provocazioni è molto lunga: detenzione ed assassinio di oppositori sociali, promozione di una campagna di voci che annunciano una nuova sollevazione armata, tentativo di diffamare lo zapatismo divulgando falsamente una richiesta di appoggio economico delle giunte di buon governo al Congresso locale, liberazione di paramilitari responsabili del massacro di Acteal ed incremento della presenza militare. Tutto questo montato con una campagna sui mezzi di comunicazione per occultare i fatti, nonostante le evidenze. Col governo di Juan Sabines i gruppi di potere tradizionali si sono ricomposti. Cacicchi, finqueros, allevatori e la più marcia nomenclatura politica priista occupano posizioni chiave nell’amministrazione pubblica, nel Congresso locale e a San Lázaro. Molti partecipano ai grandi affari locali associati a personaggi dell’ambito federale. Non importa che questo governatore abbia vinto la presidenza all’Esecutivo dello stato come candidato del Partito della Rivoluzione Democratica (PRD). Lui è uno dei governatori più vicini al Presidente della Repubblica. “Siamo con il Messico ed il suo presidente Felipe Calderón“, ha detto in più di un’occasione.

In Chiapas l’uomo di Los Pinos si trova più a suo agio che in molte altre entità governate dal Partito Azione Nazionale (PAN). Juan Sabines gestisce la vita interna di questa istituzione politica a suo piacimento: toglie e mette dirigenti e candidati. In questo stato il sole azteco è diventato il partito dei paramilitari. La strategia di comunicazione dell’amministrazione statale si muove su due fronti: uno è l’uso intensivo di radio e televisioni per “promuovere” il Chiapas; l’altro è la politica di contrainsurgencia informativa orchestrata a partire dal controllo della stampa locale e la diffusione sui media nazionali delle posizioni dell’amministrazione di Sabines su temi conflittuali presenti nell’entità. Nella versione chiapaneca contemporaneo di “panem et circenses“, quotidianamente si filmano puntate di telenovelas, musicisti devoti registrano dischi ed artisti di successo si pasciano tra siti archeologici, monumenti storici e bellezze naturali.

I visitatori famosi vengono intervistati sui mezzi di comunicazione locali. Anche se formalmente la guerra di carta contro lo zapatismo e contro tutto quello che non vuole sottomettersi alla politica di “concertazione” statale sia condotta dall’Esecutivo locale, parte della strategia è stata tracciata dal governo federale. Diego Cadenas, direttore del Centro dei Diritti Umani Fray Bartolomé de las Casas, assicura che, secondo informazioni fidate, nelle riunioni settimanali di gabinetto del governo di Juan Sabines sono sempre presenti i militari. Il più recente anello di questa offensiva informativa è la notizia che le giunte di buon governo abbiano chiesto il “riconoscimento” al Congresso locale ed al governo di Juan Sabines, fatto tanto insolito quanto irreale.

La menzogna governativa ha un obiettivo centrale: delegittimare la lotta zapatista, togliere credibilità alla sua proposta. La manovra è una grave offesa. Nonostante la precarietà in cui le comunità in resistenza vivono da molti anni, hanno respinto sistematicamente qualsiasi tipo di aiuto governativo. La loro dignità non ha prezzo, e l’hanno dimostrato al mondo.

Non è la prima volta nella storia del conflitto che le autorità ricorrono ad una simile montatura. Tra il 1999 ed il 2000, con Roberto Albores Guillén governatore provvisorio dello stato – stretto alleato di Juan Sabines – fu montato uno show teletrasmesso nel quale si annunciava la diserzione di 15.000 zapatisti che consegnavano armi e passamontagna. I disertori erano militanti del PRI, molti di loro paramilitari. Uno dei principali organizzatori di quell’opera buffa era Noé Castañón León, allora titolare del Tribunale Supremo di Giustizia dello Stato che, curiosamente, oggi è segretario del governo chiapaneco.

La guerra d’inchiostro e Internet contrainsurgente ha creato una situazione politica molto delicata in Chiapas. Vediamo quanto i governi continueranno a scherzare col fuoco.

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

Sistema idrico obsoleto: un'altra preoccupazione per Gaza.



di Rami Al-Meghari, Striscia di Gaza.

Lungo il confine del campo profughi Al-Shati, ad ovest della città di Gaza, tre siti sono attualmente considerati a rischio. Il pericolo non deriva tanto dalla continua ronda delle navi da guerra israeliane quanto dal fatto che gran parte delle acque sono state contaminate.

Municipalità locali ed autorità per l’ambiente hanno installato diversi cartelli in cui si legge: “E' proibito nuotare o pescare oltre 400 metri ad ovest e 500 metri ad est”. Simili cartelli si leggono in varie località lungo la costa della Striscia di Gaza.

Poiché le autorità municipali non sono state in grado di trattare le acque reflue per l’irrigazione, di modernizzare gli impianti esistenti per il trattamento delle stesse o di promuovere la costruzione di nuovi impianti nella regione, sono state costrette a versare milioni di metri cubi di rifiuti idrici nel mare. E questo ha largamente contribuito a creare il problema ambientale.

