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lunedì 7 ottobre 2019

Ecuador - In piazza contro il paquetazo


proteste contro il paquetazo in Ecuador

Il presidente Lenín Moreno sposa le ricette imposte dal Fondo monetario internazionale

Il  1° ottobre scorso, quando Lenín Moreno ha annunciato in televisione il cosiddetto paquetazo, una serie di misure volte ad imporre l’austerity all’Ecuador, a partire dall’eliminazione del sussidio statale sul carburante, probabilmente ha sottovalutato le capacità di rivolta dei suoi concittadini, che tra il 1998 e il 2000 cacciarono prima Jamil Mahuad e poi Lucio Gutiérrez.

Quest’ultimo, per inciso, condivide con Moreno il tradimento dei movimenti popolari, delle comunità indigene e più in generale di quel popolo di sinistra che aveva contribuito all’elezione di entrambi.

La capitale del paese, Quito, è stata teatro di violenti scontri tra gli oppositori del presidente e del suo governo e la polizia. Per frenare la rivolta María Paula Romo, ministra dell’Interno, ha fatto sapere che prorogherà lo stato di assedio per 60 giorni ed ha già escluso un dietrofront del governo per quanto riguarda sia l’aumento del carburante sia il decreto che rende precario il mondo del lavoro tramite una flessibilizzazione selvaggia. Lenín Moreno, in pratica, non ha fatto altro che seguire la strada imposta dal Fondo monetario internazionale. In barba ai sindacati, il presidente ha imposto che la giornata lavorativa cresca fino a 12 ore quotidiane, per la gioia delle imprese, e ha scelto di difendere a spada tratta la dollarizzazione.

Le proteste nelle piazze, unite allo sciopero dei transportistas, lascia pensare che il conflitto sociale sia solo l’inizio di un’ampia ribellione contro un governo che, subito dopo le elezioni, ha deciso di passare armi e bagagli alla destra, anche in campo internazionale, aderendo al Gruppo di Lima, e di farla finita con il correismo, che pur essendosi caratterizzato per notevoli contraddizioni, soprattutto a livello ambientale, aveva permesso al paese di avere un alto profilo sotto molti aspetti, a partire dal buen vivir inserito nella Costituzione, per quanto rimasta più sulla carta che applicata. Alla mobilitazione dei transportistas si sono rapidamente uniti  studenti, sindacati, comunità indigene e tutte le organizzazioni popolari. 

La dollarizzazione ha già provocato effetti nefasti nell’Argentina che, all’inizio del nuovo secolo, si vide costretta a fare i conti con il corralito.

sabato 1 dicembre 2018

Argentina - La final del mundo

Macri aveva detto che lo svolgersi pacifico della partita tra River e Boca sarebbe stata la dimostrazione del fatto che il governo è in grado di garantire nel fine settimana lo svolgimento pacifico del G20. “Non l’avesse mai detto…”, scrive da Buenon Aires Franco Berardi Bifo. Secondo Bifo “il summit è destinato a essere segnato dal fallimento totale del discorso neoliberale”, anche se non ci sarà nessuna dichiarazione di questo tipo. Non ci sarà neanche un’insurrezione dei movimenti. Trent’anni di dominio sulla società del capitalismo finanziario, come dimostra la folla scatenata per la partita di Buenos Aires, hanno provocato per lo più impoverimento, umiliazioni e demenza… Tracce di mondi diversi, tracce di umano si nascondono oggi “nei teatri numerosi e vivaci, nelle innumerevoli librerie di Buenos Aires, nelle scuole autogestite…, negli spazi in cui si organizza una resistenza di lungo periodo…”
Un laboratorio di Hip Hop con i bambini in strada a Buenos Aires, promosso durante le iniziative contro il G20 (foto di CRIA Asociación Civil)

di Franco Berardi Bifo

La final del mundo

Macri aveva detto che lo svolgersi pacifico della partita fine del mondo tra River e Boca, annunciata per il giorno 24 alle cinque del pomeriggio, sarebbe stata la dimostrazione del fatto che il ministero della Sicurezza della signora Bullrich – la Salvini argentina – è in grado di garantire uno svolgimento pacifico del vertice globale dei venti potenti.

Non l’avesse mai detto. Sabato ventiquattro è stato prima di tutto una figuraccia mondiale, e forse anche l’annuncio di un’apocalisse. Prima della partita i giocatori del Boca sono stati aggrediti nel loro pullman, due di loro feriti gravemente, poi sono state lanciate sostanze tossiche nello stadio e negli spogliatoi, poi la polizia ha chiuso gli ingressi, ha picchiato colpevoli e innocenti, ha caricato padri di famiglia col biglietto mentre migliaia di ubriachi seminavano il terrore tutt’intorno. La partita è stata sospesa e rinviata di ora in ora, finché alle sette e mezzo è arrivata la notizia che la partita era rinviata al giorno dopo. 

I padroni del calcio (amici di Macri, che fu presidente del Boca negli anni Novanta) hanno tentato in tutti i modi di costringere i calciatori a scendere nella fossa gigantesca dello stadio Monumental. Ma i giocatori hanno risposto di no, stavano negli spogliatoi vomitando, con gli occhi irritati dai fumi dei gas, terrorizzati da quel che poteva accadergli se fossero tornati in campo.

Il giorno dopo, domenica 25, gli organismi dirigenti del calcio argentino hanno deciso di rimandare nuovamente. A quando non si sa. Una nuova giornata di battaglia a pochi giorni dalla Cumbre Global del G20 non avrebbe migliorato l’immagine del governo argentino.

Nelle reti sociali circola un meme: “Angela Merkel ha telegrafato che questo G20 è meglio che lo facciamo in Skype”.

La parola fine

Sono venuto in Argentina all’inizio di novembre per presentare un libro che in questo paese è pubblicato col titolo Fenomenologia del fin, però non potevo immaginare che la parola “fine” era destinata a diventare il filo rosso del mio viaggio. L’ho scoperto poco a poco durante un mese di permanenza, mentre si stava avvicinando la data della mia partenza che avverrà più o meno in contemporanea con l’arrivo dei venti uomini (con qualche donna) più potenti del pianeta.

Però ho capito pienamente le parole di Mario Bergoglio il giorno in cui prese nome Francesco (“sono un uomo che viene dalla fine del mondo”) sabato 24 alle otto di sera quando è stato chiaro che non si poteva disputare la partita tra River e Boca, le due squadre (entrambe argentine, entrambe bonairensi) che si contendono la coppa continentale.

