Nelle Arabie le primavere sono brevi. Sarà per questo che siamo repentinamente slittati dalla lirica rivoluzionaria alla stagione di depressione economica, emergenza sociale e insicurezza geopolitica che investe lo spazio affacciato sul nostro mare. Rimossi i tiranni tunisino ed egiziano, le aspirazioni alla libertà e alla democrazia sono frustrate dalla reazione dei poteri tradizionali, militari in testa.
Quanto alla Libia, non esiste più: il fantasma della Grande Somalia rischia di materializzarsi. Dalla Siria allo Yemen via Bahrein, siamo alla guerra civile o all'instabilità cronica. Se le sabbie mobili inghiottissero la monarchia saudita, sancta sanctorum del pluriverso islamico e serbatoio energetico mondiale, sarebbe inverno gelido per tutti.
Il rosario di rivoluzioni e controrivoluzioni in corso lungo la sponda Sud del Mediterraneo si profila come espansione dell'area di instabilità afro-asiatica prodotta dall'esaurirsi della guerra fredda. Anche perché la superpotenza residua sta concentrando le sue risorse in Asia orientale e nel Golfo, a scapito di Europa, Nordafrica e Mediterraneo.
La ritirata strategica di Obama carica le squattrinate subpotenze europee di responsabilità che non sono in grado di sostenere. Sicché la bolla dell'instabilità si gonfia a impressionante velocità, fino a premere su tre fronti di affermata solidità: Germania, Russia e Cina. Le uniche potenze oggi in grado di condizionare l'America.
Il 22 giugno Barack Obama ha pronunciato il più importante discorso della sua presidenza. Poca retorica e un fermo proposito: “America, è tempo di concentrarsi sul nation building qui a casa”. Ergo: ritiro dall'Afghanistan di qui al 2014 e dall'Iraq entro l'anno. Una piattaforma elettorale, certo.
Ma anche la presa d'atto che un paese indebitato fino al collo non può sperperare mille miliardi di dollari in dieci anni di “guerra al terrore” per ridursi a fumare il calumet della pace con il mullah Omar. Quanto alla Libia, Obama mira ad “aggregare l'azione internazionale” senza schierare “un solo soldato”. Tradotto: la Nato deve coprire la ritirata americana, sopportandone in parte costi e rischi. Ma senza metter bocca nelle scelte di Washington. In questo sta il limite della svolta di Obama; non ci si può ritirare dal globo e sperare di dominarlo.La guerra di Libia marca lo spartiacque fra rivoluzioni e controrivoluzioni arabe.
Alcuni autocrati sono stati liquidati, ma i meccanismi di potere che li avevano espressi mostrano capacità adattive (Tunisia, Egitto) e/o reattive (Libia, Yemen) tali da mitigare la spinta al cambiamento. Inoltre, rivolte e repressioni hanno aggravato la crisi economica che aveva contribuito a scatenare le proteste, accentuando la sofferenza degli strati più miseri della popolazione e colpendo i ceti medi, protagonisti della piazza.
Quasi tutti i leader, nel Nord del mondo, tifano in segreto per i controrivoluzionari arabi, al cui vertice stanno i reali sauditi. Ma ricomprimere il genio delle rivoluzioni nella lampada di Aladino non è possibile. Nei territori investiti dal vento d'intifada si è aperta una finestra di opportunità, ma gli esiti delle rivolte non sono scritti.
Su scala globale, la partita decisiva si giocherà fra Vicino Oriente, Golfo e Afpak. In questione non solo il carattere dei regimi, ma i nuovi rapporti di forza fra i protagonisti regionali: Arabia Saudita, Pakistan Israele, Iran e Turchia. Siamo solo all'inizio.
Quanto alla Libia, non esiste più: il fantasma della Grande Somalia rischia di materializzarsi. Dalla Siria allo Yemen via Bahrein, siamo alla guerra civile o all'instabilità cronica. Se le sabbie mobili inghiottissero la monarchia saudita, sancta sanctorum del pluriverso islamico e serbatoio energetico mondiale, sarebbe inverno gelido per tutti.
Il rosario di rivoluzioni e controrivoluzioni in corso lungo la sponda Sud del Mediterraneo si profila come espansione dell'area di instabilità afro-asiatica prodotta dall'esaurirsi della guerra fredda. Anche perché la superpotenza residua sta concentrando le sue risorse in Asia orientale e nel Golfo, a scapito di Europa, Nordafrica e Mediterraneo.
La ritirata strategica di Obama carica le squattrinate subpotenze europee di responsabilità che non sono in grado di sostenere. Sicché la bolla dell'instabilità si gonfia a impressionante velocità, fino a premere su tre fronti di affermata solidità: Germania, Russia e Cina. Le uniche potenze oggi in grado di condizionare l'America.
Il 22 giugno Barack Obama ha pronunciato il più importante discorso della sua presidenza. Poca retorica e un fermo proposito: “America, è tempo di concentrarsi sul nation building qui a casa”. Ergo: ritiro dall'Afghanistan di qui al 2014 e dall'Iraq entro l'anno. Una piattaforma elettorale, certo.
Ma anche la presa d'atto che un paese indebitato fino al collo non può sperperare mille miliardi di dollari in dieci anni di “guerra al terrore” per ridursi a fumare il calumet della pace con il mullah Omar. Quanto alla Libia, Obama mira ad “aggregare l'azione internazionale” senza schierare “un solo soldato”. Tradotto: la Nato deve coprire la ritirata americana, sopportandone in parte costi e rischi. Ma senza metter bocca nelle scelte di Washington. In questo sta il limite della svolta di Obama; non ci si può ritirare dal globo e sperare di dominarlo.La guerra di Libia marca lo spartiacque fra rivoluzioni e controrivoluzioni arabe.
Alcuni autocrati sono stati liquidati, ma i meccanismi di potere che li avevano espressi mostrano capacità adattive (Tunisia, Egitto) e/o reattive (Libia, Yemen) tali da mitigare la spinta al cambiamento. Inoltre, rivolte e repressioni hanno aggravato la crisi economica che aveva contribuito a scatenare le proteste, accentuando la sofferenza degli strati più miseri della popolazione e colpendo i ceti medi, protagonisti della piazza.
Quasi tutti i leader, nel Nord del mondo, tifano in segreto per i controrivoluzionari arabi, al cui vertice stanno i reali sauditi. Ma ricomprimere il genio delle rivoluzioni nella lampada di Aladino non è possibile. Nei territori investiti dal vento d'intifada si è aperta una finestra di opportunità, ma gli esiti delle rivolte non sono scritti.
Su scala globale, la partita decisiva si giocherà fra Vicino Oriente, Golfo e Afpak. In questione non solo il carattere dei regimi, ma i nuovi rapporti di forza fra i protagonisti regionali: Arabia Saudita, Pakistan Israele, Iran e Turchia. Siamo solo all'inizio.