Uno sguardo sulle esperienze di organizzazione indigena che fronteggiano
vecchie e nuove violenze, realtà di resistenza e speranza nel Messico dal basso.
di Giovanna Gasparello
Il Messico è
stato sempre terra di grandi contrasti: paese della diseguaglianza, come
rilevava Alexander Von Humboldt già nel 1811, la sua storia è segnata dalla
radicalità dei movimenti rivoluzionari e di protesta (1910, 1968, 1994), ma
anche dall’elevata violenza che ha caratterizzato la società ed il
comportamento dello Stato.
Oggi il Messico sta attraversando una vera e propria emergenza umanitaria legata alla guerra tra i cartelli del narcotraffico e lo Stato per il controllo del territorio e dell’economia illegale e legale, conflitto che in meno di dieci anni ha causato più di 100.000 morti; la disputa per il controllo territoriale comporta una crescente vulnerabilità sociale, economica e culturale della popolazione. Quella che viene chiamata “lotta alla delinquenza organizzata” appare sempre più chiaramente come una guerra di alcune strutture dello Stato e delle narcomafie contro l’intera società, in cui si sospendono i diritti fondamentali e si allargano gli “stati di eccezione”: le esecuzioni extra-giudiziarie, la tortura e la privazione illegale della libertà sono strumenti di uso comune tra polizia e forze armate.
La società
messicana mostra risposte diverse a tale contesto. Da una parte, inserirsi
nelle reti della delinquenza organizzata è l’opzione per coloro che hanno
interiorizzato la violenza. D’altro canto, alcuni settori della società hanno
cercato, in modo congiunturale e non sempre trasparente, di assumere il compito
abbandonato dallo Stato di garantire la sicurezza dei cittadini, dando vita al
fenomeno delle “autodifese”.
In terzo luogo,
per molti la violenza ha un effetto paralizzante, dando origine a emergenze sociali come i profughi interni e
l’aumento della migrazione.
Esistono poi
molteplici risposte positive alla violenza, che cercano di disattivarla senza
ricorrere ad una risposta ugualmente violenta, costruendo spazi alteri al
potere corrotto dello Stato, rivitalizzando radici culturali che si basano
sulla collettività e il consenso. Tali processi mirano a rafforzare i legami e
le strutture sociali di solidarietà, mettendo in gioco la volontà affermativa che
ha caratterizzato tanti momenti della storia messicana: la forza che Susana
Devalle (2000) ha definito cultura della
resistenza (in opposizione alla cultura dell’oppressione) e che è alla
radice delle esperienze di autonomia indigena.
L’autonomia che resiste alla violenza ed al saccheggio
L’autonomia, vale a dire governarsi secondo norme proprie, è un diritto collettivo ed individuale che implica la libertà di azione -economica, politica, giuridica e sociale - della collettività all’interno dello Stato nazionale, ed i suoi diritti alla partecipazione ed alla rappresentazione politica. L’autonomia, come espressione interna dell’autodeterminazione, è un diritto riconosciuto alle popolazioni indigene dalla legislazione internazionale e nazionale; ma è anche, e soprattutto, una pratica quotidiana di organizzazione, un processo di resistenza, volto alla trasformazione delle relazioni sociali ed alla costruzione di un modello alternativo al sistema neoliberale. In tal modo, “le etnie o popoli sotterrati, negati o dimenticati rafforzano o recuperano la loro identità attraverso la rivendicazione della loro cultura, dei diritti e delle strutture politiche ed amministrative proprie” (López y Rivas 2010).
E’ notevole
la vitalità dei processi di autonomia che, a fronte della doppia aggressione
economica e culturale (Houtart 2008) perpetrata dalle politiche neoliberiste ed
estrattiviste, fioriscono in vaste regioni del continente latinoamericano. I
popoli indigeni costruiscono così alternative di convivenza, di governo, di
risoluzione dei conflitti, di comunicazione, di produzione: alternative di
vita. Queste forme altre di vivere
sono innovative per la capacità di trasformare la realtà quotidiana che, per
molti popoli indigeni, è stata storicamente segnata dall’esclusione, lo
sfruttamento e la violenza, diretta e strutturale. Si tratta di processi di
costruzione di società ed allo stesso tempo di resistenza alle molte facce
della dominazione, resistenza che però non significa una difesa immobile ma un
lento camminare verso un destino proprio.