venerdì 9 novembre 2018

Brasile - Tra le braccia di Bolsonaro. Genealogia dell’ascesa

Riportiamo una intervista a cura di Giuseppe Orlandini pubblicata su Napoli Monitor che ringraziamo.
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Bruno Cava è docente dei corsi liberi di cinema e di filosofia che ogni anno raccolgono centinaia di persone presso istituzioni quali il Museu da República, la Cinemateca Museu de Arte Moderna e la Casa de Rui Barbosa, a Rio de Janeiro. Partecipa alla rete Universidade Nômade da più di dieci anni, producendo co-ricerca su movimenti sociali e lotte urbane. È editore della rivista Lugar Comum e pubblica in vari siti e blog, tra i quali Open DemocracyThe GuardianLe Monde DiplomatiqueAl Jazeera, e su riviste come le francesi Multitudes e Chimère e la nordamericana South Atlantic Quarterly. Laureato in ingegneria e in filosofia del diritto, ha scritto vari libri, tra cui: A multidão foi ao deserto (São Paulo, Annablume, 2013). Nel 2017 ha lanciato insieme ad Alexandre Mendes il libro A constituição do comum (Rio de Janeiro, Revan). Lo abbiamo raggiunto via mail dopo il risultato del ballottaggio per le elezioni in Brasile, per comprendere più accuratamente le origini della vittoria del candidato dell’estrema destra.
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Con l’elezione di Jair Bolsonaro, quel che con grande approssimazione viene definito il nuovo ciclo politico reazionario globale, in Brasile assume contorni drammatici. Così come per altri contesti, la sua elezione segna la crisi di egemonia della governamentalità neoliberale e la disposizione a dosi misurate di “guerra civile”? Se così è, considerando che la realtà brasiliana già si distingue per un’intensità pronunciata della violenza e del biopotere, quali forme potrà assumere tale esito? Cosa aspettarsi da un governo Bolsonaro?

La crisi del 2008-09 al Nord è stata letta come un’opportunità per il Sud globale. Gli Stati Uniti e l’Europa occidentale hanno adottato una politica monetaria espansiva, che i governi di Russia, Cina e Brasile hanno interpretato come una chance per investire nell’industrializzazione, stimolare la produzione e l’occupazione. 
Dilma è stata scelta per succedere a Lula perché rappresentava questo nuovo passo: la fase due del “lulismo”. 

Se la crisi della globalizzazione neoliberale veniva letta come divorzio tra capitalismo e democrazia liberale, in Brasile si pensava che ciò consentisse una “fuga in avanti”, lo sbocco verso uno stadio dirigista dello sviluppo. 
L’esperienza sviluppista però è stata un fiasco: una parte dell’investimento si è perso nell’inefficacia dei progetti e nella mancanza di pianificazione, l’altra parte è stata consumata dalla corruzione miliardaria che ha coinvolto il Partito dei Lavoratori (PT)
Nel 2015, dopo essere stata rieletta l’anno precedente, Dilma riconosceva la crisi terrificante che colpiva il paese e chiamava un banchiere della scuola di Chicago per gestire il ministero dell’economia e avviare un aggiustamento fiscale. 
Quando l’anno successivo le strade si sono riempite di milioni di manifestanti, il paese era in bancarotta, con sfrenati tassi di disoccupazione e indebitamento. 
Il governo Temer (2016-18) ha continuato la politica di aggiustamento che Dilma aveva fallito a causa della perdita di sostegno sociale e politico, attraverso alcune riforme, per quanto insufficienti e limitate. 

Oltre alla retorica incendiaria stile Trump, la prima sfida di Bolsonaro è affrontare la crisi fiscale dello stato e realizzare la riforma della previdenza e dei servizi pubblici senza aggravare le tensioni urbane, che sono già un orizzonte visibile in alcune metropoli. 
Il capo economista del presidente eletto è un guru neo-liberale che promette di rivoluzionare il sistema di protezione sociale del paese, unificando le imposte e i regimi pensionistici, arrivando a promettere anche un reddito di cittadinanza di importo pari o superiore alla bolsa familia, marchio di fabbrica del lulismo. 
In questo senso, Bolsonaro non tende a rappresentare l’arrivo di un nuovo tipo di fascismo, un’eccezione sovrana, ma la nuova modulazione di una normalità che è già socialmente fascista (biopotere)
Il Brasile è un paese ultra-violento, con un tasso di omicidi superiore alla somma di tutti i paesi in Europa (inclusa la Russia) e degli Stati Uniti. 
La maggior parte della popolazione vive già in condizioni di paura e ricatti a causa di istanze violente che operano nella zona grigia tra il potere del crimine e il crimine del potere, siano essi narcotrafficanti, milizie parapolitiche o oligarchi mafiosi del territorio. 
Bolsonaro, oltre alla retorica trumpista, è inteso come un giustiziere i cui “eccessi e deliri” sono tollerati in nome della protezione militare di fronte a un male maggiore. Il rischio del fascismo, quindi, non sta in uno Stato Fascista, ma nella risonanza del nuovo presidente con la rete di micro-fascismi già in atto, in un fascismo che è soglia mobile e zona grigia.

I discorsi di odio, le allusioni a un’esplicita volontà di rottura con il regime democratico e con il rispetto dei diritti umani, le terribili dichiarazioni contro gli oppositori, i neri, i poveri, le donne e le LGBTQ, già hanno provocato una escalation di violenza e sono stati ampiamente riportati dalla stampa nazionale ed estera. Tuttavia è necessario comprendere le condizioni di possibilità del fenomeno Bolsonaro. Un certo consenso di sinistra vede nella sua affermazione l’apoteosi del cosiddetto golpismo che, dalle giornate di giugno del 2013, passando per l’impeachement del 2016 e l’arresto di Lula nel marzo di quest’anno, si sarebbe abbattuto sul paese. Al di là di questa teleologia conciliatoria e del paradosso di un golpe che si suggella per via elettorale, qual è una possibile genealogia del fenomeno?

venerdì 26 ottobre 2018

Brasile - Le comunità quilombas in lotta contro una seconda schiavitù



Durante gli anni della schiavitù americana a migliaia furono deportati da diverse zone dell’Africa per lavorare nelle piantagioni e nelle industrie della zona del Salvador. Tre milioni furono gli africani impiegati dagli schiavisti brasiliani: per ogni schiavo che arrivava in Nord America, dodici erano pronti a sbarcare nei porti brasiliani. Col tempo questi ultimi, nonostante le le logiche schiaviste volte ad evitare la formazione di piccole comunità nelle riserve, hanno costituito la nervatura del sistema di lavoro delle colonie e, in termini demografici, sono andati a costituire circa la metà della popolazione in loco.
Le condizioni erano durissime, i tassi di mortalità incredibilmente alti. Si trattava di luoghi inaccessibili ai colonizzatori bianchi, dove i fuggitivi vivevano di sussistenza, replicando usanze e riti ereditati dal passato africano.
Questo fino al 13 maggio 1988, quando in Brasile venne formalmente abolita la schiavitù, ma per le comunità di schiavi originari dell’Africa questa data rappresenta solo l’inizio di una seconda segregazione.
Dal 14 maggio per loro non c’è stato un piano di politiche pubbliche integrative, nessun livello di sanità garantito, niente cibo. Tutto ciò fino al 2002 quando il Presidente Lula avviò, attraverso il decreto 48/87, la procedura di riconoscimento delle comunità nel Paese. Nati dagli schiavi che fuggivano dalle proprietà dei negrieri i quilombas ad oggi riconosciuti in Brasile sono circa 5mila. Distribuiti su tutto il Paese, ma prevalentemente organizzati nella zona del Rio Paraguacu (Salvador), i quilombas incontrano ancora oggi numerose difficoltà.
La prima, secondo il difensore dei diritti umani Ananias Vian, è il mancato riconoscimento della storia di queste comunità che non viene menzionata nei libri scolastici, scritti con visione eurocentrica e colonizzatrice. Proprio per questo è stato avviato un progetto per la realizzazione collettiva di un testo paradidattico che riconosca la storia delle comunità afro. Il libro si chiama Rapporto antropologico di contestualizzazione storica e geografica della comunità ed è stato scritto nell’ultimo anno da una squadra di antropologi, storici e geografi per ricostruire l’origine e lo sviluppo di questa comunità antica e in attesa di riconoscimento.
Questo è lo strumento che ci permetterà di ottenere quanto ci spetta di diritto, è il primo passo di una strada che dobbiamo continuare a percorrere insieme
Una sorta di carta d’identità, tappa fondamentale per vedere certificati la propria esistenza e soprattutto l’accesso alla terra che il gruppo rivendica.
In loco, infatti, la cultura afrobrasiliana non solo non viene riconosciuta, ma viene anche apertamente messa al bando dalle numerose comunità religiose di evangelisti presenti nella zona che arrivano a bollare come culti diabolici le tradizioni locali.
Come spiega Leonardo di Blanda di COSPE Brasil, onlus attiva localmente con diversi progetti, i problemi non si esauriscono sul piano culturale, ma si manifestano trasversalmente su tutti gli aspetti della vita dei quilombas, a partire dalle terre su cui questi vivono.
Con l’abolizione della schiavitù le comunità afrobrasiliane si sono trovate a vivere dove prima venivano sfruttate, senza nessun documento di passaggio di proprietà. I quilombas hanno quindi nel tempo avviato dei processi di autocertifiazione molto lunghi ed onerosi che vengono spesso ostacolati dal fenomeno dei grilleiros, persone che rivendicano con titoli fittizi la proprietà sulle terre, il più delle volte parenti dei vecchi schiavisti della zona.

