Un treno lanciato contro i Maya? Ma come? Se i mega-progetti del governo di AMLO minacciano tanto gli indigeni, perché proprio “gli indigeni” si sono prestati a celebrare il suo insediamento offrendogli il bastone del comando? La domanda è meno ingenua di quel che sembra. Fin dai tempi dei conquistadores, il potere sulle popolazioni autoctone sottomesse si fondava su un’organizzazione coloniale delle comunalità indigene, un’espressione che potrebbe, in effetti, suonare come del tutto paradossale. Le moltissime e dispersive forme di organizzazione sociale pre-esistenti venivano “riorganizzate” in un nuovo modello: le “repubbliche degli indios”, che avevano pure una qualche autonomia ma, quando c’era un problema serio con il potere centrale, si faceva ricorso ai figli di ex leader indigeni indottrinati fin da piccoli alla cultura occidentale nelle scuole degli ordini religiosi. Era un sistema preferibile allo sterminio, utile a organizzare la spoliazione del continente a beneficio dello sviluppo capitalista dell’Europa, che in definitiva contava ben più della vita o della morte degli indigeni stessi. Qualcosa di simile accadeva anche con il potere coloniale in Africa. La differenza tra “comunalità” coloniali” e comunalità di rottura aiuta ancora oggi a capire perché alcuni leader dei nostri giorni, come Evo Morales o Lopez Obrador, promuovano solenni eventi in cui vengono in qualche modo consacrati attraverso la consegna, da parte di esponenti indigeni, del bastone di comando. Si può comprendere che molti popoli indigeni siano entrati nel gioco del sistema coloniale (o nei partiti) per mantenere i propri sistemi comunitari di vita in un contesto ostile di “antropofagia culturale”, ma sarà bene chiamare le cose con il loro nome
Lopez Obrador riceve il Bastone di Comando. Foto tratta da Circulo Digital |
Di questi tempi, forse, ci sono cose delle quali non si sentiva molto la mancanza. È trascorso più di un decennio da quando Evo Morales, dopo essere stato consacrato presidente nel parlamento boliviano, è andato nel centro sacro aymara di Tihuanaco per consacrarsi anche come Mallku e leader spirituale indigeno del paese. Qualcosa di simile ha fatto il primo dicembre 2018 il nuovo presidente del Messico, Andrés Manuel López Obrador, che, dopo la cerimonia ufficiale, ha ricevuto il bastone del comando dalle mani dei popoli indigeni, circondato dal fumo di copal in una cerimonia popolare nello Zócalo di Città del Messico. La differenza estetica tra i due è evidente: uno è parte delle comunità indigene del suo paese e l’altro no. Però la funzione politica è la stessa.
Di fronte a questo evento, entrambi hanno avuto detrattori tra i popoli indigeni. Nel caso di Evo Morales, ci sono stati quelli che l’hanno avvertito che c’era già un Mallku, Felipe Quispe, la cui ideologia politica era molto più radicale e vicina alle realtà dei popoli aymara della sua.
Nel caso di Obrador, i popoli organizzati attraverso il Congresso Nazionale Indigeno e altre organizzazioni, hanno chiarito che AMLO non rappresenta le loro aspirazioni collettive di vita per varie ragioni. È solo una piccola dimostrazione di quanto gli indigeni siano diversi da ciò che pensano le opinioni egemoniche. Una diversità che possiamo cercare di capire attraverso la loro stessa storia, a partire dall’invasione spagnola nel XVI secolo.
Il modello coloniale di potere era basato allora su un’organizzazione coloniale delle comunalità (1) indigene. Prima dell’invasione, esistevano moltitudini di popoli e di organizzazioni sociali nel territorio oggi conosciuto come Messico. Gli ispanici arrivarono con guerre e alleanze, e li riorganizzarono territorialmente e politicamente attraverso “repartimientos” (2), in un nuovo modello che chiamarono “repubbliche di indios”.
Questo modello organizzava le popolazioni autoctone in comunità che avevano una certa autonomia per risolvere i propri affari interni e autogovernarsi. Però quando c’era qualche problema con gli ispanici e il loro potere superiore, c’erano intermediari preposti dalla Corona che mediavano nei conflitti. Questi intermediari erano di solito i figli di ex leader indigeni, indottrinati fin da piccoli alla cultura occidentale nelle scuole degli ordini mendicanti, che fossero domenicani, gesuiti o maristi, a seconda del periodo e dei contesti.
Si trattava di personaggi complessi che, con un piede in ciascuna delle due culture, dirigevano le nuove comunità, organizzate dagli ispanici, con maggiore o minore legittimità e accettazione da parte della popolazione indigena, a seconda dei casi.
