La Cina che verrà
Il Congresso del PCC deciderà la nuova leadership destinata a guidare la potenza economica mondiale al tempo della crisi
Una singolare coincidenza ha voluto che le elezioni presidenziali Usa si sovrapponessero al fatidico 18esimo Congresso del Pcc cinese, imponendo paragoni schiaccianti. Da una parte la contesa incerta fino all'ultimo voto, dall'altra il grande rito preparato da mesi in segrete stanze che cambia faccia, in senso proprio, all'apparato del Partito-stato cinese. Eppure gli effetti dell'esteso cambio della guardia che in Cina installerà al potere la Quinta Generazione di leader destinati a condurre la seconda potenza economica mondiale fino al 2020, potrebbero essere anche più vasti di quelli prodotti dalla riconferma di Obama alla Casa bianca. Come sia, una nuova fase si apre su entrambe le sponde del Pacifico.
I cinesi conoscono solo alcuni nomi dei personaggi che li governeranno, almeno di quelli candidati alla leva più potente, il Comitato permanente del Politburo, ma ignorano del tutto dove quel gruppo ristretto di uomini (l'unica donna in lizza è già sparita) li condurrà. Il che aggiunge inquietudine e timore alla consapevolezza che, come ormai tutti affermano, a destra come a sinistra, quei capi dovranno cambiare la rotta economica e politica del paese per risolverne gli enormi problemi. A moltiplicare l'apprensione si aggiunge la constatazione generale che il discredito e la sfiducia che i cinesi nutrono nei confronti della propria classe politica hanno ormai raggiunto livelli allarmanti. In buona compagnia mondiale, si dirà. Ma, per dirla con Tolstoj, se le famiglie felici si assomigliano, ogni famiglia infelice lo è a modo suo.
Solo un terzo di operai e contadini
Nessuno nega che l'era di Hu Jintao e Wen Jiabao ormai agli sgoccioli ha messo la Cina nell'orbita delle grandi potenze mondiali: in quello che Il Quotidiano del popolo esalta come il «decennio glorioso» l'economia è quadruplicata, il paese è diventato il primo esportatore mondiale, il primo detentore di riserve valutarie del pianeta e non è solo retorica scrivere, come fa l'organo ufficiale del Pcc, che «mai la Cina ha ricevuto tanta attenzione dal mondo e mai il mondo ha avuto tanto bisogno della Cina». Anche il Partito comunista è cresciuto nel frattempo. Oggi ha oltre 82 milioni di iscritti dei quali solo un terzo è costituito da operai e contadini, rappresentando così a suo modo l'articolazione sociale indotta da oltre 30 anni di riforme e aperture che hanno costruito il «mercato con caratteristiche cinesi». Ma la percezione diffusa di questa organizzazione capillare, che ha dato prova di enormi capacità di trasformazione anche ideologica, è di un'isola elitaria, che seleziona severamente le richieste di appartenenza avanzate dai molti che vorrebbero accedervi per i vantaggi e i privilegi che offre il farne parte. Un'isola circondata dal mare ribollente di una società cinese sempre più frammentata e polarizzata, per interessi e aspettative, e che in nulla rispecchia l'insieme «armonioso» che il Pcc vorrebbe rappresentare al proprio interno.
È dunque un'eredità pesante quella che la Quarta Generazione lascia. Il suo «sviluppo scientifico», che doveva affrontare e risolvere i guasti ambientali della crescita a tutti i costi, non ha neppure arginato il disastro ecologico che sempre più spinge interi villaggi a ribellarsi agli insediamenti di mega impianti industriali sul proprio territorio. La costruzione della «società armoniosa» resta uno slogan bersagliato dall'ironia degli scettici cinesi tanto quanto la «felicità» e «il popolo al primo posto», davanti alla corruzione inarrestabile dei governanti a tutti i livelli. E nonostante che i vertici abbiano avviato soluzioni concrete per questioni enormi come le pensioni e la sanità e preso decisioni importanti come l'abolizione delle tasse ai contadini e il ritorno della scuola dell'obbligo gratuita nelle campagne, le dimensioni degli interventi si sono rivelate drammaticamente insufficienti rispetto alla mole dei problemi che intanto si venivano creando. Così gli «incidenti di massa», rivolte, scioperi e proteste, si sono moltiplicati. Le ultime statistiche ufficiali, del 2006, ne davano 127mila. Da allora neanche più una cifra ma di certo non sono diminuiti. A trasmettere gli echi dell'insoddisfazione c'è poi la rete dove oggi navigano oltre 500 milioni di cinesi e che, nonostante controlli e censure, somiglia a una pentola in ebollizione, soprattutto attraverso i microblogger di Douban e i simil twitter di Weibo che radunano 300 milioni di adepti.