mercoledì 24 ottobre 2018

Brasile - L'urgenza di cercare nuove strade

Ele Nao, femministe manifestano contro Bolsonaro. Foto Medium
di Raúl Zibechi

La schiacciante votazione che ha ricevuto Jair Bolsonaro al primo turno delle elezioni brasiliane, che lo colloca alle porte della presidenza, è però una buona opportunità affinché, come persone di sinistra, riflettiamo sulla necessità di percorrere nuove strade. Non basta, pertanto, limitarsi a denunciare quello che già sappiamo: il carattere militarista, autoritario e di ultra-destra del candidato. È necessario spiegare perché mezzo paese lo vota e che implicazioni comporta per il progetto di emancipazione.

Il Brasile vive una profonda frattura di classe, di genere e di colore della pelle che si manifesta in maniera nitida nei partiti della destra, i quali hanno delineato i loro obiettivi in modo chiaro e trasparente: vogliono installare una dittatura mantenendo il sistema elettorale. La sinistra crede in una democrazia inesistente, basata su una impossibile conciliazione delle classi. Se Bolsonaro è fascista, come dicono il PT e i suoi intellettuali, dobbiamo ricordare che non è mai stato possibile sconfiggere il fascismo, votando. È necessaria un’altra strategia.

L’altra è la frattura geografica: un paese diviso tra un sud ricco e bianco e un nord povero e nero/meticcio. Il fatto curioso è che tanto il PT che i principali movimenti sociali sono nati nel sud, dove hanno avuto alcuni governi statali e municipali. Quella regione è adesso l’epicentro della profonda svolta a destra, con chiaro contenuto razzista e machista.

Dobbiamo spiegarci le ragioni per le quali le élite e le classi medie abbienti hanno prodotto questa fenomenale svolta, disertando dal loro partito preferito, la socialdemocrazia di Fernando Henrique Cardoso, per Bolsonaro. Hanno abbandonato la democrazia e conservano appena le elezioni, come maschera della dominazione.

La ragione principale la spiega in una interessante intervista il filosofo Vladimir Safatle. “Il Brasile arriva al 2018 con due delle sue maggiori imprese che sono pubbliche, così come due delle maggiori banche. Per di più, con un sistema sanitario che copre 207 milioni di persone, gratuito e universale, qualcosa che non possiede alcun paese con più di 100 milioni di abitanti”. Safatle aggiunge che le università non sono solo per le ricche minoranze  e conclude che “il Brasile arriva ai nostri giorni in una situazione molto atipica dal punto di vista del neoliberalismo”.

L’autoritarismo è il modo per imporre l’agenda necessaria al sistema finanziario, all’agro-business e alle compagnie minerarie affinché possano continuare ad accumulare ricchezza in un periodo di crisi sistemica. Non lo possono fare senza reprimere i settori popolari e criminalizzare i loro movimenti. Per questo Bolsonaro convoca i militari e la polizia e si permette di minacciare l’attivismo sociale, con modi molto simili a quelli della ministra della Sicurezza argentina Patricia Bullrich, che accusa i movimenti sociali di mantenere rapporti “molto stretti” con il narcotraffico, quando tutti sappiamo che è la polizia quella che lo protegge.

Il razzismo, la violenza anti-LGBT e l’odio verso la sinistra da parte delle classi medie brasiliane, mostrano il volto occulto del paese con la maggiore disuguaglianza del mondo. Non vogliono perdere i propri privilegi di colore, di genere, di posizione geografica e di classe. Poco gli importa che vengano assassinate più di 60 mila persone ogni anno, nella stragrande maggioranza giovani, neri, poveri, perché sanno che quello è il prezzo per mantenere i loro privilegi.

Marielle Franco, una delle principali voci di opposizione all’occupazione militare di Rio assassinata nel marzo di quest’anno. Foto Resumen.cl
Davanti a questo scenario, le sinistre non devono continuare ad aggrapparsi a una strategia che è stata delineata per altri tempi, quando il dialogo di classe era ancora possibile. Nel precedente mezzo secolo siamo passati dalla strategia della lotta armata alla strategia puramente elettorale. Entrambe hanno in comune l’obiettivo di prendere il potere e concentrano tutte le loro batterie in quella direzione.

domenica 12 agosto 2018

Argentina - “Vi racconto l’inferno delle donne argentine, costrette a morire a causa degli aborti clandestini”

Riportiamo una intervista a Irupé Tentorio, giornalista e attivista pro-aborto, a due giorni dal voto del Senato argentino, che ha detto no alla proposta di legge per legalizzare l’interruzione di gravidanza nel paese.

“Ana era malata di cancro, ha chiesto di abortire per continuare la chemioterapia ma le è stato negato. Sua figlia è morta dopo 24 ore, lei un mese dopo”. Due giorni fa il Senato argentino ha bocciato la proposta di legge per legalizzare l’aborto. 

TPI ha intervistato Irupé Tentorio, giornalista e attivista, che ci ha spiegato perché le donne argentine prima o poi riusciranno a vincere questa battaglia.

C’è chi si stringe in un abbraccio, chi piange. Altre urlano, qualcuna tira sul volto un fazzoletto, che non è più quello bianco delle madri di Plaza de Majo ma è verde, il colore diventato il simbolo del movimento che in Argentina è sceso in strada per ottenere la legalizzazione dell’aborto.

L’onda verde, come l’hanno chiamata, negli ultimi cinque anni ha scosso il paese e ha portato al centro del dibattito pubblico il corpo, le donne e la loro libertà di scelta. “Sul mio corpo decido io”, “Aborto libero, legale e gratuito”, si legge sui cartelli, sugli striscioni, sui panuelos.