La
radicalità (intesa come forza che nasce dalle radici collettive) insita nei
processi di autonomia, che si basano sull’organizzazione collettiva, dimostra
essere altresì una delle forme più efficaci per contrastare la penetrazione
degli attori violenti (criminalità organizzata, forze militari e paramilitari,
gruppi armati al soldo di corporazioni ed imprese estrattive) nei
territori indigeni. Ciò spiega l’emergenza dei processi di organizzazione
autonoma precisamente nei contesti sociali più conflittuali e violenti, che
apparentemente lasciano meno spazio alla costruzione di nuovi modelli di
società e di convivenza. L’autonomia praticata dai popoli indigeni, e la
strenua difesa dei propri territori culturali, rappresentano in questa lettura
un ostacolo all’appropriazione della terra e della forza-lavoro contadina,
elementi che fanno gola tanto alle economie legali come a quelle illegali.
I processi
di autonomia indigena sono estremamente dissimili tra loro, dal momento che
nascono all’interno di contesti sociali, politici, culturali sempre diversi,
sulla base di problemi ed esigenze concrete, la cui risoluzione da parte dei
popoli organizzati costituisce la forza delle istituzioni autonome. Ogni
processo sviluppa in modo diverso l’autonomia nei vari ambiti della vita
sociale: le dimensioni dell’autogoverno e la giustizia, dell’educazione e la
salute, della sostenibilità economica ed ambientale, e della riproduzione
culturale, il cui equilibrio costituisce l’ideale di un’autonomia integrale,
hanno solitamente uno sviluppo diseguale, d’accordo alla necessità ed alla
relazione intessuta tra il processo di autonomia, la società nel suo congiunto
e lo Stato.
L’autogoverno zapatista in Chiapas: para todos todo, nada para nosotros
In quest’articolo dedico particolare attenzione a quei processi che, nascendo in qualche modo come risposta organizzativa a contesti violenti, sono riusciti o per lo meno hanno cercato di trasformare la situazione e creare spazi e processi di pace, intesa come la possibilità per gli individui e la collettività di vivere in assenza di violenza e sviluppare le proprie potenzialità e la propria vita in modo positivo, in un contesto di giustizia sociale che garantisca le necessità basiche e una vita degna.
Le Giunte di Buon Governo, progetto politico e sociale dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale nello stato del Chiapas, sono un’esperienza esemplare nel panorama delle autonomie indigene. Dal 1994, nel contesto di militarizzazione e paramilitarizzazione imposto dallo Stato con la strategia di Guerra Integral de Desgaste (guerra globale di logoramento) contro l’EZLN, gli indigeni zapatisti hanno sviluppato l’autonomia a livello regionale, dotandosi di un complesso sistema di governo proprio che include più di 250 mila maya tzeltales, tzotziles, choles, mames e zoques (il 21% della popolazione indigena dello stato), organizzati in 27 Municipi Autonomi. Nel territorio zapatista esistono circa 500 scuole elementari e medie autonome; trasmettono quotidianamente dieci radio comunitarie; funzionano decine di ospedali e cliniche autorganizzate, cooperative di produzione e di commercio e due banche autonome.
L’autonomia
zapatista è nata come rivendicazione dei diritti della popolazione indigena,
sottomessa storicamente ad un complesso sistema che si basava sullo
sfruttamento sistematico degli indigeni e dei loro territori, esprimendosi in
una situazione di violenza strutturale che si mantiene fino ai giorni nostri. I
servizi sociali autonomi suppliscono a un’assenza storica dello Stato nella
regione, che aveva sistematicamente escluso gli indigeni dall’accesso ai
diritti civili e sociali. Dopo l’insurrezione del 1994, l’autonomia zapatista
si è sviluppata controcorrente ad un’esasperata violenza militare dello Stato e
dei latifondisti, in una regione di frontiera che è attraversata da ogni tipo
di traffico illegale (persone, armi, droga). Ciononostante, i villaggi
zapatisti sono riusciti ad elevare significativamente il loro livello di vita,
favorendo la partecipazione di settori anteriormente esclusi dalla vita
politica come le donne ed i giovani; il sistema autonomo di risoluzione dei
conflitti, che privilegia la conciliazione al castigo, permette di controllare
la violenza interna.
L’esperienza
zapatista mostra come, frequentemente, i processi di autorganizzazione che
nascono come risposta alla violenza si sviluppino in contrasto con le politiche
dello Stato, e addirittura in conflitto con il progetto politico dominante.
Secondo Hebért (2006) “le vittime delle
violenze sociali - come la violenza strutturale, economica o simbolica - si
adattano e trovano strategie per eludere tali violenze […] Ciononostante, le
strategie delle vittime si appartano spesso dal contesto normativo e legale che
funge da impalcatura ideologica al progetto di pace perpetua che si vuole
imporre a questi individui”.
Il Municipio di Cherán, Michoacán: il potere autonomo
che fronteggia le narcomafie
La costruzione dell’autonomia in contesti violenti implica la riappropriazione del potere di decidere sul proprio futuro come popoli, e la costruzione di nuove forme di potere più orizzontale e plurale.
