Sono le donne che di fronte a spazi urbani sempre più esanimi e atomizzati stanno rinvigorendo la socialità delle città. Sono per lo più le donne a creare, nel Nord come nel Sud del mondo, un nuova economia urbana di sussistenza attraverso cucine popolari, orti e giardini comunitari, mercatini e assemblee di quartiere, arte di strada, tutte forme embrionali di autogoverno. Sono le donne che in risposta alla precarizzazione del lavoro e alla crisi dei salari si sono appropriate delle strade e le hanno fatte diventare commons. Tuttavia, secondo Silvia Federici, non si tratta soltanto di rendere più visibile cosa oggi le donne fanno per resistere e creare un mondo nuovo ma prima di tutto come lo fanno, a cominciare dai modi con cui trasformano l’arte di strada: «È opportuno pensare alla lotta che le donne e i movimenti popolari stanno facendo nei quartieri poveri in tutto il mondo come a una escuelita – scrive Silvia Federici – , dove gli artisti, gli attivisti, gli educatori possono imparare non solo a “de-professionalizzasi” ma a coltivare un diverso tipo di creatività rispetto a quella solitamente associata all’espressione artistica. Questa è la creatività che si genera quando modifichiamo i nostri rapporti con gli altri, scoprendo nel potere della cooperazione il coraggio di resistere alle forze che opprimono la nostra vita…»
Mondeggi bene comune |
Produrre il comune nella città*
Immagini di donne con le braccia estese a racchiudere case e piazze, o a stringere i propri corpi in reciproci abbracci, o a intrecciare fili intorno a se stesse e alle città, possono evocare una società matriarcale idealizzata. Ma questo mondo femminile e comunitario, alla cui rappresentazione il pittore messicano Rodolfo Morales ha dedicato la sua opera, è meno utopica di quanto si possa immaginare[1].
“Unidad perpetua”, 1987 (Rodolfo Morales) |
Già nel 1999, riflettendo su come le città siano storicamente dipese dall’entroterra per la loro sopravvivenza, Maria Mies osservava che in tutto il Terzo mondo è cresciuta un’economia urbana di sussistenza praticata nei centri urbani e organizzata principalmente dalle donne. Essa garantisce non solo le necessità materiali della vita ma anche la coesione sociale[3]. Mies scriveva che se aggiungiamo alla produzione alimentare diretta tutte le altre varie forme di lavoro di sussistenza – la preparazione del cibo, gli scambi di alimenti, i servizi, l’aiutare gli altri, l’andare a prendere e portare l’acqua – è evidente che la sopravvivenza della maggioranza della persone in queste città dipende dal lavoro di sussistenza delle donne[4].
L’economia di sussistenza urbana descritta da Mies ha continuato a espandersi in questi anni, alimentata in gran parte dalle continue espulsioni dalla terra delle comunità rurali. Di fronte a una crisi economica permanente, nelle periferie delle mega-città sparse in tutta l’Africa, l’Asia e l’America Latina, in aree occupate con l’azione collettiva, le donne stanno creando una nuova economia politica, basata su forme cooperative di riproduzione sociale e, nel corso di questo processo, affermano il loro “diritto alla città”[5] creando nuove basi per resistere e per avanzare le proprie rivendicazioni. Grazie ai loro comedores populares, ai merenderos, ai giardini urbani e alle assemblee di quartiere (barriales), le periferie urbane che hanno portato Mike Davis a parlare di un “pianeta degli slum” si possono ri-immaginare come un pianeta di iniziative e strutture comunitarie, in cui emerge un “contro-potere” che consente ai residenti non solo di sopravvivere ma di sviluppare forme embrionali di autogoverno.
In base a queste esperienze, credo che al “punto zero della ri-produzione”[6], dove svanisce l’illusione che lo Stato e il capitale possano sostenere le nostre vite, la lotta per la sopravvivenza diventi una forza trasformatrice. Riecheggiando un argomento sostenuto dall’attivista e teorico uruguaiano Raúl Zibechi, esistono oggi migliaia di quartieri, ai margini del sistema statale, dove le donne assicurano la continuità della vita quotidiana. In essi si istituiscono nuove relazioni sociali, che procurano servizi essenziali e cambiano il modo in cui la riproduzione è organizzata – e sono le donne le protagoniste di questo processo[7].
Altrettanto importante è che le donne, per contrastare gli effetti dei programmi di austerità imposti alle loro comunità dalla liberalizzazione economica, a partire dalla metà degli anni Settanta, abbiano messo in comune molte attività riproduttive come fare la spesa, cucinare e seminare.