Impianti di trattamento obsoleti. “Sfortunatamente, contribuiamo all’inquinamento del nostro mare, principalmente perché siamo sempre più incapaci trattare o disfarci delle acque reflue, e questo un po’ ovunque nella Striscia di Gaza”, ha riferito ad IslamOnline.net (IOL) Monther Shoblak, Direttore generale delle Municipalità costiere per l’utilizzo dell’acqua di Gaza.

In Gaza esistono diversi impianti per il trattamento delle acque reflue ma tutti sono obsoleti e bisogna ristrutturarli. Le autorità locali vorrebbero costruirne di nuovi ma il blocco israeliano sul territorio costiero - che ormai dura da oltre due anni - ha impedito il vitale progetto.

Nel gennaio 2009, quando Israele ha scatenato la sua guerra totale sulla Striscia di Gaza, molte reti idriche - soprattutto nel nord della Striscia di Gaza - sono state del tutto o in parte distrutte. Contaminazione e taglio dei rifornimenti idrici sono state le conseguenze.

In base a quanto sostiene Shoblak, se non si permette l’ingresso di materie prime, necessarie per la costruzione di impianti, l’attuale problema di contaminazione delle acque peggiorerà creando ulteriori problemi per l’ambiente.

“L’assenza di sistemi adatti per il trattamento o lo scarico di acque reflue è causa diretta di contaminazione da nitrato delle acque”, ha affermato.

In base ad un recente rapporto di Amnesty International, le acque di Gaza non sono indicate per consumo umano, in quanto il 90% delle falde acquifere di Gaza è contaminato in più parti dell’enclave costiera.

Shoblak ha spiegato che solo il 70% dei residenti di Gaza hanno dei sistemi di scarico delle acque reflue nelle proprie abitazioni mentre il 30% dipende dall’assorbimento dei pozzi che comporta però l’infiltrazione di acque reflue e la contaminazione delle falde acquifere.

“Gli impianti di trattamento delle acque reflue non funzionano come dovrebbero e hanno una capacità di trattamento del 30%”, ha proseguito Shoblak, dando così una chiara idea di come i danni dell’assedio imposto su Gaza riguardino tutti gli aspetti.

L’avvertimento dell’OMS (WHO). L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha stimato al nord di Gaza la contaminazione di almeno mezzo milione di metri cubi di acqua.

La stessa organizzazione ha sottolineato il deterioramento della qualità della acque negli ultimi anni confermando due tipologie di contaminazione nelle falde acquifere di Gaza: biologica e chimica.

“La situazione è critica, sta colpendo la popolazione e bisogna risolverla. Stiamo analizzando la questione della contaminazione delle acque alla luce della guerra su Gaza”, ha affermato Mahmoud Daher, portavoce dell'Oms a Gaza.

Daher ha dichiarato a Islam online che il 70% delle acque analizzate lo scorso anno presentavano del nitrato ben oltre gli standard previsti dall'Oms. “Non possediamo statistiche precise sugli effetti immediati di contaminazione biologica o di malattie derivanti”.

“Tuttavia, molte cliniche dell'Unrwa (l'Agenzia Onu per i profughi palestinesi in Medio Oriente) hanno incontrato molti casi di epatite e di altri tipi di malattie causate dalle acque”, sostiene Daher.

Traduzione per Infopal di Elisa Gennaro

La resistenza prevede che si aggraverà la crisi

Sui risultati elettorali

Porfirio Lobo dice che questo giovedì strapperà la discussione per un gran accordo nazionale Continua l'incoerenza nell'indice di astensionismo in Honduras; va da 37 al 65%. Ex candidato: ai golpisti non interessa l'elezione; volevano solo una cifra da esibire al mondo.

Benché il presidente virtuale eletto del Honduras, Porfirio Pepe Lobo, dica che Manuel Zelaya è già storia, non lo sono i suoi rumorosi seguaci. Bandita la sua presenza per le strade la domenica (quelli che hanno osato uscire sono stati minacciati o direttamente bastonati), gli zelayisti escono a mostrare il dito, in una carovana veicolare enorme, che per varie ore ha girato per le strade della capitale . Non siamo golpisti, neanche terroristi!, gridano, mentre mostrano il dito medio, libero dell'inchiostro usato per segnare gli elettori.

Non votiamo, non votiamo!, gridano dalla carovana, strettamente controllati dalla polizia e l'esercito, molto vicini al hotel dove Pepe Lobo si riunisce per molto tempo con un paio di centinaia di giornalisti nazionali e stranieri per fare quello che meglio sa: ribattere a domande senza perdere il suo sorriso Colgate.

La crisi politica del paese è tema del passato, o meglio, un tema di Roberto Micheletti, Manuel Zelaya ed il Congresso. Non è problema del presidente che prenderà la carica tra 58 giorni. Così più o meno continua Lobo a tessere le sue risposte, benché non respinga nessuna domanda e perfino scherzi con i giornalisti, sia che gli facciano domande dure, sia che gli servano da tappeto, come la maggioranza dei colleghi honduregni.