Ne è un esempio l’esperienza di Cherán, municipio abitato da indigeni purépecha, nello stato di Michoacán.
La
popolazione è insorta nel 2011 contro il saccheggio delle risorse forestali di
proprietà collettiva, ad opera di imprese legate alla delinquenza organizzata,
che avevano imposto un racket di estorsioni ed omicidi. Attraverso la
rivitalizzazione di strutture organizzative proprie della società indigena (in
particolare la Ronda Comunitaria,
composta da civili armati investiti dalla collettività del compito di garantire
la sicurezza nell’area urbana e circostante), la popolazione riuscì a
ristabilire il controllo sul territorio, in una sanguinosa lotta che portò alla
morte di 17 abitanti.
Finalmente,
la riappropriazione di una dimensione di “pace” collettiva ed individuale ha
spinto la popolazione ad andare oltre, rifiutando il sistema elettorale
partitico, come afferma un abitante di Cheràn: “Credo che l’autonomia abbiamo cominciato a conquistarla nel momento in
cui decidemmo di affrontare queste persone [i trafficanti]. Perché non vogliamo presidenti municipali e
tutto ciò? Perché sappiamo che sono collusi. Se li accettassimo, accetteremmo nuovamente
che i nostri boschi si distruggessero più di ora. I politici camminano mano
nella mano con il narco” (cit. in Caraballo 2012).
La comunità
puntò, per la via istituzionale, al riconoscimento della propria autonomia di
governo: dopo un lungo processo legale, ottenne la facoltà di eleggere le
proprie autorità secondo “usi e costumi”. Dal 2012 il Municipio di Cheràn è
governato dal Consejo Mayor, organo
collegiale che si occupa dell’amministrazione, la rappresentanza, la giustizia,
le politiche sociali ed ambientali.
Organizzazione collettiva come difesa dalla violenza
Quest’esempio mostra che c’è una relazione inversamente proporzionale tra l’organizzazione collettiva e comunitaria e la violenza, pertanto si impone la necessità di rafforzare le strutture di governo proprie, che hanno la funzione di coesione. La diminuzione della violenza interna permette lo sviluppo di una maggiore capacità di affrontare le molteplici violenze che attraversano le regioni indigene: il narcotraffico e la violenza strutturale, la militarizzazione e la violenza politica, ecc. Ciononostante, in molte occasioni i poteri violenti superano la capacità di resistenza dell’autonomia, provocandone l’implosione.
È il caso
del Municipio Autonomo di San Juan Copala, nello stato di Oaxaca, creato dagli
indigeni triqui come esercizio di un potere popolare, altero agli interessi
politici dominanti nella regione, ma che non resistette ai colpi della violenza
paramilitare; o della comunità nahua di Ostula, in Michoacán, che nella lotta
per riappropriarsi del proprio territorio, espropriatogli da tempo, rivendicò
il diritto all’autodifesa come parte dell’autonomia.
Il progetto
autonomo di Ostula, che instaurò una polizia comunitaria ed un governo
collettivo nelle terre recuperate, è stato schiacciato dalla violenza
scatenatagli contro dalla delinquenza organizzata, dai narcotrafficanti e dai
promotori dei progetti minerari nella zona.
La necessaria difesa dell’autonomia e della vita
Queste esperienze mostrano chiaramente la necessità di garantire la difesa del proprio territorio e della popolazione coinvolta nella lotta per l’autonomia, che in quasi tutti i casi significa la difesa agguerrita delle risorse naturali, della qualità della vita, della cultura e della dignità dei popoli, a fronte dei poteri fattici e depredatori più o meno istituzionalizzati, più o meno criminali.
Rispecchia
quest’esigenza il Pronunciamento sul
Diritto all’Autodifesa Indigena, proclamato dal Congresso Nazionale
Indigeno nell’Assemblea svoltasi nel giugno del 2009, proprio ad Ostula. Nel
documento si dichiara che: “i nostri
popoli indigeni, tribù e nazioni, così come le comunità che li compongono,
hanno l’inalienabile diritto, derivato dall’articolo 39 della Costituzione, di
organizzarsi e realizzare la difesa della propria vita, della sicurezza, delle
libertà e dei diritti fondamentali e della loro cultura e territori […] mentre
ciò non comprometta il rispetto dei diritti umani; pertanto la creazione, nel
contesto della nostra cultura ed organizzazione tradizionale, di polizie
comunitarie, guardie comunali ed altre forme organizzative collettive per
l’autodifesa indigena, sono legali, legittime e, soprattutto, necessarie a
fronte della profonda corruzione e decomposizione delle istanze incaricate di
amministrare la giustizia”.