Gennaio 2015, Evo Morales alza il Bastone di Comando festeggiando l’inizio del suo terzo mandato. Foto tratta da https://www.voanoticias.com https://www.voanoticias.com |
Questo sistema di “comunità coloniali” fu in seguito attaccato da governi creoli di vario genere e continua ad essere attaccato da alcuni settori politici che preferirebbero non esistessero popoli indigeni. La sua essenza è rimasta fino ai giorni nostri, come dimostrano numerose comunità indigene aderenti a diversi partiti politici, per i quali si tratta di un modello funzionale alla riproduzione del capitale.
Questa situazione è simile a quella che si è verificata in un contesto tanto lontano come quello africano. Per conoscere quello che è successo lì, forse non c’è opera migliore di quella intitolata How Europe Underdeveloped Africa, scritta dal rivoluzionario pan-africanista guianese Walter Rodney nel 1972 (Siglo XXI, México). Rodney è stato un importante leader del movimento Black Power e del Rastafari in tutti i Caraibi, ed è stato assassinato dallo Stato della Guyana nel 1981, a causa del suo attivismo. In quel saggio, dimostra come l’Africa aveva avuto uno sviluppo di civiltà molto interessante, interrotto e reso funzionale al colonialismo europeo, che si è riconvertito in un sottosviluppo dipendente cronico per tutta la regione. L’intenzione di Rodney era quella di dimostrare come la popolazione afro-discendente dei Caraibi avesse un passato ancestrale di cui andare orgogliosa, aumentando così l’autostima di popoli maltrattati da secoli di schiavitù, razzismo e sfruttamento sistematico. Uno dei punti chiave del libro è proprio la distinzione tra la cultura ancestrale africana, dalla quale si potevano apprendere importanti lezioni sul “comunitarismo”, da ciò che all’epoca era conosciuto come “tribalismo”. Con questo termine si faceva riferimento, infatti, alle comunità africane tradizionali riconfigurate dal colonialismo europeo fin dai tempi della schiavitù atlantica, affinché in un primo momento servissero come fornitori di schiavi e, successivamente, come alleati del colonialismo territoriale, fornendo manodopera a basso costo per le miniere e le piantagioni. Gli europei promuovevano la leadership di alcuni leader locali incoraggiandoli a imporre all’interno delle loro comunità le più rigide norme tradizionali, per evitare qualsiasi tentativo di trasformazione sociale che avrebbe condotto i popoli africani a sviluppare le proprie forze produttive al fine di sfidare il colonialismo. Il problema, allora, non stava nel comunalismo africano in sé, bensì in quello creato dagli europei attraverso la riconfigurazione delle sue forme sociali precedenti che avrebbe reso efficiente il sistema coloniale.
La differenziazione tra “comunalità coloniali” e comunalità di rottura o radicali può essere utile per spiegare eventi come quello promosso per l’attuale presidente messicano il primo dicembre. Ciò non deve significare una critica radicale al “comunalismo coloniale”. In qualche modo, si può comprendere che molti popoli indigeni siano entrati nel gioco del sistema coloniale per mantenere i propri sistemi comunitari di vita in un contesto ostile di “antropofagia culturale”, come diceva il modernista brasiliano Oswald de Andrade. Però cominciare a chiamare con il loro nome i problemi può essere un buon inizio per trasformare le relazioni sociali e prendere a calci la scacchiera politica. Esiste un fondo di comunalismo ancestrale in tutte queste comunità, coloniali o meno, dalla quale, come diceva Rodney, c’è molto da imparare. Che questa energia sia convogliata verso la liberazione e la trasformazione sociale, e non verso la riproduzione del capitalismo e del colonialismo, è una delle principali sfide politiche della lotta sociale in Messico.
Note della traduzione
(1) ‘Comunalità’, scrive Gustavo Esteva in uno splendido testo, nasce come parola e con come “termine” (quelli che usa la scienza per definire o indicare un oggetto di studio), e nasce nella lotta. Non c’era bisogno di spiegarla o definirla. Nel caso di una parola nuova come ‘comunalidad’, si condividono naturalmente gli elementi che la compongono. Chi la ascolta per la prima volta, sa già di cosa si tratta, senza aver bisogno di ulteriori spiegazioni, e sa che, come per tutte le parole autentiche, siamo di fronte a una scoperta creativa, che si rinnova ogni volta che la impieghiamo, come se fosse la prima volta…
(2) Nell’epoca coloniale delle Amériche, il repartimiento de indios era un sistema di sfruttamento che forzava gli indigeni a lavorare per gli spagnoli in cambio di retribuzioni irrisorie. I conquistadores distribuivano la mano d’opera tra i padroni delle miniere e dei campi agricoli cui doveva obbedire fino al termine della stagione di lavoro, poi gli indigeni tornavano da dove erano venuti.
tratto da Comune-info
Pubblicato su Suplemento de la Jornada Ojarasca con il titolo Bastones de mando y comunalidad colonial
Traduzione per Comune-info: Daniela Cavallo