Il riconoscimento si determinerà a poco a poco

Il riconoscimento della comunità internazionale? A poco a poco l'andiamo risolvendo. La restituzione del presidente Zelaya? "È un tema che i due, Micheletti e Zelaya, hanno accettato, firmato, che lo decida il Congresso ... Per me è un caso risolto. Non ho niente a che vedere.”

Un collega brasiliano chiede risposta ad una domanda semplice:

-E' stato un colpo di stato, si o no?

-Preferisco non dirlo. Non farò niente che divida ancora di più l'Honduras.

Ore prima, Manuel Zelaya si riferisce a lui, senza nominarlo, sulla risposta negata nel definire se, per lui, quello successo il 28 di giugno è stato un colpo di Stato: Non risponde perché ha paura dei militari, gli manca il coraggio per esprimersi.

Benché risponda misuratamente alle domande di spagnoli, brasiliani, cileni e dominicani sulle relazioni con i loro rispettivi paesi, fra le righe Lobo esprime qual'è l'unico riconoscimento che gli importa. Ci sono negli Stati Uniti un milione di honduregni i cui invii di denaro sono la principale entrata nazionale, senza contare che 40% delle esportazioni honduregne è al paese del nord, (l'alleanza militare, l'altra parte della relazione più importante del Honduras, non è menzionata dal vincitore delle elezioni).

Per questo motivo è strano che risponda con le stesse superficialità, e gettando la pallina ai liberali, quando La Jornada gli ricorda che questa mattina il sottosegretario del Dipartimento di Stato, Arturo Valenzuela, ha detto che i seggi sono stati solo un passo avanti, ma non sufficiente nella soluzione del conflitto honduregno.

Una Assemblea Nazionale Costituente? Non è prioritaria ed inoltre è stata posta solo per rispondere all'aspirazione personale di una rielezione. Il virtuale presidente eletto evita di dire che lui stesso ha presentato una proposta di Assemblea Costituente quando Zelaya promuoveva la sua.

Benché dica di avere parlato con molti presidenti che gli hanno promesso riconoscimento, si rifiuta di dire chi sono.

In linea con lo sport nazionale di convocare dialoghi che non conducono a nessun parte, come ha fatto Micheletti durante cinque mesi, Lobo annuncia che questo giovedì spingerà la discussione di un grande accordo, un documento che sarà il piano della nazione. Il punto di partenza, afferma, saranno documenti elaborati in anni passati dalla Conferenza Episcopale, la Confraternita Evangelica ed altro fatti durante la conduzione di Victor Meza, ministro del Governo di Zelaya.

Un altro collega spagnolo gli chiede di definire l'umanesimo cristiano che proclama: rispetto alla persona umana, solidarietà, sussidiarietà e bene comune, appunta, accompagnati da libero mercato con responsabilità sociale, non quello che predica il neoliberalismo.

Lobo si congeda, che dopo la notte del suo trionfo ha avuto, come prima attività mattiniera, una riunione con il comando unito delle forze armate, guidato dal generale Romeo Vásquez, esecutore del colpo di Stato.

Il mistero della partecipazione

Assemblea mattiniera del Fronte di Resistenza. Facciamo un appello ai governi e movimenti sociali democratici ed onesti del mondo a respingere i risultati della farsa elettorale ed ad ignorare il preteso governo che si stabilirà a partire dal 27 di gennaio del 2010.

La presenza è maggiore che nelle ultime settimane, e l'ambiente, di festa.

Il fronte ripete che la farsa elettorale montata dall'oligarchia è stata un fallimento totale ed indica l'astensionismo nel 65%.

La domenica, chiusi i tavoli di votazione, e dopo di una lunga attesa derivata da un difetto tecnico, la Corte Suprema Elettorale, TSE, ha terminato dando due cifre sulla partecipazione ai seggi. Una, basata nei suoi dati preliminari, ha fissato l'astensionismo al 37%. Un'altra, del Consorzio Facciamo Democrazia, composto da organismi civili e religiosi, ha dato il 53% all'astensionismo, qualcosa di coerente con la tendenza al ribasso che si registra ogni quattro anni.

Hanno dovuto leggere la lettera perché li hanno finanziati i gringo, ma l'hanno letta con vergogna, dice Carlos H. Re magi, il sindacalista che ha ritirato la sua candidatura indipendente alla presidenza.

Facciamo Democrazia tra i cui membri si trovano organismi cattolici ed evangelici, riceve consulta tecnica dell'Istituto Nazionale Democratico, NDI, ed appoggio finanziario dell'Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID).

Queste disparità non impediscono che il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti dica che i seggi sono stati negli standard internazionali e si congratuli con il vincitore.

Porfirio Lobo la fa ancora più grande, nonostante che il parere tra i giornalisti stranieri nella sua conferenza sia che la partecipazione sia stata squallida. Lobo dice che ha votato il 72% degli elettori, e inoltre: se si tolgono gli honduregni che vivono negli Stati Uniti che sono nella lista elettorale, la partecipazione supererebbe la barriera dell'80%, il doppio di quattro anni fa, quando egli ha perso nelle urne contro Zelaya.