In strada ci sono tre milioni di persone, che hanno aspettato i risultati del voto per sedici ore, sotto la pioggia e con una temperatura di quattro gradi. Hanno visto proiettati sui maxischermi i volti dei senatori e hanno ascoltato le loro dichiarazioni, mentre si esprimevano sul disegno di legge per legalizzare l’interruzione volontaria di gravidanza.

Quando arriva la notizia che la legge per la depenalizzazione dell’aborto non ha ottenuto il sì del Senato, a Buenos Aires Plaza del Congreso è divisa a metà. Da un lato sono sventolati foulard blu, quelli dei movimenti pro-life, che lanciano fuochi d’artificio, applaudono. E urlano: “Viva la vita”.


L’altra metà è un’onda verde che si muove, si stringe e scandisce: “La battaglia non è finita”.
“Sapevamo che la legge avrebbe incontrato difficoltà in Senato, che è tradizionalmente più conservatore della Camera”, spiega Irupé Tentorio.

Insieme alle altre donne, Irupé ha seguito la votazione per tutta la notte. È una giornalista, scrive per Página/12, l’unico giornale con un supplemento dedicato alle tematiche di genere e alla diversità sessuale in Sud America.

Non è la prima volta che scende in strada: negli ultimi anni e negli ultimi cinque mesi di mobilitazione serrata – quando, dopo il sì della Camera Bassa, i movimenti delle donne hanno accelerato la corsa – le strade le ha vissute anche da attivista. Le ha viste con Karl Mancini, fotogiornalista italiano: insieme hanno raccontato le donne, le loro storie e battaglie nel progetto Ni Una Menos, un lavoro a lungo termine sulla violenza di genere, il femminicidio e la lotta dei movimenti femministi per i diritti in Argentina, ma anche nel resto del Sud America.


“La decisione dei senatori è stato un golpe contro le donne e la loro libertà, che evidentemente fa ancora paura”, continua Tentorio. “Ma il movimento non si ferma e noi continuiamo con la nostra militanza, territoriale e creativa”.

La proposta di legge è stata il punto di arrivo di un lungo percorso di discussione, attivismo e lavoro sul territorio. Da 33 anni le donne argentine si riuniscono ogni mese di ottobre ed è stato in uno di quegli incontri nazionali, tra il 2003 e il 2004, che è stata lanciata la “campagna dei fazzoletti verdi”, pensata e sostenuta da un gruppo di femministe e di attiviste.

sabato 28 luglio 2018

Cile - Manifestazione massiva per l’aborto legale, sicuro e gratuito

Cile: manifestazione massiva per l’aborto legale, sicuro e gratuito

L’Alameda, il corso principale di Santiago del Cile, mercoledì 25 luglio si è riempita di fazzoletti verdi, facendo l’occhiolino alle femministe argentine che hanno ottenuto sostanziali avanzamenti verso una legislazione che consenta l’aborto legale, sicuro e gratuito. “Tre causali non bastano”, era uno degli slogan (il riferimento è alle sole tre condizioni –pericolo di vita della donna, malformazione del feto e violenza sessuale– nelle quali la legge dell’agosto 2017 autorizza le donne cilene ad abortire, NdT). Anche nelle altre città del Paese si sono svolte manifestazioni.

La brutalità si è scatenata verso le 21, poco prima del termine della manifestazione, e tre donne sono state accoltellate. Il trasferimento al pronto soccorso centrale è stato immediato e, fortunatamente, le loro vite non sono in pericolo.

“Un’orda di incappucciati ha cominciato ad alzare barricate nel corteo, a un isolato dal palco. Ad un tratto, un gruppo ha cominciato a disturbare delle manifestanti. Alcune ragazze, essendosi rese conto dei disturbi, sono uscite dal corteo per proteggerle e sono state accoltellate. Questo è terrorismo, non voglio chiamarlo in nessun altro modo. Quando un gruppo vuole intimidire un altro gruppo per impedirgli di esprimere le sue idee liberamente, senza aver ricevuto alcun tipo di provocazione, si tratta di terrorismo. Hanno provato a spezzare il corteo per impedirci di passare”, ha dichiarato Macarena Castañeda, portavoce della tavola Acción por el Aborto.

Nonostante ciò il movimento è già inarrestabile, travolgente, potentissimo: una sorta di marea, che si è rinnovata a livello generazionale e reclama un diritto rivendicato da decenni.

mercoledì 30 maggio 2018

Cile - La mobilitazione femminista in Cile e le sfide del femminismo intersezionale

di Alexia Vásquez e Paulette Jara

Da settimane il Cile è scosso da quello che molti hanno chiamato la mobilitazione femminista più importante dagli anni Settanta. In risposta alle numerose denunce di molestia sessuale nelle prestigiose università del Paese, le studentesse hanno deciso di bloccare le attività accademiche e occuparne le istituzioni per rivendicare un cambiamento nel campo dell’educazione. Più di una decina di università e licei sono in mobilitazione.

Queste mobilitazioni nascono dopo anni di lavoro da parte delle femministe nelle istituzioni educative, impegnate nella creazione di reti di appoggio per le vittime della violenza machista, assieme ai protocolli contro l’abuso e le molestie sessuali.

Già nelle mobilitazioni dell’anno 2011 (le più grandi dal ritorno della democrazia), le studentesse avevano sollevato l’importanza di avere una educazione femminista e non sessista.

A questa lenta e progressiva organizzazione si sono sommati due fattori scatenanti. Il primo caso è stato quello della Univesidad Austral, nella quale il rettore ha deciso di cambiare di funzione un accademico della Facoltà di Scienze come risposta a una accusa di molestie da parte di una funzionaria dell’istituzione. Precedentemente, l’indagine interna dell’Ispezione del Lavoro aveva classificato i fatti come “molestia sessuale grave” e “molestia ambientale”, raccomandandone l’allontanamento. Di fronte a questo scenario, la comunità educativa si è organizzata per fare pressione sul rettore, che ha dovuto fare marcia indietro e destituire l’accademico.

Il secondo caso è stato quello di una studentessa della Facoltà di Diritto della Università di Cile che ha denunciato il prestigioso professore Carlos Carmona, ex presidente del Tribunale Costituzionale del Paese, per abuso sessuale. Il ritardo nell’indagine e l’assenza di misure volte alla protezione della studentessa, hanno provocato la mobilitazione delle sue compagne che hanno denunciato come il professore abbia continuato a esercitare le sue funzioni di docenza proprio mentre si stavano portando avanti le indagini.

Poco a poco, le denunce delle studentesse rivolte ai colleghi e agli accademici hanno fatto uscire allo scoperto altri casi di molestie e abusi.
È tristemente celebre una raccolta di storie nella Facoltá di Diritto della Pontificia Universitá Cattolica del Cile, i cui professori hanno detto dalle cattedre in diverse occasioni che le donne non vanno a studiare le leggi ma a trovare marito, o che si sentono liberi di commentare lo scollo delle studentesse (“lei è venuta qui per la prova orale o affinché la mungano?”).

Come reazione, il blocco delle attività e le occupazioni degli edifici si sono allargate a tutto il Paese, imponendo il tema nell’agenda pubblica.