Il peso della futura instabilità
A metà settembre la National Development and Reform Commission, l'agenzia governativa di pianificazione, ha riunito a Shanghai una settantina di studiosi ed esperti per ascoltarne il parere. L'Economist, nel riportare l'incontro (27/10/2012), citava le impressioni di un economista della Bank of America Merrill Lynch, secondo il quale in quell'occasione diversi studiosi hanno descritto la Cina come «instabile alla base, demoralizzata nelle classi medie, fuori controllo ai vertici» e hanno convenuto sulla «estrema urgenza» di riforme, senza le quali si rischierebbero tumulti sociali. Del resto anche nei media ufficiali si ritrovano articoli che descrivono i prossimi dieci anni come «insolitamente duri» mentre non pochi anziani teorici del partito denunciano la «crisi di legittimità» del medesimo. Secondo il sinologo Joseph Fewsmith molti cinesi oggi sarebbero scoraggiati persino rispetto alle prospettive di riforma perché considerano che gli «interessi particolari» sono diventati così potenti da frapporsi a qualunque cambiamento, e si fa largo il timore che anche solo avviare processi di riforma più incisivi possa far crollare tutto (J. Fewsmith, China Leadership Monitor n. 39). Ipotesi inquietante che le riforme graduali avrebbero dovuto scongiurare.
Un'attesa incandescente
Che la situazione non fosse proprio armoniosa lo si era già capito. Mai, da quando Deng Xiaoping ha stabilito l'istituzionalizzazione dell'avvicendamento ai vertici con lo scopo di evitare protagonismi e spaccature, letali al Pcc, e dare vita a leadership di compromesso, l'avvicinarsi a un Congresso era stato così incandescente. Il caso Bo Xilai e la sua rovinosa caduta in disgrazia hanno portato in superficie un violento scontro politico in seguito al quale una fazione del Pcc è stata mutilata e un nuovo ordine è stato stabilito. Quale questo sia, si vedrà.
Un groviglio di questioni, «connesse come i denti di un cane» secondo l'espressione di un rapporto interno del Partito, attende dunque la leadership guidata da Xi Jinping, la prima che si installa senza essere stata scelta da un grande vecchio. Anche per questo Xi è rimasto finora un'entità enigmatica quanto a propensioni politiche e si prevede che avrà bisogno di tempo per consolidare la propria posizione, prima di prendere decisioni forti.
Lo scontro sull'economia
Ma c'è chi dà già per certo che le prime deliberazioni riguarderanno l'economia, in preda a un rallentamento di cui nessuno riesce a prevedere entità e durata, oltretutto in un momento in cui il paese si avvia verso un'epoca di profondi cambiamenti demografici e persino antropologici. Potrebbe essere una frenata strutturale, dopo 30 anni di crescite a due cifre. Ma se ciò fosse bisognerebbe procedere subito a quella modifica dell'asse di sviluppo che da tempo si invoca.
La gestione del premier in uscita, Wen Jiabao, è molto criticata. E non è detto che a passare al New York Times la documentazione riservata, sulla quale il quotidiano Usa ha costruito una lunga inchiesta sugli affari della famiglia Wen, siano stati gli amici di Bo Xilai. Potrebbe essere stato invece qualcuno desideroso di azzoppare Wen Jiabao e impedirne qualunque influenza sul dopo. La guerra dei dossier probabilmente è appena iniziata e potrebbe avere risvolti imprevedibili. Anch'essa rivela diffidenza e sospetto, stavolta all'interno del Pcc, accentuati dal caso Bo Xilai, leader potente ridotto in briciole in un amen. Un problema aggiuntivo, e non dei minori, per la nuova leadership.
C'è chi, come l'esperto di economia cinese Barry Naughton, rileva come buona parte delle leve dell'economia finanziaria siano oggi in mano a riformisti in senso liberista (China Leadership Monitor n.39). Intorno al futuro premier Li Keqiang aleggia un'aura da riformista ma l'ingresso nel Comitato permanente del vice premier Wang Qishan, descritto come un grande esperto di economia incline a politiche che favoriscono il settore privato e la liberalizzazione del settore finanziario, potrebbe dare un'indicazione più decisa sulla prossima road map.
Tanto più se, come si insinuava nelle scorse settimane, il prossimo Congresso dovesse procedere a un emendamento della Carta del partito che elimini, o ridimensioni, il riferimento al «pensiero di Mao Tse Tung». Decisione non da poco e assai rischiosa considerato l'attaccamento al Presidente ancora vivo nel paese. Ma, al dunque, un elemento di chiarezza.
dal Manifesto
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