Non c'è maniera di sapere il dato reale, semplicemente perché nessun organismo internazionale qualificato ha accettato di osservare le elezioni. Pertanto bisogna rimanere col dato di curati e pastori (53% di astensione), o con quello di Pepe Lobo, (28%). Questa disparità (28 -53), deve essere quello che il Dipartimento di Stato considera standard internazionali.

Di questi discorsi ne abbiamo fin sopra i capelli; abbiamo perso cinque mesi senza ottenere assolutamente niente, dice Carlos Humberto Reyes, il candidato presidenziale indipendente che si è ritirato prima delle elezioni, sulla convocazione a tutti gli onduregni del politico nazionalista.

Reyes, la cui fotografia è stata ghigliottinata della scheda elettorale quando ha annunciato il suo ritiro, dice che ai golpisti non importava chi vinceva questa elezione, bensì avere una cifra per esibirla al mondo.

Reyes sa che la comunità internazionale non avrà unanimità rispetto al Honduras. Questo, in ogni caso, non importa ai golpisti. A quella gente l'unica cosa che interessa è il governo degli Stati Uniti, le altre nazioni non li preoccupano molto.

Il leader della resistenza vede avanzare l'aggravamento dalla crisi, perché il governo che seguirà, dice, vuole incrementare le imposte e svalutare la moneta. E lì seguirà la guerra.

La resistenza continua, dicono i suoi leader, ora anche preoccupati di organizzare il loro braccio elettorale, sicuri come sono che quelli che hanno fatto il golpe lo hanno fatto per rimanere al potere.

Durante l'assemblea, il dirigente campesino Rafael Alegría fa un elenco degli abusi della dittatura: interferenze al Canale 36 di Televisione e Radio Globo, presidio militare a Radio Uno e minacci a Radio Progresso. Parla anche di 48 detenuti in San Pedro Sula, quando la polizia ha disperso una marcia la domenica.

Nella stessa linea, Amnesty International, AI, denuncia il caso di Jensys Mario Umanzor Gutiérrez, visto per ultima volta l'alba della domenica a bordo di una pattuglia ed il cui destino si ignora. AI ha accompagnato domenica agli avvocati che hanno tentato di interporre un ricorso di habeas corpus, si sono trovati con tutti gli uffici giudiziali chiusi.

A mezzogiorno di questo lunedì, un'organizzazione locale di diritti umani ha trovato 14 minorenni di età detenuti nel comando metropolitano numero 3, in questa città. I giovani sono stati catturati perché si trovavano a conversare, in gruppi maggiore di quattro, vicino ai centri di votazione della domenica.

Oggi la giustizia è stata assente in Honduras, ha detto a La Jornada, la domenica, Javier Zúñiga, che guidava una delegazione di Amnesty International. Un ingrediente in più dentro gli standard internazionali, è da supporsi.

La carovana continua quando cala la notte. Arrampicata nella parte posteriore di una pick up, viaggia Olga Marina, una signora cinquantenne, robusta, che non si perde una sola attività della resistenza. E non solo perché è zelayista, bensì perché porta sempre con sé la sua scatolina di gomme da masticare e sigarette da vendere. Di quello vive. "Qui stiamo ... con le mani pulite!", grida Olga Marina, e mostra le mani, lasciando vedere anche, nell'avambraccio destro, le cicatrici del giorno di agosto in cui un poliziotto, la lanciò contro un filo spinato. Adesso mi rimarranno per sempre, dice con una risata e si perde verso il centro, al grido di “che ha Mel che la borghesia non può con lui".


Gaza Freedom March


Da tutto il mondo per rompere l'assedio

Ad un anno dalla aggresione a Gaza, la striscia continua ad essere chiusa in ognuno dei suoi lati: Egitto e Israele.

E' stato lanciato un appello internazionale per costruire una grande iniziativa per rompere il blocco di Gaza.

L'Associazione Ya Basta partecipa alla: GAZA FREEDOM MARCH Sito ufficiale

Traduzione in italiano e info Vai al Sito

La Marcia sarà una grande occasione per affermare il diritto della popolazione civile di Gaza ad essere libera.

Segui gli aggiornamenti sul sito di GlobalProject e su Ya Basta Napoli.

Appello Internazionale per la Gaza Freedom March

L'assedio israeliano di Gaza è una flagrante violazione del diritto internazionale che ha portato alla sofferenza di massa. Gli Stati Uniti, l'Unione Europea, e il resto della comunità internazionale sono complici.

La legge è chiara. La coscienza dell'umanità è scossa. Eppure, l'assedio di Gaza continua. È giunto il momento di agire! Il 31 dicembre 2009 concluderemo l'anno marciando al fianco del popolo palestinese di Gaza in una manifestazione nonviolenta per rompere il blocco illegale.

Il nostro scopo in questa marcia è rompere l'assedio di Gaza. Chiediamo che Israele ponga fine al blocco. Chiediamo anche all'Egitto di aprire la frontiera di Gaza a Rafah. I palestinesi devono avere la libertà di viaggiare per motivi di studio, di lavoro, e di cura e anche di ricevere visitatori provenienti dall'estero.