Tutto questo si è riflesso nel corteo di massa contro l’educazione sessista di mercoledì 16 maggio e nella discussione del femminismo in molti spazi che di consueto sono poco aperti al tema, come ad esempio le trasmissioni della mattina nei canali della televisione cilena.

Ciò detto, tra le rivendicazioni delle studentesse possiamo risaltare: la rapida risoluzione dei casi di molestia e abuso sessuale; l’elaborazione di un protocollo unico per le denunce in ambito educativo; la conversione dei licei pubblici emblematici in scuole miste (oggi sono divise in base al sesso); l’educazione sessuale non sessista; la formazione specifica in sessimo e identitá di genere che abbia carattere triplice (per studenti, docenti e funzionari).

In sintesi, le studentesse considerano che l’elaborazione e la risoluzione dei protocolli sono la punta di un iceberg di un paradigma che è necessario cambiare, poiché non si tratta solo dei molestatori, ma di tutta la comunità. Si rivendica, pertanto, il passaggio a una educazione pubblica, femminista e non sessista.



Le sfide della mobilitazione femminista

I primi risultati della mobilitazione femminista si iniziano già a vedere e anche per questo stanno sorgendo delle importanti sfide. Una di queste è conferire contenuto a ciò che si intende per “femminismo”, nella forma più chiara possibile.

Per chi scrive, che si ritrova ad affrontare il partiarcato a partire da un movimento politico misto, che ha la pretesa di offrire una alternativa di conduzione politica al Paese, la sfida è straordinariamente ambiziosa, perché secondo la nostra analisi non è il patriarcato l’unico oppressore.

Partendo da queste premesse e perché le strutture e i fini della nostra organizzazione ci impongono di ripensare tutto, noi rispondiamo: il femminismo è la resistenza a tutte le forme di oppressione e per questo deve necessariamente essere intersezionale.
Il patriarcato opprime perché ci educa sin dall’infanzia attraverso le nostre proprie famiglie, quartieri e scuole, rispetto ai ruoli che ci si aspetta che compiamo come “donne” o come “uomini”, in questo ordine si nascondono le forme di oppressione che più tardi riproduciamo negli spazi in cui viviamo, lavoriamo e ci ricreiamo.

Ma in questo processo il patriarcato non opera da solo e per questo il nostro femminismo ha un cognome: intersezionale. Questo significa che le riflessioni e proposte femministe devono necessariamente ed esplicitamente premettere che non è solo il nostro genere e la nostra orientazione e identitá sessuale a determinare l’oppressione, ma anche la classe sociale. Nessuno può negare che le donne povere si sono storicamente fatte carico della peggior parte e per diagnosticare adeguatamente questa oppressione è indispensabile considerare, inoltre, se sono lesbiche e/o trans o se sono state esposte all’omofobia o alla transfobia.

A questa analisi si somma l’etnia, la razza e la nazionalità che anche determinano a quanta oppressione è esposto un bambino o una bambina e il divenire della sua etnia, razza e nazione lo accompagnerà e lo determinerà per tutta la sua vita. La lista non è corta e il grado d’importanza di questi fattori non si può misurare matematicamente. Anche la presenza di una (dis)capacità e lo stato di salute determinano quanta oppressione sperimentiamo, così come l’età, l’obbligo di seguire (o non seguire) una religione, sono solo alcuni elementi.



Una seconda sfida risponde al necessario apprendimento che dobbiamo fare in quanto parte della mobilitazione stessa, sia nelle istituzioni educative che in ciascuno dei movimenti e partiti che la compongono, per organizzare le nostre vite e militanze in maniera intersezionale.

Se la repressione è sistematica e intersezionale, anche la risposta deve esserlo. In questa costruzione nessuno é di troppo e tutti e tutte siamo chiamate a lavorare, tanto che ci facciamo un favore denunciando l’oppressione e smettendo finalmente di invisibilizzarla, ci facciamo un favore se mentre ci facciamo carico di quanto sia doloroso lavorare, coscienti dell’oppressione, restiamo uniti e cooperiamo insieme. Non saranno mai vani gli sforzi per (ri)costruire la fiducia reciproca, perché l’uscita non è iniziare un’operazione di polizia retroattiva che ci porti a dividere vittime da una parte e carnefici dall’altra, ma quella di unirci in uno stesso percorso femminista e trasformatore.

Come organizzazione femminista affrontiamo la sfida di doverci organizzare in un contesto definito da regole culturali del patriarcato.

È quindi imprescindibile essere espliciti nel segnalare che abbiamo molto da migliorare nell’implementazione dei protocolli che si adottano per i casi di molestia, nelle forme in cui mettiamo a valore il lavoro che svolgiamo nell’organizzazione, nell’ appoggio alla conduzione femminile e femminista, nella revisione delle forme con cui valutiamo il leaderismo maschile e nelle forme con le quali stiamo creando le condizioni per chi abbia un lavoro domestico di partecipare nel lavoro político. Lo stiamo facendo anche nei percorsi di apprendimento e di vita in comune tra compagni/e e sulla fiducia che ci dobbiamo costruire in maniera permanente tra compagni e compagne.

Per nessuno è di troppo una lezione sull’educazione non sessista e le organizzazioni politiche non fanno eccezione. Se oltre a questo ci siamo date mete ambiziose come quella di costruire una alternativa politica per il Cile che sia femminista e intersezionale, dobbiamo integrarla con i migliori e i più sinceri dei nostri sforzi nell’imparare a lavorare collettivamente.

Le studentesse in Cile ci stanno insegnando quale è il camino, dobbiamo solo percorrerlo.


Pubblicato sul sito indipendente argentino Marcha.org. Traduzione in italiano a cura di DINAMOpress.

*Alexia Vásquez è sociologa e Paulette Jara avvocata, militanti cilene del Movimento Autonomista

martedì 15 maggio 2018

Argentina - Il ritorno dei corsari della finanza



di Francesco Gesualdi*

Sentiamo spesso parlare di finanziarizzazione dell’economia senza capirne a fondo il significato. Ma ciò che sta attraversando l’Argentina è un tipico esempio di economia sacrificata sull’altare della finanza che dà ragione delle parole scritte da Papa Francesco nel libro curato da Zanzucchi: «Quando si verifica il crollo di una finanza staccata dall’economia reale, tanti pagano le conseguenze e tra i tanti soprattutto i poveri e quanti poveri diventano, mentre i ricchi in un modo o nell’altro spesso se la cavano.»

L’Argentina è tornata all’onore delle cronache perché la sua situazione economica  sembra averla  riportata al 2001 quando si trovò con un tale debito estero da dover dichiarare fallimento. Allora come oggi, i segnali erano un pesos in caduta libera, la crescita del debito pubblico, un’alta inflazione, un forte debito commerciale e finanziario verso l’estero. Per uscire dalla crisi, Nestor Kirchner, che rimase al potere dal 2003 al 2010, aveva puntato su una politica articolata che comprendeva la ristrutturazione del debito pubblico,  la limitazione del movimento dei capitali, una politica monetaria e creditizia che favorisse gli investimenti produttivi da parte dell’imprenditoria nazionale. E benché molti gli abbiano contestato di non avere fatto abbastanza per fare aumentare i salari e per ridurre la povertà, tutti gli riconoscono il merito di avere saputo condurre l’Argentina fuori dalla palude. 
Ma la corsa cominciò a frenare nel 2008, allorché la crisi mondiale impattò negativamente anche sull’Argentina che gradatamente tornò a confrontarsi con i suoi demoni storici: inflazione, debito pubblico e disavanzo estero. Per di più nel 2012 arrivò la tegola dei fondi avvoltoi che non riconoscendo la ristrutturazione effettuata nel 2001 pretendevano la restituzione piena del valore nominale dei titoli con l’aggiunta degli interessi e delle more. 