Un esempio particolare è il caso del Cile dopo il colpo di Stato militare del 1973, quando negli insediamenti proletari urbani paralizzati dalla paura e contemporaneamente sottoposti a un brutale programma di austerità, le donne si sono fatte avanti, e unendo le loro risorse e il loro lavoro hanno iniziato a fare la spesa insieme e poi a cucinare insieme, in gruppi di venti o più nei quartieri. Queste iniziative, nate per pura necessità, hanno tuttavia prodotto molto di più che il mero aumento delle risorse economiche. L’atto stesso di riunirsi e rifiutare l’isolamento a cui il regime di Pinochet costringeva la popolazione, ha cambiato la vita delle donne, dando loro maggiore fiducia in se stesse, e ha rotto la paralisi indotta dalla strategia governativa del terrore. Ha anche riattivato la circolazione di informazioni e conoscenze necessarie per sopravvivere e resistere, e ha trasformato il concetto stesso di cosa sia una buona madre e una buona moglie che, sempre di più, ha voluto dire uscire da casa e lottare[9]. Di conseguenza, il lavoro riproduttivo ha smesso di essere un’attività puramente domestica. Con le grandi pentole per cucinare è sceso in strada anche il lavoro domestico, che è entrato nello spazio pubblico acquistando una dimensione politica anche agli occhi delle autorità, che dopo qualche tempo hanno cominciato a vedere nell’organizzazione delle cucine popolari un’attività sovversiva e una minaccia per il potere.
Prinzessinnengärten, orto urbano di Berlino (Ph Vanessa Scarpa) |
Anche in Bolivia, di fronte all’impoverimento delle loro comunità, le donne hanno portato il lavoro riproduttivo fuori dalle case. Di conseguenza, come afferma Maria Galindo dell’organizzazione Mujeres Creando[11], l’isolamento tipico del lavoro domestico è stato spezzato e si è formata una cultura di resistenza. Galindo parla della lotta delle donne per la sopravvivenza come di una rottura con la sfera della casa e della famiglia. E sottolinea come l’immagine della donna chiusa in casa appartenga ormai al passato, perché in risposta alla precarizzazione del lavoro e alla crisi dei salari maschi le donne si sono appropriate delle strade e le hanno trasformate in mezzi di sussistenza, in veri e propri commons dove trascorrono la maggior parte del tempo, e dove i figli possono fare i compiti mentre aiutano le madri con il loro lavoro[12].
Il lavoro domestico a pagamento ha contribuito alla ridefinizione dello spazio urbano. Visto in un primo momento come luogo pericoloso, dove le lavoratrici domestiche, in gran parte emigranti, potevano essere fermate dalla polizia, esser trovate senza documenti e subire abusi, lo spazio pubblico è diventato un luogo di autonomia e di incontri, un luogo dove rompere l’isolamento del lavoro e guadagnare visibilità per le proprie rivendicazioni, e raggiungere un pubblico più ampio. Le lavoratrici filippine hanno aperto la strada, cercando spazi sociali – parchi, chiese, centri commerciali – in cui riunirsi nei giorni di riposo o di domenica. In alcune città (per esempio Hong Kong) sono scese in piazza con spettacoli pubblici settimanali, con canti e balli focalizzati sui problemi inerenti alla loro vita e alle loro esperienze lavorative. Avere una presenza sul territorio, occupare il territorio – la strada, il marciapiede, il parco – è una pratica che è stata dettata non solo dalla necessità di rompere l’isolamento, ma dalla realizzazione che per combattere le restrizioni poste dalle politiche sull’immigrazione è essenziale diventare visibili e far conoscere la propria storia. Secondo Priscilla Gonzalez, per molti anni coordinatrice di Domestic Workers United – una delle principali organizzazioni di lavoratrici domestiche negli Stati Uniti – questo si è rivelato una forma di lotta molto efficace[13]. Facendo conoscere le loro storie, le lavoratrici domestiche immigrate non solo hanno condiviso le loro esperienze, ma hanno anche sviluppato una maggiore consapevolezza della propria condizione come donne e una comprensione più ampia delle conseguenze della globalizzazione per le loro comunità.
L’arte è stata un elemento chiave nella lotta. L’arte abbellisce gli spazi urbani in cui le persone vivono e lavorano dando valore e dignità alla nostra vita. Mostra i successi della comunità, mantiene viva la memoria di coloro che sono morti o imprigionati. I murales, il teatro di strada, la produzione di manifesti, spillette, volantini, magliette illustrate, adesivi con immagini e slogan sono diventati una componente indispensabile non solo del discorso politico ma di una vita in cui ogni momento è una lotta. Di conseguenza, la stessa arte si è trasformata. Sulla spinta dei movimenti popolari, l’arte si è sempre più sviluppata nelle strade e, come in genere i movimenti sociali, si è femminilizzata.