Essendo noi una coalizione internazionale, non spetta a noi sostenere una soluzione politica specifica a questo conflitto. Eppure la fiducia nella nostra comune umanità ci spinge a chiedere a tutte le parti di rispettare e sostenere il diritto internazionale e i diritti umani fondamentali per porre fine all'occupazione militare israeliana dei territori palestinesi del 1967 e per perseguire una pace giusta e duratura.

La marcia potrà avere successo soltanto se risveglierà la coscienza dell'umanità.

Vi invitiamo tutti ad unirsi a noi.

La Coalizione internazionale per la fine dell'assedio illegale di Gaza

Freedom March
Dichiarazione di Contesto

Amnesty International ha descritto il blocco di Gaza come una "forma di punizione collettiva di tutta la popolazione di Gaza, una flagrante violazione di obblighi di Israele nel quadro della quarta convenzione di Ginevra." Human Rights Watch ha chiamato il blocco una "grave violazione del diritto internazionale". Il Relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei territori occupati palestinesi, Richard Falk, ha condannato l'assedio israeliano di Gaza che rappresenta un "crimine contro l'umanità".

L'ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter ha detto che la gente di Gaza viene trattata "come animali", e ha chiesto di "porre fine all'assedio di Gaza" che sta privando "un milione e mezzo di persone delle necessità della vita."

Uno dei principali esperti a livello mondiale di Gaza, Sara Roy dell'Università di Harvard, ha detto che le conseguenze dell'assedio "provocano innegabilmente una situazione di sofferenza di massa, che è creata in gran parte da Israele, ma con la complicità attiva della comunità internazionale, in particolare gli Stati Uniti e l'Unione Europea".

La legge è chiara. La coscienza dell'umanità è scossa.

I palestinesi di Gaza hanno esortato la comunità internazionale ad andare oltre le parole di condanna.

Eppure, l'assedio di Gaza continua.

La difesa del diritto internazionale

L'assedio illegale di Gaza non avviene nel vuoto. E 'uno dei tanti atti illeciti commessi da Israele nei territori palestinesi occupati militarmente nel 1967.

Il muro e gli insediamenti sono illegali, secondo la Corte internazionale di giustizia dell'Aia.

La demolizione di case e la distruzione indiscriminata delle terre agricole sono illegali.

La chiusura e il coprifuoco sono illegali.

I blocchi stradali e i checkpoint sono illegali.

La detenzione e la tortura sono illegali.

L'occupazione stessa è illegale.

La verità è che se il diritto internazionale fosse applicato l'occupazione finerebbe.

La fine della occupazione militare iniziata nel 1967 è una condizione fondamentale per instaurare una pace giusta e duratura. Per oltre sei decenni, al popolo palestinese sono stati negati il diritto alla libertà, all’ autodeterminazione e all’ uguaglianza. Alle centinaia di migliaia di palestinesi costretti ad abbandonare le loro case con la creazione di Israele nel 1947-48 sono ancora negati i diritti riconosciuti loro dalla risoluzione ONU 194.

Fonti d'ispirazione

La Gaza Freedom March trae ispirazione da decenni di anni di resistenza non violenta palestinese, dalla sollevazione popolare di massa della prima Intifada agli abitanti dei villaggi in Cisgiordania che attualmente resistono al furto di terre attuato con la costruzione dal muro annessionista di Israele.

Trae ispirazione dalla stessa gente di Gaza, che ha formato una catena umana da Rafah a Erez, ha demolito la barriera di confine che separa Gaza dall'Egitto, e ha marciato verso i sei posti di blocco che separa la Striscia di Gaza occupata da Israele.

La Gaza Freedom March trae ispirazione anche dai volontari internazionali che hanno difeso gli agricoltori palestinesi durante durante il periodo raccolta nei campi, dagli equipaggi delle navi che hanno sfidato il blocco di Gaza via mare, e dai conducenti dei convogli che hanno consegnato gli aiuti umanitari a Gaza.

Ed è ispirato da Nelson Mandela che ha detto: "Ho camminato nella lunga strada verso la libertà. Ho cercato di non vacillare; ho fatto passi falsi lungo il percorso. Ma ho scoperto che, dopo aver scalato una grande collina, ci sono ancora molte altre colline da scalare. Non oso indugiare, per il mio lungo cammino non è finita. "

Si da ascolto alle parole del Mahatma Gandhi, che chiamò il suo movimento “Satyagraha “cioè “aggrapparsi alla verità”. Noi ci aggrappiamo alla verità che l'assedio israeliano di Gaza è illegale e disumano.

Gandhi ha detto che lo scopo dell'azione nonviolenta è quello di "accelerare" la coscienza dell'umanità. Attraverso la Gaza Freedom March, l'umanità non solo deplorerà la brutalità israeliana, ma interverrà per fermarla.

La società civile palestinese ha seguito i passi di Gandhi e Mandela. Proprio come i due leader, ha invitato la società civile internazionale a boicottare i prodotti e le istituzioni dei propri oppressori. Associazioni, sindacati e movimenti di massa palestinesi nel 2005 hanno lanciato un appello che invita tutte le persone di coscienza a sostenere una campagna nonviolenta di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni fino a quando Israele non rispetterà pienamente i suoi obblighi di diritto internazionale.