Una partita che è stata chiusa nel 2016 dal governo successivo con un esborso di 9 miliardi dollari a danno degli argentini.



Nel 2015, quando cessò l’era Kirchner, prima gestita dal marito, poi dalla moglie, l’Argentina non navigava in ottime acque, ma disponeva di meccanismi per evitare la totale disfatta sociale ed economica. Poi arrivò Mauricio Macrì, convinto sostenitore della teoria neoliberista secondo la quale il sereno torna da solo se si libera il mercato da tasse, lacci e lacciuoli. Detto fatto, per prima cosa tolse ogni meccanismo di difesa del pesos e lasciò che si attestasse sul valore deciso dal mercato tramite il libero incontro fra offerta e domanda. 

Era il dicembre 2015 e il pesos, in un solo giorno, si svalutò del 30 per cento per la gioia delle multinazionali dell’agroindustria e dell’industria estrattiva che essendo al tempo stessi produttori e acquirenti, hanno tutto l’interesse a fare uscire dal paese prodotti a basso prezzo che poi generano guadagni nelle fasi di rivendita successiva sotto forma di dollari riparabili nei paradisi fiscali. E per non lasciare le cose a metà, Macri tolse anche tutti i limiti alle esportazioni creando una situazione concorrenziale fra la domanda interna e quella internazionale che ebbe la peggio per la domanda interna. Il prezzo interno di soia e cereali crebbe addirittura del 150% mettendo in crisi non solo i consumatori finali, ma anche l’industria intermedia della carne. Contemporaneamente anche le importazioni vennero rimesse in totale libertà e nonostante la svalutazione del pesos, i manufatti stranieri invasero l’Argentina mettendo in crisi settori chiave del paese come l’industria tessile, meccanica e calzaturiera. La conclusione è stata che fra il 2016 e il 2017 le importazioni hanno superato di gran lunga le esportazioni generando un deficit commerciale verso l’estero per 14 miliardi di euro.

Ma le cose sono andate di male in peggio anche sul piano sociale e finanziario. Sul piano sociale il paese sta registrando una crescita della disoccupazione per licenziamenti non solo in ambito  privato, ma anche pubblico come conseguenza del dogma neoliberista che impone allo stato di ridurre la sua presenza in tutti gli ambiti, sia quello dei servizi che del sostegno sociale. E’ del dicembre 2017 una sforbiciata alle pensioni di anzianità e ai contributi a favore delle categorie svantaggiate con contemporanea soppressione delle integrazioni a luce, acqua e gas che hanno rappresentato una vera mazzata per i salari già bassi e taglieggiati da un inflazione che fra il 2016 e il 2017 è stata del 65 per cento.



La giustificazione del governo è che deve risparmiare per riportare i conti pubblici in pareggio considerato che nel 2016 ha registrato un deficit di 32 miliardi di dollari, 6,3 per cento del Pil. Un male non casuale considerato il minor gettito fiscale dovuto ai tagli di imposta sulle esportazioni e sui redditi più alti e il maggior esborso per interessi su un debito pubblico che sta crescendo, non per finanziare servizi e opere pubbliche a vantaggio della collettività, ma per ripristinare riserve in dollari che si stanno prosciugando a causa della possibilità data alle classi agiate di accumulare dollari all’estero. Un film già visto al tempo della giunta militare.

mercoledì 25 aprile 2018

America Latina - Insurrezioni silenziose

Una giovane indigena nasa della regione andina nel sud-ovest della Colombia. Foto el tiempo.com

di Raúl Zibechi

I grandi cambiamenti cominciano sempre da piccoli movimenti invisibili agli analisti che stanno in alto e ai grandi media, come segnala uno dei comunicati dello zapatismo. Prima che migliaia di persone occupino i grandi viali succedono processi sotterranei, dove gli oppressi “saggiano” le sollevazioni che dopo rendono visibili negli eventi di massa che l’accademia chiama movimenti sociali.

Quei cambiamenti succedono nella vita quotidiana, sono prodotti da gruppi di persone che hanno delle relazioni dirette tra di loro, non sono facili da scoprire e non sappiamo mai se si trasformeranno in azioni di massa. Nonostante ciò, nonostante le difficoltà, è possibile intuire che qualcosa sta cambiando se aguzziamo i sensi.

Qualcosa di questo genere sembra star succedendo in alcuni paesi dell’America Latina. Un compagno brasiliano ha considerato, durante un incontro di geografi con i movimenti sociali (Simposio Internazionale di Geografia Agraria – SINGA), che in questo paese siamo di fronte ad una “insurrezione silenziosa”. L’intuizione si basa su fatti reali. Nel seno dei movimenti sociali e negli spazi più poveri della società, le donne e i giovani, sono protagonisti di cambiamenti, si stanno spostando dal luogo assegnato loro dallo stato e dal mercato.

I veri movimenti sono quelli che modificano il luogo delle persone nel mondo, quando si muovono in collettivi e strappano le tessiture della dominazione. A questo punto, si deve mettere a verbale che non c’è una relazione diretta o meccanica di causa-effetto, giacché nelle relazioni umane le predizioni non sono possibili per la complessità che contengono e per l’interazione di una molteplicità di soggetti.

Negli ultimi anni ho potuto osservare questa tendenza di cambiamenti silenziosi all’interno di vari movimenti. Tra gli indigeni del sud della Colombia, gruppi di giovani nasa e misak ri-intraprendono la lotta per la terra che era stata paralizzata dalle direzioni, focalizzate sull’ampliamento delle relazioni con lo stato che fornisce loro abbondanti risorse. Qualcosa di simile sembra stare succedendo nel sud del Cile, dove una nuova generazione mapuche affronta la repressione statale con rinnovate forze.
Donne mapuche in Cile. Foto: http://www.cooperativa.cl


Tra i movimenti contadini consolidati, dove esistono potenti strutture di direzione, donne e giovani stanno intraprendendo dibattiti e proposte di nuovo tipo, che includono la mobilitazione e l’organizzazione delle persone che si definiscono LGTB (lesbiche, gay, transessuali e bisessuali).
Osserviamo anche un crescente attivismo in seno ai movimenti tradizionali dei militanti neri che costruiscono quilombos  e palenques (1), ma anche nelle università, come si può apprezzare nelle accademie brasiliane e colombiane dove aprono propri spazi.

Durante la “escuelita” ci hanno spiegato che la metà degli zapatisti hanno meno di 20 anni, una cosa che abbiamo potuto apprezzare. La partecipazione delle donne giovani è notevole. Coloro che hanno partecipato agli incontri di arte e scienza convocati dall’EZLN mettono in evidenza questa realtà. In altri movimenti appare l’organizzazione di bambini e bambine con assemblee che escludono i più grandi.

