"E’ una vicenda che ho seguito con apprensione e dolore, la
comunità internazionale deve fare di tutto per ottenere la liberazione
dell’attivista saudita. Mi rendo conto che spesso ci sono interessi in
gioco, ma la promozione dei diritti umani deve essere sempre anteposta a
tutto".
Lina Ben Mhenni, blogger tunisina
Ali al-Nimr ha vent'anni.
E’ stato condannato alla decapitazione, crocifissione e putrefazione del corpo.
I giudici di appello della Corte penale speciale e della Corte suprema dell’Arabia Saudita hanno confermato la sentenza di condanna a morte emessa dal tribunale penale speciale di Gedda per la “partecipazione a manifestazioni antigovernative” a Qatif, cittadina nella parte orientale del regno, quando Ali aveva appena diciassette anni.
La condanna è frutto di una confessione estorta al ragazzo sotto tortura.
Ali è nipote di un eminente religioso sciita indipendente e oppositore del regime dell’Arabia Saudita, Sheikh Nimr Baqir al-Nimr, arrestato l’8 luglio del 2012 e anch'egli condannato a morte, il 15 ottobre del 2014.
Può essere messo a morte appena il re Salman ratifica la condanna.
In tutto il mondo ci si sta mobilitando per chiedere che questa ennesima barbarie, in un paese che viola sistematicamente i diritti umani, la libertà delle donne, venga bloccata.
Ma si sa i capitali ingenti dell’Arabia, accumulati sui profitti dell’oro nero ed oggi ramificati in tutti i settori della finanza, ne fanno un partner intoccabile. Per questo nessun paese si sta muovendo per stigmatizare, anzi neppure vagamente criticare, la violenza sistemica del regime saudita.
Anzi, con macabro tempismo intanto le Nazioni Unite hanno nominato l’ambasciatore saudita, Faisal bin Hassan Trad, a capo del Consiglio per i diritti umani dell’Onu nel 2016,
Amnesty International ha lanciato un appello che è possibile firmare, per rompere il silenzio e chiedere l’annullamento della sentenza.
Segui le mobilitazioni in twitter
Stiamo parlando di un paese che detiene il record mondiale delle esecuzioni capitali, che tranquillamente è considerato un alleato dell’occidente e non solo.
Da Amnesty International
LA PENA DI MORTE IN ARABIA SAUDITA
L’Arabia Saudita è tra i paesi che eseguono il più alto numero di sentenze: dal 1985 al 2005 sono state messe a morte oltre 2200 persone; da gennaio ad agosto 2015, almeno 130 esecuzioni.
Violando la Convenzione sui diritti dell’infanzia e il diritto internazionale, ha messo a morte persone per reati commessi quando erano minorenni.
Spesso i processi per reati capitali sono tenuti in segreto e sono sommari e iniqui, senza l’assistenza e la rappresentanza legale durante le varie fasi della detenzione e del processo. Gli imputati possono essere condannati sulla base di confessioni estorte con torture e maltrattamenti, coercizione e raggiri.
Le tensioni tra la comunità sciita e le autorità saudite sono cresciute dal 2011, quando sono cresciute le manifestazioni contro gli arresti e le vessazioni di sciiti che svolgevano preghiere collettive e violavano il divieto di costruire moschee sciite.
Le autorità saudite hanno risposto con la repressione di chi era sospettato di partecipare o sostenere o esprimere opinioni critiche verso lo stato. I manifestanti sono stati trattenuti senza accusa e in isolamento per giorni o settimane e sono stati segnalati maltrattamenti e torture.
Dal 2011, quasi 20 persone collegate alle proteste sono state uccise e centinaia incarcerate.
Lina Ben Mhenni, blogger tunisina
Ali al-Nimr ha vent'anni.
E’ stato condannato alla decapitazione, crocifissione e putrefazione del corpo.
I giudici di appello della Corte penale speciale e della Corte suprema dell’Arabia Saudita hanno confermato la sentenza di condanna a morte emessa dal tribunale penale speciale di Gedda per la “partecipazione a manifestazioni antigovernative” a Qatif, cittadina nella parte orientale del regno, quando Ali aveva appena diciassette anni.
La condanna è frutto di una confessione estorta al ragazzo sotto tortura.
Ali è nipote di un eminente religioso sciita indipendente e oppositore del regime dell’Arabia Saudita, Sheikh Nimr Baqir al-Nimr, arrestato l’8 luglio del 2012 e anch'egli condannato a morte, il 15 ottobre del 2014.
Può essere messo a morte appena il re Salman ratifica la condanna.
In tutto il mondo ci si sta mobilitando per chiedere che questa ennesima barbarie, in un paese che viola sistematicamente i diritti umani, la libertà delle donne, venga bloccata.
Ma si sa i capitali ingenti dell’Arabia, accumulati sui profitti dell’oro nero ed oggi ramificati in tutti i settori della finanza, ne fanno un partner intoccabile. Per questo nessun paese si sta muovendo per stigmatizare, anzi neppure vagamente criticare, la violenza sistemica del regime saudita.
Anzi, con macabro tempismo intanto le Nazioni Unite hanno nominato l’ambasciatore saudita, Faisal bin Hassan Trad, a capo del Consiglio per i diritti umani dell’Onu nel 2016,
Amnesty International ha lanciato un appello che è possibile firmare, per rompere il silenzio e chiedere l’annullamento della sentenza.
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Stiamo parlando di un paese che detiene il record mondiale delle esecuzioni capitali, che tranquillamente è considerato un alleato dell’occidente e non solo.
Da Amnesty International
LA PENA DI MORTE IN ARABIA SAUDITA
L’Arabia Saudita è tra i paesi che eseguono il più alto numero di sentenze: dal 1985 al 2005 sono state messe a morte oltre 2200 persone; da gennaio ad agosto 2015, almeno 130 esecuzioni.
Violando la Convenzione sui diritti dell’infanzia e il diritto internazionale, ha messo a morte persone per reati commessi quando erano minorenni.
Spesso i processi per reati capitali sono tenuti in segreto e sono sommari e iniqui, senza l’assistenza e la rappresentanza legale durante le varie fasi della detenzione e del processo. Gli imputati possono essere condannati sulla base di confessioni estorte con torture e maltrattamenti, coercizione e raggiri.
Le tensioni tra la comunità sciita e le autorità saudite sono cresciute dal 2011, quando sono cresciute le manifestazioni contro gli arresti e le vessazioni di sciiti che svolgevano preghiere collettive e violavano il divieto di costruire moschee sciite.
Le autorità saudite hanno risposto con la repressione di chi era sospettato di partecipare o sostenere o esprimere opinioni critiche verso lo stato. I manifestanti sono stati trattenuti senza accusa e in isolamento per giorni o settimane e sono stati segnalati maltrattamenti e torture.
Dal 2011, quasi 20 persone collegate alle proteste sono state uccise e centinaia incarcerate.