La Gaza Freedom March trae anche ispirazione dal movimento dei diritti civili negli Stati Uniti.

Se Israele svaluta la vita dei palestinesi allora noi internazionali dobbiamo sia interporre i nostri corpi per proteggere i palestinesi dalla brutalità israeliana che testimoniare personalmente la disumanità con la quale i palestinesi si confrontano ogni giorno.

Se Israele sfida il diritto internazionale allora le persone di coscienza devono inviare corpi civili nonviolenti da tutto il mondo per applicare la legge della comunità internazionale a Gaza. La Coalizione internazionale, per porre fine all'assedio illegale di Gaza, invierà contingenti provenienti da tutto il mondo a Gaza per ricordare l'anniversario del sanguinoso assalto israeliano durato 22 giorni dal dicembre 2008 al gennaio 2009.

La Gaza Freedom March non vuole assumere alcuna posizione rispetto alla politica interna palestinese. Si schiera solo con il diritto internazionale e il primato dei diritti umani.

La marcia è un altro anello nella catena di resistenza nonviolenta e di opposizione al totale disprezzo di Israele nei confronti del diritto internazionale.

I cittadini del mondo sono chiamati ad unirsi ai palestinesi il 31 gennaio per rompere l'assedio disumano di Gaza.

Conoscenza pulita

Il taglio di CO2 e la questione del lavoro cognitivo transnazionale


Il diario di bordo di Paolo Do - Shanghai (Cina)

Dopo la recente visita di Obama in Asia e la ratifica del mancato taglio delle emissioni di CO2, quale futuro si prospetta per il vertice di Copenhagen e per il successo delle energie verdi e rinnovabili?

La questione climatica dopo i recenti accordi tra Usa e Cina, mette di fatto al centro la questione dei saperi, della cooperazione e della ricerca a livello transazionale, sottolineando la importanza del cosiddetto ‘transfer tecnologico’ legato a conoscenze e tecnologie.

Nei protocolli d'intesa di questo inedito G2, l'elemento chiave della discussione riguarda proprio le risorse necessarie alla ricerca per la produzione di energia pulita: a ben guardare non si tratta d'altro che di costruire un mercato per saperi legati alle energie rinnovabili tra le due sponde del Pacifico.

Cosa vuol dire aprire un tale spazio in Cina? Cosa vuol dire usare lo strumento del mercato per tagliare le emissioni di CO2?

Innanzitutto, significa partire dalla questione della proprietà intellettuale, come condizione di possibilità, e della salvaguardia dei diritti di copyright e brevetti, come base per la cooperazione tra Cina e America: oggi è questa la pre-condizione per poter parlare di rivoluzione verde e di sviluppo tecnologico.

Green revolution vuol dire investire sulla conoscenza, l'innovazione, la gestione di nuova forza lavoro ‘qualificata’ e, quindi, sulla cooperazione transnazionale.
Da un lato, il problema in Cina consiste nella sostenibilità ambientale della sua crescita che può causare una seria destabilizzazione politica interna, dall`altro il bisogno di nuove fonti energetiche in grado di nutrire una domanda crescente. Questo la Cina lo sa bene, gli Usa anche. Dentro questo spazio si é aperto un nuovo terreno strategico, un nuovo fronte laddove, dentro la questione delle energie rinnovabili e della svolta verde, l`elemento cognitivo diviene il vero campo di battaglia.

“Presidente del pacifico”, come si è autoproclamanto Obama, non è una dichiarazione neutra: è piuttosto l'affermazione del rafforzamento di quei dispositivi di proprietà, anzitutto intellettuale, e di governance del lavoro cognitivo a livello globale. Il presidente del pacifico diventerà anche quello di Copenhagen?
Da questo punto di vista il meeting europeo di dicembre assume uno spessore ancora più complesso, e la partita in gioco diventa ancora più grande.

lunedì 30 novembre 2009

Vince la popolazione, vince la resistenza

Le elezioni

Nelle elezioni in Honduras in testa il candidato della destra nazionalista, in mezzo alla repressione e all’astensionismo

Secondo i primi dati preliminari forniti dal Tribunale supremo elettorale, Tse, il vincitore delle elezioni in Honduras sarebbe il candidato del Partido Nacional, Porfirio “Pepe” Lobo. Ma il risultato che davvero conta oggi è quello espresso dalla maggioranza della popolazione, che ha raccolto l’invito della Resistenza a non andare a votare per non avallare un risultato elettorale spurio, frutto del colpo di Stato del 28 giugno.

Nonostante le percentuali molto probabilmente falsate che diffonderà tra poche ore il Tse, durante l’intera giornata è stata più che evidente la poca affluenze alle urne, l’asfissiante presenza dell’esercito e della polizia in tutto il paese e i numerosi episodi di repressione e violazione ai diritti umani degli honduregni.

Inesistente anche l’osservazione internazionale, dopo che nei giorni scorsi le principali organizzazioni specializzate in questo tipo d’intervento hanno declinato l’invito fatto loro dal Tse, non riscontrando le condizioni minime per garantire un processo elettorale democratico.