Che riflessioni possiamo fare su questa insurrezione silenziosa, che abbraccia tutta la società e in modo particolare i movimenti antisistema?  Senza pretendere di esaurire un dibattito incipiente, propongo tre considerazioni.

La prima è che le ribellioni in corso delle donne, dei popoli neri e indigeni e dei giovani di tutti i settori popolari, stanno avendo un impatto all’interno dei movimenti. Da un lato, stanno producendo un necessario ricambio generazionale senza allontanare i fondatori. Dall’altro, quel ricambio va accompagnato da modi di fare e di esprimersi che tendono a modificare l’azione politica verso direzioni che, per lo meno chi scrive queste righe, non è capace di definire con chiarezza.

La seconda è di carattere qualitativo, strettamente relazionata con la precedente. L’irruzione giovanile/femminile è portatrice di domande e culture elaborate all’interno dei movimenti, con sue proprie caratteristiche. Le donne in basso, per esempio, non innalzano il classico discorso femminista, né quello dell’uguaglianza né quello della differenza, ma qualcosa di nuovo che non mi azzardo a concettualizzare, anche se ci sono coloro che menzionano femminismi comunitari, neri, indigeni e popolari.
Il desiderio dei giovani zapatisti di mostrare le loro musiche e danze, è qualcosa di più di una questione artistica, allo stesso modo delle loro domande sulla scienza. In alcuni casi, come il mapuche o il nasa, si possono osservare cambiamenti che, da fuori, possiamo valutare come una radicalizzazione che non si focalizza solo sulle forme dell’azione politica, ma anche nel recupero di tradizioni di lotta che erano state quasi abbandonate dai loro anziani.

La terza, e forse la più importante, è che l’irruzione di quelli in basso, giovani e donne, va profilando un’altra concezione di rivoluzione, che si allontana dalla tradizionale teoria della rivoluzione di stampo leninista. Qui appare un’altra questione: come si fa politica in chiave quilombo/palenque? Come è la politica in chiave donna? Non mi riferisco alla partecipazione delle donne e dei giovani in basso nelle strutture già esistenti.

Le risposte le daranno gli stessi popoli, che stanno aprendo nuovi cammini, anche se l’analista in alto tende sempre a vederli con occhi e concetti del passato. Si tratta di costruire più che di occupare le istituzioni esistenti. Si vanno creando mondi nuovi o società nuove, se si vogliono nominare con i concetti di prima: poteri propri, giustizia propria in base, molte volte, a tradizioni e in altre al senso comune dei popoli; sanità, educazione e modi di occupare lo spazio in base a logiche non capitaliste.
Il mondo, il nostro mondo, sta cambiando in modo accelerato. Rifiutare quei cambiamenti, sarebbe come annullare la capacità trasformatrice che sta sotterrando il capitalismo ed erigendo un mondo nuovo sulle sue macerie.

(1) Oggi vengono definiti nuovamente con questi nomi, e con diversi altri ancora, alcuni spazi comunitari che assumono, in modo molto vario e anche molto diverso tra loro, alcune delle caratteristiche di esperienze di resistenza storica al dominio coloniale come le comunità di schiavi africani fuggiti dalle piantagioni in Brasile o i luoghi isolati e difendibili dove si rifugiavano gli schiavi neri fuggitivi a Cuba. Per approfondimenti si può leggere, tra l’altro, qui e qui (ndt)

Traduzione: Comitato Carlos Fonseca, che ringraziamo molto

Fonte: La Jornada
tratto da Comune.info

martedì 27 marzo 2018

Brasile - Perché hanno deciso di uccidere Marielle

La profonda indignazione popolare, in Brasile e nel mondo, ha impedito la manovra dei media nazionali volta puntualmente a far annegare l’esecuzione di Marielle Franco nel generico pantano dell’insicurezza. Alcuni giorni prima dell’assassinio della femminista, una sua consulente era stata avvicinata da un uomo che le aveva chiesto in tono minaccioso se lavorasse con la consigliera Franco, quella che aveva denunciato il comportamento del battaglione della Polizia Militare di Río de Janeiro nel quartiere di Acarí, considerato il più letale dello Stato. L’esecuzione di Marielle, così come la totale consegna degli enormi problemi della sicurezza della città Río de Janeiro nelle mani dei militari, è allo stesso tempo un laboratorio, che serve a misurare la reazione popolare alla repressione, e una minaccia per intimidire chi resiste alle nuove politiche

Foto tratta da Kaos en la Red

di Silvia Adoue*

I passi precedenti

A questo punto, in tutto il mondo si sa che Marielle Franco aveva 38 anni. Che era nera. Che era nata nella favela di Maré. Che era femminista. Che aveva una figlia adolescente e una moglie. Che si era laureata in sociologia. Che aveva terminato il suo master facendo una ricerca sulla politica di installazione nelle favelas delle Unità di Polizia Pacificatrice. Che per molti anni era stata consulente del deputato Marcelo Freixo, del Partito Socialismo e Libertà, colui che aveva indagato il modo di agire delle “milizie” che controllano e lucrano su quei territori e agiscono come sicari. Che, candidata per il medesimo partito, divenne la quinta consigliera più votata della città di Río de Janeiro con più di 46 mila voti, dei quali 16 mila erano del suo quartiere. Che tanto lei come Marcelo Freixo si occupavano specialmente della sicurezza pubblica, e della violenza della polizia.



Nella sua dissertazione del master, Marielle scrisse che le Unità di Polizia Pacificatrice, distaccamenti installati nei territori a partire dal 2008, ben lontane dal combattere la criminalità, rafforzano il modello di “Stato Penale”: “Il segno più emblematico di questo quadro è l’assedio militarista nelle favelas e il crescente processo di incarceramento, nel suo senso più ampio”. Per lei, quella politica:

“per il discorso della ‘insicurezza sociale’, applica una politica diretta alla repressione e al controllo dei poveri [… per] contenere gli insoddisfatti o ‘esclusi’ dal processo […] sempre più collocati nei ghetti delle città e nelle prigioni.”

Il mese passato, il governo federale è intervenuto militarmente nello stato di Río de Janeiro, nel settore della sicurezza pubblica, con la giustificazione di mettere fine al narcotraffico. L’argomento non sembrava convincente, giacché altri stati presentavano una maggiore incidenza di azioni di organizzazioni dedite a quella pratica. Il contesto è di bancarotta delle casse dello stato di Río, con impiegati pubblici che da mesi non ricevono il salario. Durante il carnevale, c’è stata una proliferazione di murghe di quartiere e di Scuole di Samba ufficiali che hanno criticato il governo, per la sua controriforma del lavoro, e i grandi mezzi di comunicazione poiché manipolano l’opinione pubblica. Il governo aveva bisogno di una “agenda” che gli permettesse di guadagnare tempo per approvare la controriforma della previdenza, regolata, come le altre controriforme, per tutti i paesi della nostra regione.