In tale contesto si inserisce la creazione delle Guardie Forestali e di Vigilanza di Milpa Alta, zona montuosa alla periferia di Città del Messico, dove i popoli originari hanno dato vita a gruppi di vigilanza comunitaria volti a proteggere il bosco dalle segherie clandestine e a riaffermare il controllo collettivo sul territorio che, ricco di sorgenti d’acqua, è oggetto di progetti di sfruttamento intensivo da parte del governo locale.
Giustizia autonoma e risoluzione dei conflitti come
processo di pace
Elementi basilari in qualunque tentativo di organizzazione autonoma sono dunque la sicurezza e la risoluzione autonoma dei conflitti. Fermare la violenza significa restituire la libertà agli individui ed alla collettività. Una volta ricostituite le relazioni di convivenza e di fiducia, è possibile edificare il futuro: organizzarsi per costruire le proprie istituzioni educative, di salute, di produzione e di commercio.
La
traiettoria degli indigeni Nasa organizzati nel Consiglio Regionale Indigeno del Cauca (CRIC), in Colombia, è
esemplare in tal senso: in un contesto di guerra, in cui attori armati in lotta
tra loro utilizzavano i territori indigeni come campo di battaglia e gli
indigeni come carne da cannone, il CRIC si è conformato come soggetto politico
forte nella regione, impugnando la bandiera dell’autonomia radicale come
resistenza alla violenza. La Guardia
Indígena Nasa, che realizza azioni di vigilanza e protezione, è stata
definita come un meccanismo umanitario e di resistenza civile. L’identità
etnica è utilizzata come strategia di potere in uno spazio di conflitto, mentre
la giustizia indigena è usata, in modo innovativo, per processare membri
dell’Esercito e delle guerriglie, responsabili entrambi di omicidi di indigeni
nella regione.
Miniere e narco minacciano la giustizia autonoma nella
Costa-Montaña del Guerrero
Attualmente, i processi di autonomia si stanno confrontando conflitti nuovi e di difficile soluzione, che minano la sopravvivenza delle stesse strutture organizzative indigene.
In diversi
casi, la dinamicità delle autonomie ha permesso di far fronte a tali conflitti
ed elaborare strategie innovative, oppure misurare e ricalibrare le possibilità
ed i limiti della giustizia e dell’organizzazione autonoma.
Ne è esempio il Sistema di Sicurezza, Giustizia e Rieducazione Comunitaria (SSJRC), sorto nel 1995, che raggruppa diversi popoli indigeni nelle regioni Costa e Montagna dello stato del Guerrero, zone caratterizzata da alti indici di marginalità. Il Sistema è conosciuto per la sua efficacia nel generare alternative di pace sociale e di ricostituzione del tessuto comunitario attraverso l’istituzione di strutture autonome per la sicurezza e l’amministrazione della giustizia. Negli ultimi anni il Sistema è però minacciato dalla penetrazione del narcotraffico nel territorio e da progetti estrattivi.
La Coordinadora Regional de Autoridades
Comunitarias, istanza collettiva di giustizia e cuore del SSJRC, ha
arrestato in alcune occasioni trafficanti di droga che agivano nel territorio
indigeno ed ha rivendicato il diritto a processare i colpevoli detenuti in
flagrante. In seguito però ha deciso di non affrontare direttamente il
problema, che supera le possibilità della sicurezza e della giustizia
comunitaria e popolare, dedicandosi piuttosto ad attività di prevenzione.
In
conclusione, è innegabile che le autonomie rappresentano uno degli esempi più
forti e radicati di resistenza al dilagare della violenza ed alla sua
normalizzazione nella società messicana. La costruzione della pace, sempre
incompiuta, passa attraverso processi contraddittori e difficili, ma trova
nelle autonomie un punto di forza che è costituito dall’organizzazione
collettiva e dalla difesa di valori di convivenza che prefigurano una società
nuova.
Bibliografia
Caraballo, Andrea (2012), “Cherán K`eri, caminando firme hacia la autonomía...”, ALAI- América Latina en Movimiento, 02/06/2012, <http://www.alainet.org/>
Devalle, Susana (2000), “Violencia: estigma de nuestro siglo” in Devalle, S. (comp.) Poder y cultura de la violencia, El Colegio de México, México, pp. 15-31
Hébert, Martin (2006), “Présentation : paix, violences et anthropologie” en Anthropologie et sociétés, vol.30, núm.1, pp. 7-28
López y Rivas, Gilberto (2010), “Tesis en torno a la autonomía de los pueblos indios”, Rebelión, 29/05/2010.
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Tratto da: Quaderni di Antropologia e Scienze Umane, anno II, n. 2-3, pp. 103-109. Salerno: Università di Salerno-Associazione La Rete - Giuda Editore. Settembre 2015