Durante una conferenza stampa che si è svolta all’interno della sede del Comitato dei famigliari dei detenuti scomparsi in Honduras, Cofadeh, il Fronte nazionale contro il colpo di Stato ha dichiarato che “abbiamo constatato il fallimento della farsa elettorale attraverso la bassa affluenza alle urne e questo nonostante le evidente minacce da parte dell’impresa privata nei confronti dei loro lavoratori che non fossero andati a votare”.

Il Cofadeh e il Fronte nazionale contro il colpo di Stato hanno inoltre denunciato che le forze repressive hanno continuato la campagna di terrore contro la popolazione in resistenza.

Secondo dati aggiornati al pomeriggio di domenica 29 novembre, sono numerosi i casi di detenzioni e perquisizioni illegali, costanti minaccie da parte dell’esercito e della polizia, violazione della legge elettorale che proibisce ai militari di avvicinarsi a meno di cento metri dai locali in cui si vota.

Durante l’osservazione svolta da numerosi giornalisti è risultata evidente la costante presenza di militari fortemente armati a pochi metri dalle urne.

Particolarmente preoccupante la situazione a Zacate Grande, nel sud del paese, dove le comunità sono state letteralmente presidiate e circondate dall’esercito ed a Santa Barbara, ovest dell’Honduras, dove circa 20 giovani hanno dovuto abbandonare il paese per timore di essere arrestati.

A San Pedro Sula la marcia della Resistenza è stata selvaggiamente repressa dall’esercito e dalla polizia e si contano a decine gli arresti ed i feriti, tra cui un giornalista dell’agenzia Reuters che è stata curato in ospedale per una profonda ferita alla testa.

Stando così le cose e vedendo ciò che è successo oggi, possiamo annunciare che ci sono tutti gli elementi per dire che non è stato possibile svolgere questo atto pubblico, perché non le consideriamo elezioni, convocato in un clima di terrore dai golpisti per legalizzare il colpo di Stato e sè stessi. Sono tutti elementi – ha detto Bertha Oliva del Cofadeh – che ci servono per giustificare un’azione legale che inizieremo nei prossimi giorni per impugnare questo processo”.

Secondo Rafael Alegría, membro della direttiva del Fronte nazionale contro il colpo di Stato, “stanno per chiudere i centri di votazione e la partecipazione al voto è stata scarsissima. Il popolo ha risposto al nostro appello ed ha capito che non può esistere un processo elettorale democratico e trasparente in un paese che vive in uno stato permanente di repressione e di mancanza di istituzionalità.

La presenza militare è stata continua e nella capitale c’erano elicotteri della polizia sorvolando i centri di votazione. Questa non è altro che intimidazione contro la Resistenza, ma per il governo di fatto è stato un boomerang, perché hanno spaventato anche chi pensava di andare a votare”, ha concluso.

Nella guerra di sondaggi e risultati preliminari, secondo il Tse la partecipazione s’aggirerebbe intorno al 62 per cento (da confermare durante la nottata), dato inverosimile per chi ha osservato per tutta la giornata i centri di votazione. Come unico elemento esterno di verifica, il Tse ha portato un comunicato dell’organismo Hagamos Democracia, già conosciuto a livello internazionale per agire nei paesi latinoamericani che avversano la politica esterna degli Stati Uniti in America Latina,come punta di lancia per penetrare i processi elettorali con finanziamenti di agenzie governative nordamericane come la Ned, Iri e Usaid.

Nonostante ciò, Hagamos Democracia riconosce una partecipazione del 47 per cento.

Secondo gli exit-poll del Centro de Defensa de los Derechos Humanos de Honduras, Codeh, con un margine di errore del 4,5 per cento, i votanti non sarebbero superiori al 22 per cento. Per il presidente legittimo dell’Honduras, Manuel Zelaya, i votanti sarebbero circa il 35 per cento, con un astensionismo che raddoppia rispetto alle elezioni in cui vinse nel 2004.

Difficile pensare comunque che i votanti siano stati superiori al 30-35 per cento, rendendo così totalmente insignificante il ruolo di un presidente della Repubblica che conterà con il sostegno di una quantità insignificante di cittadini.

Indipendentemente da quali saranni i risultati finali, il vero vincitore di queste elezioni illegittime sarà il popolo honduregno. Quel popolo che ha castigato il mondo politico che ha avallato il colpo di Stato ed è rimasto in silenzio di fronte ai morti e feriti, alla repressione che per cinque mesi ha sconvolto il cammino democratico del paese.

Sarà ora compito della comunità internazionale prendere una decisione finale: al lato della gente che resiste e che dice ‘no’ alla dittatura o rendendosi complice di un processo involutivo che mette a rischio il futuro della regione centro e sud americana.