Un esempio potente della rivoluzione che si è operata nell’arte di strada sono i graffiti dipinti sulle pareti di La Paz dalle componenti di Mujeres Creando, che ridefiniscono l’immaginario collettivo della città trasformando i suoi muri in un vasto tazebao, che critica le politiche del governo, sfida i codici morali consolidati, e mantiene in vita il senso di un’alternativa alla politica istituzionale[14].
In questo contesto, anche oggi è importante la presenza nei movimenti di artisti politicizzati, così come la collaborazione con attivisti ed educatori esterni, che possono, per esempio, fornire informazioni e approfondimenti sulle politiche governative che penalizzano la comunità. Ci sono tuttavia pericoli, in un contesto in cui la mercificazione di ogni aspetto della vita sta modificando anche le lotte sociali. Oggi si guarda anche alle lotte come a delle merci, con gli artisti in funzione di strumenti di gentrificazione. Ormai gli spazi in cui artisti ed educatori contribuiscono ai movimenti popolari sono costantemente minacciati da interessi commerciali, nonché dalle autorità e dalla polizia che temono qualsiasi forma di potere che viene dal basso.
È importante ribadire dunque che artisti ed educatori non sono attori neutri, né possono immaginare di essere i vettori di una particolare creatività e conoscenza relativa alle lotte. Come suggeriscono gli esempi indicati, le donne hanno dimostrato una grande capacità di autonomia e di auto-organizzazione. Hanno anche dimostrato che è dalla necessità che nasce l’invenzione di nuove attività e nuove relazioni. È quindi più opportuno pensare alla lotta che le donne e i movimenti popolari stanno facendo nei quartieri poveri in tutto il mondo come a una escuelita[15], dove gli artisti, gli attivisti, gli educatori possono imparare non solo a “de-professionalizzasi” ma a coltivare un diverso tipo di creatività rispetto a quella solitamente associata all’espressione artistica. Questa è la creatività che si genera quando modifichiamo i nostri rapporti con gli altri, scoprendo nel potere della cooperazione il coraggio di resistere alle forze che opprimono la nostra vita.
Articolo tratto da Reincantare il mondo. Femminismo e politica dei commons (ombre corte, con prefazione a cura di Anna Curcio), dove è apparso con il titolo “Produrre il comune nella città”.
Note
[1]*Commoning the City. From Survival to Resistance and Reclamation, in “The Journal of Design Strategies”, 9, 1, 2017.
Rodolfo Morales (8 maggio 1925 – 30 gennaio 2001) è un rinomato pittore messicano che ha rappresentato le donne come fondamento della vita sociale in Messico.
[2] Come ha scritto David Harvey citando il sociologo urbano Robert Park. Si veda David Harvey, Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street, il Saggiatore, Milano 2013, pp. 21-22.
[3] Maria Mies e Veronika Bennhold-Thomsen, The Subsistence Perspective. Beyond The Globalized Economy, Zed Books, Londra 1999, p. 125-126.
[4] Mies e Bennhold-Thomsen, The Subsistence Perspective, cit., p. 127.
[5] Si veda Harvey, Città ribelli, cit., pp. 21-45.
[6] Si veda Silvia Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, ombre corte, Verona 2014.
[7] Raúl Zibechi, Territories in Resistance. A Cartography of Latin American Social Movements, AK Press, Oakland CA 2012, pp. 236-237, 241, 261; Raúl Zibechi, Descolonizar el pensamiento crítico y las praticás emancipatorias, Ediciones desde abajo, Bogotá 2015.
[8] Si veda Fantu Cheru, The silent revolution and the weapons of the weak. Transformation and innovation from below, in Louise Amoore (a cura di), The Global Resistance Reader, Routledge, New York 2005, pp. 74-85.
[9] Jo Fisher, “The Kitchen Never Stopped”. Women’s self-help groups in Chile’s shanty towns, in Jo Fisher, Out of the Shadow. Women, Resistance and Politics in South America, Latin American Bureau, Londra 1993, pp. 16 ss.
[10] Natalia Quiroga Díaz e Verónica Gago, Los comunes en femenino. Cuerpo y poder ante la expropriación de las economías para la vida, in “Economía y Sociedad”, 19, 45, 30 giugno 2014.
[11] Mujeres Creando, Mujeres Grafiteando, Compaz, La Paz 2009.
[12] Maria Galindo, No Se Puede Descolonizar Sin Despatriarcalizar, in www.mujerescreando.org, 2013, http://www.mujerescreando.org/pag/prensa/2013/libro-nosepuededescolonizar.htm.
[13] Silvia Federici e R.J. Maccani, Interview with Pricilla Gonzalez, in Camille Barbagallo e Silvia Federici (a cura di), “Care Work” and the Commons, Phoneme Books, Nuova Delhi 2012.
[14] Mujeres Creando, Mujeres Grafiteando, cit.
[15] Zibechi, Descolonizar el pensamiento crítico, cit., pp. 161-170.