Ricordiamo il ruolo da protagonista che ebbe l’Esercito brasiliano nell’intervento militare ad Haiti, agendo nella repressione delle aree urbane. La rete di organizzazioni comunitarie dello stato temeva che, così come era avvenuto nel passato, invece di combattere il narcotraffico, l’intervento straripasse in maggiore truculenza contro la popolazione della periferia. Il governo annunciò di istituire ordini di perquisizione collettivi, che abbracciassero grandi aree delle favelas. Dovette retrocedere, la proposta non ha consistenza legale. Il comandante dell’Esercito, generale Eduardo Villas Bôas, giunse a dire che era necessario che i militari avessero una garanzia che in futuro non sorgesse una “nuova commissione della verità”, che indagasse il loro modo di agire durante questa azione a Río de Janeiro.

Durante le settimane che precedettero la sua esecuzione, Marielle, come era affettuosamente chiamata la consigliera, stava denunciando le pratiche del 41° Battaglione della Polizia Militare di Río de Janeiro nel quartiere di Acarí, considerato il più letale dello stato. Dopo l’assassinio, molti dirigenti comunitari di Acarí e di altri quartieri hanno dovuto cautelarsi, perché sono minacciati. A Río de Janeiro, solo nel primo trimestre del 2017, ci sono stati 577 casi di morte di civili in “atti di resistenza”, qualcosa come “scontri” creati, figura che è considerata un eufemismo per “esecuzioni”. È il crimine che è più cresciuto nello stato relativamente al primo semestre dell’anno precedente: 45%. Marielle era diventata anche relatrice della Commissione della Camera Municipale che sarebbe servita come osservatorio dell’intervento militare.



Alcuni giorni prima della sua esecuzione, una consulente della consigliera era stata avvicinata da un uomo che le chiese con tono minaccioso se lavorasse con Marielle Franco. La settimana precedente, un consigliere che aveva avuto il suo mandato annullato, poiché apparteneva alle “milizie”, entrò nella Camera Municipale senza autorizzazione né con un consistente motivo. E la notte di mercoledì scorso l’attuale marito dell’ex-moglie di questo consigliere fu giustiziato in un ristorante. Nessuno darebbe molta importanza a questi episodi se la medesima notte di mercoledì non avessero giustiziato Marielle.

La rotta delle munizioni

venerdì 16 marzo 2018

Argentina - Una sentenza gravissima

Una sentenza gravissima, quella che concede l’estradizione in Cile per Facundo Jones Huala, dirigente politico della comunità mapuche di Cushamen, nella Patagonia argentina. Se anche il ricorso alla Corte Suprema venisse respinto, Facundo finirebbe nelle carceri cilene, dove la resistenza del suo popolo viene solitamente considerata e giudicata come terrorismo in base al lascito legislativo del tempo di Pinochet. La prima richiesta di estradizione era stata respinta dopo l’accertamento delle torture subite da un testimone chiave nel castello di accuse costruite contro il lonko mapuche. Nora Cortiñas, una delle più note Madri di Plaza de Mayo, ha voluto assistere di persona all’udienza e ne ha giudicato vergognoso l’esito. Poi ha detto che le affermazioni fatte in aula da Facundo Huala sono invece “una lezione di storia”, che merita di essere ascoltata integralmente nell’incontro di piazza settimanale che le Madri tengono tutt’ora nella capitale argentina

Facundo Jones Huala

di Patrizia Larese

Il tribunale di Bariloche, città della regione del Rio Negro nella Patagonia argentina, ha deciso di accogliere la richiesta di estradizione in Cile di Facundo Jones Huala, lonko (leader politico) della comunità mapuche Pu Lof in Resistenza di Cushamen, nei pressi di Esquel, regione del Chubut (Argentina).

L’applicazione della sentenza di estradizione è stata sospesa per consentire il ricorso alla Corte Suprema di Giustizia da parte della difesa del leader indigeno che chiederà anche la sua scarcerazione.

Sulla testa del lonko pende dal 2013 un ordine di cattura firmato dal giudice federale di Bariloche, Gustavo Villanueva, per alcuni fatti accaduti quello stesso anno nella regione dell’Araucania (Cile): dalla detenzione illegale di armi e munizioni di fabbricazione artigianale all’incendio di una casa nel fondo Pisu Pisuè, a San Bueno del Cile. Insieme a lui erano finiti in manette altri cinque mapuche cileni, scarcerati però dopo pochi mesi per mancanza di prove.

Nell’agosto 2016 Facundo Jones Huala era stato imputato nel primo processo per la definizione della richiesta cilena di estradizione ma, a causa delle accertate torture da parte della polizia subìte tempo prima da un testimone chiave, Gonzalo Cabrera di Gualjainam, nel dipartimento di Cushamen, affinché rendesse false dichiarazioni, il giudice federale di Esquel, Guido Otranto, ritenne di non accogliere la richiesta e così il lonko era stato in un primo tempo rimesso in libertà. Alle udienze era presente anche il Premio Nobel per la Pace, Adolfo Pérez Esquivel, sempre vicino alle lotte dei popoli nativi.
La decisione del tribunale di Bariloche dello scorso 7 marzo ha generato vibrate proteste nella comunità mapuche che anche nella Patagonia argentina lotta per il recupero delle terre ancestrali ora di proprietà di imprese straniere, tra cui l’italiana Benetton.



Isabel Huala all’esterno del Tribunale, subito dopo aver appreso la sentenza sull’estradizione del figlio. 
Foto Gustavo Zaninelli

Facundo Jones Huala si è sempre dichiarato innocente ed il suo avvocato, Sonia Ivanoff, specializzata nella difesa dei popoli indigeni e vicepresidente della AADI (Asociación de Abogados/as de Derecho Indígena de la República Argentina) ha dichiarato: “Il giudice Villanueva ha dato la sensazione di avere preso la decisione a prescindere, senza nemmeno ascoltare la nostra posizione.

Durante l’udienza Facundo, in sua difesa, ha detto: “Qui non c’è terrorismo, qui c’è un popolo stanco, che si difende con quello che ha: un arsenale di pale, machete, motoseghe, arnesi da lavoro. Siamo gente che lavora. Questi stessi attrezzi hanno costruito questa palestra. Cosa possiamo aspettarci dalla giustizia corrotta di un altro paese, quando uno percepisce che è la stessa legge della dittatura, del dittatore Pinochet del 1975? È totalmente incostituzionale. Cosa possiamo aspettarci da un paese che non può garantire la giustizia e il giusto processo con i diritti costituzionali. Continuerò ad incitare tutti i miei fratelli mapuche a sentirsi orgogliosamente mapuche, che non dimentichino il coraggio di Rafael Nahuele che seguano il suo cammino. Se io non fossi stato malato sarei stato lì dove si trovava Rafael. Non mi importa di essere in prigione per la mia gente. Questo sono, sono quello che ci ha lasciato Calfupan. Siamo i loro figli, nipoti, i loro discendenti e in questa terra continuerà a nascere sangue mapuche. Questa terra è, è stata e continuerà ad essere territorio mapuche. I Mapuche continueranno a organizzarsi politicamente in entrambi i versanti della cordigliera, non importa se sono in prigione o no. Dicono che siamo terroristi, ma noi non lo siamo. Io chiedo, se siamo terroristi, dove sono i morti? I morti sono sempre nella nostra comunità. Se questo non è un processo politico, cos’è?”.

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!