(Testo e foto Giorgio Trucchi - Lista Informativa "Nicaragua y más" di Associazione Italia-Nicaragua)

Notizie dai Territori: strade e spintoni

Dalle Colline a Sud di Hebron

Resoconto di Laura Chiaghi, attivista trentina presente in Palestina

Colline a Sud di Hebron, Martedi 17 novembre, le 11 di mattina di una giornata fredda. La pioggia, come una benedizione, lava le pietre delle colline arse dal sole di una lunga estate mediorientale. Una famiglia cammina verso casa. Sono Fatima e Nasser, una giovane coppia con tre bambini. Ibrahim, 3 anni trotterella dietro ai genitori : gli altri due, troppo piccoli per camminare, sono portati in braccio da mamma e papá. La coppia si ferma in cima alla salita per prendere fiato e guarda sconsolata verso Havat Ma’on, l’avamposto alla loro sinistra. Da quando i coloni israeliani si sono installati su quella collina, piu’ di dieci anni fa, non possono piu’ usare la strada diretta, quella che in un quarto d‘ora di agevole cammino li avrebbe portati da At Tuwani a Tuba. Ora sono obbligati ad un giro tortuoso su sentieri sassosi per almeno quarantacinque minuti. Improvvisamente due donne si avvicinano, gesticolando. Sono Sarah e Laura, due attiviste internazionali. Una parla un po’ di arabo: “Stamattina abbiamo visto dei coloni nell’area. Non prendete la strada corta, fate quella lunga”. Fatima sospira. La strada lunga é molto lunga e non é una strada. La aspettano due ore di cammino, con un bimbo in braccio, su e giu’ per ripide colline sulle tracce di greggi e pastori. Le famiglia riparte, seguita dalle due volontarie, scende fra i campi in attesa di essere arati e risale sulla collina successiva. Ibrahim é stanco e si ferma. Nasser approfitta della pausa per chiedere dove erano esattamente i coloni. Quasi a rispondergli quattro uomini appaiono fra le rocce, ad una cinquantina di metri. La famiglia ricomincia a camminare, correre é impossibile. Sarah e Laura si fermano, iniziano a filmare. I coloni all’inizio esitano, sono disorientati. Poi iniziano a scendere, corrono verso la famiglia. Un quinto colono sale dalla valle e raggiunge il gruppo. I coloni circondano la famiglia e le internazionali, poi spintonano Nasser, che ancora stringe suo figlio in braccio. Ibrahim e’ terrorizzato, piange. Laura e Sarah si mettono in mezzo. I coloni le gettano a terra, vogliono le telecamere. Piovono colpi, calci e spintoni. La famiglia, nella confusione riesce ad allontanarsi. I coloni strappano le telecamere e finalmente se ne vanno,dopo venti minuti li vediamo entrare nell’avamposto. Questa e’ la storia di quello che ho visto e vissuto in un giorno di ordinaria violenza nelle colline a Sud di Hebron. Ovviamente la storia continua, anche dopo l’attacco. Nasser, Fatima, Sarah e me abbiamo trascorso interminabili ore alla stazione di polizia per presentare denuncia ed identificare nelle foto i nostri aggressori. Finora nessuno e’ stato arrestato. Nei giorni successivi una giornalista mi ha chiesto se senza la presenza degli internazionali l’attacco sarebbe stato più brutale. Io non lo so se senza di noi l’attacco sarebbe stato peggio, meglio o uguale. Sicuramente i media non ne avrebbero parlato. Ma il punto non é la presenza degli internazionali, il punto é la presenza dei coloni. Se le esercito israeliano avesse eseguito gli ordini di evacuazione che da anni pendono sull’insediamento illegale di Havat Ma’on, l’attacco non ci sarebbe stato. Se la polizia avesse seriamente perseguito i responsabili delle decine di attacchi a Palestinesi disarmati negli ultimi anni, l’attacco non ci sarebbe stato. E se l’opinione pubblica internazionale invece di dibattere per quanti mesi Israele dovrebbe congelare l’espansione delle colonie, si pronunciasse in modo netto per un ritorno del diritto e della legalitá nei Territori Palestinesi occupati , non ci sarebbero outpost illegali ad occupare la strada che in quindici minuti da At Tuwani porta a Tuba.

Foto da Work in At-Tuwani, Palestine, 2007-2009 (Set)

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Background

Per anni, gli abitanti del villaggio di Tuba hanno utilizzato la strada diretta per raggiungere il villaggio di At-Tuwani e da lì la vicina città di Yatta, centro sociale ed economico di tutta l'area. La costruzione lungo tale strada dell'insediamento israeliano di Ma'on negli anni '80 e del vicino avamposto illegale di Havat Ma'on nel 2001, ha di fatto bloccato il movimento dei palestinesi, costringendoli a percorrere sentieri più lunghi che richiedono fino a due ore di cammino. Volontarie e volontari dei Christian Peacemaker Teams e di Operazione Colomba sono presenti nel villaggio di At-Tuwani dal 2004, con azioni di sostegno alla libertà di movimento dei palestinesi minacciati dalla violenza dei coloni israeliani che occupano illegalmente i territori palestinesi. La libertà di movimento è un diritto sancito dall'articolo 12 della Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici della Nazioni Unite, ratificata da Israele nel 1991. Secondo la Quarta Convenzione di Ginevra, la Corte Internazionale di Giustizia e numerose risoluzioni delle Nazioni Unite, tutti gli insediamenti israeliani nei Territori Palestinesi Occupati sono illegali. Gli avamposti sono considerati illegali anche secondo la stessa legge israeliana.

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!